A Gaza si
muore e l’Onu tace.
di Patrizia Cecconi
Foto di Patrizia Cecconi |
In questo momento, ora
locale 2 del pomeriggio, si stanno svolgendo i funerali dell’ultima mattanza
israeliana, regolarmente e impunemente annunciata, in risposta alla marcia
pacifica del popolo di Gaza che chiede il rispetto delle Risoluzioni Onu. Ma
l’Onu, al di là della ridondanza del nome e dei palazzi che occupa, è
un’organizzazione timida, e di fronte a Israele si limita, quando lo fa, ad
esprimere qualche rimprovero, e generalmente a posteriori! Chiunque conosca
anche soltanto l’alfabeto del Diritto, sa che senza sanzioni non c’è efficacia
della norma. Anche all’Onu lo sanno bene e infatti in molti casi le sanzioni
scattano anche per una sola Risoluzione violata. Ma Israele no, Israele ne ha
violate molte decine, praticamente tutte quelle che lo riguardano e questa
continua violazione senza sanzioni è in parte la causa del discredito ormai
evidente che ha reso l’Organizzazione delle Nazioni Unite simile a un orso
addestrato, capace di mostrare la sua imponente figura, ma muovendo i passi
decisi dal suo addestratore. Questo è il regalo che Israele ha fatto al mondo,
mentre sua intenzione era soltanto quella di liberarsi dei palestinesi scomodi.
Ieri,
secondo venerdì della “grande marcia del ritorno” l’esercito israeliano ha
ferito ancora un migliaio di manifestanti pacifici e ne ha uccisi almeno sette.
Il numero potrebbe crescere anche mentre noi scriviamo, perché pare che alcuni
dei proiettili usati siano del tipo butterfly, vietati. Ma questo non è un
problema per chi ha usato il fosforo bianco per bruciare vivi un bel numero di
bambini nell’ultima aggressione militare. Pare che anche Yaser Muntaja, il
giovane giornalista palestinese ucciso ieri mentre filmava la marcia a Khuza’a,
nei pressi di Khan Younis, sia stato colpito all’addome da un proiettile
butterfly. Così ci dicono dall’European Gaza Hospital in cui hanno provato a
salvarlo, ma senza successo.
Yaser
portava il giubbetto con la scritta PRESS e quindi era ben riconoscibile. Qui a
Gaza molti avanzano l’ipotesi che proprio quella scritta l’abbia reso target
per i cecchini. Non sappiamo se ciò sia vero, ma sappiamo quanto Israele tema
il resoconto reale dei fatti, capace di interrompere la vulgata offerta dagli
opinion makers internazionali tra cui, triste a dirsi, quelli italiani
brillano.
L’Italia
delle testate mediatiche importanti non ha nessun inviato nella Striscia di
Gaza per cui le notizie fornite non sono testimonianze ma solo opinioni,
opinioni acquisite sotto dettatura e contrastanti con quella realtà che Yaser
Muntaja spandeva per il mondo attraverso i social. Con lui sono stati feriti
altri giornalisti palestinesi col giubbetto ben in vista e questo rinforza
l’ipotesi che quella scritta sia stata un target piuttosto che una protezione,
visibile nonostante il fumo nero di migliaia di pneumatici bruciati come
tattica difensiva dai manifestanti. Proprio due giorni fa testimoniavamo la
determinazione a resistere verificata di persona a Khuza’a e osservata durante
una delle normali serate del “popolo degli accampamenti” che partecipa alla
grande marcia. E proprio a Khuza’a, cittadina massacrata oltre ogni dire
durante l’aggressione del 2014, è stata spenta la voce di un testimone
mediatico tanto bravo quanto scomodo. Questo venerdì la nostra testimonianza
riguarda il concentramento di Al Breji, Nusseirat, nella zona centrale della
Striscia, dove l’esercito occupante ha fatto 5 martiri la scorsa settimana e 2
ieri oltre a 118 feriti. Quel che abbiamo potuto osservare, e che è
testimoniato da migliaia di foto che girano nei social oltre alle nostre, è
stata la tattica difensiva usata dai
gazawi per limitare gli effetti micidiali dei tiratori scelti: un nutrito
gruppo di giovani uomini e donne, facendosi scudo col fumo dei copertoni, si è
avvicinato il più possibile al border, restando più o meno a cento metri, sempre all’interno della linea d’assedio, e
lì ha dato fuoco a centinaia di pneumatici. Dietro di loro e per una distanza
di diverse centinaia di metri, si svolgeva il pacifico e quasi festaiolo
concentramento di qualche migliaio di manifestanti. I lacrimogeni superavano
comunque la cortina di fumo e arrivavano all’interno della pacifica
manifestazione colpendo anche chi stava
semplicemente osservando. I nuovi gas usati da Israele sono micidiali e se
inalati senza protezione provocano delle strane convulsioni che i medici dello
Shifa Hospital stanno cercando di curare. Le maschere artigianali fatte
indossare ai bambini hanno una loro efficacia ma solo se l’uso dei gas non è
massiccio. Tra fumo nero dei copertoni, fumo bianco dei lacrimogeni, diversi
colpi di fucile sparati dai cecchini, sirene delle ambulanze che raccoglievano
i feriti, tende con i nomi dei villaggi
distrutti e solenne e commossa
commemorazione dei 5 martiri dello scorso venerdì, la manifestazione ha
seguitato a svolgersi incredibilmente come una grande festa. Bancarelle con i
falafel, i lupini e le nocciole, bancarelle e carretti con frutta fresca,
musica, caffè e perfino un clown che mostrava ai bambini come indossare la maschera
quasi-anti-gas e, infine, una cosa che forse in occidente sembrerà incredibile:
il barbiere mobile. Sì, alla grande marcia per il diritto al ritorno ci si può
anche sedere e far tagliare i capelli. Dietro la sedia, il cartello col prezzo
e il nome del barbiere. Questa scena ci ha regalato un sorriso, anche se poco
prima un candelotto israeliano ci aveva spaccato il parabrezza nonostante
fossimo a notevole distanza dalla linea di fuoco. Mi sono chiesta come ci si
possa illudere di sconfiggere un popolo così!
Passi per le bancarelle, l’offerta del caffè e pure il clown, ma il
barbiere da manifestazione è il massimo. O li ammazzano tutti o non ce la
potranno mai fare!
Dopo
il tramonto, quando ormai si spera che l’esercito si ritiri, si va all’ospedale Al Aqsa, dove le ambulanze della zona
centrale portano i feriti. Da un’ambulanza è caduta una scarpa. E’
insanguinata. Quando si muore il piede si rattrappisce e si perdono le scarpe. E’ la scarpa di uno dei due martiri che non
ce l’hanno fatta. Vengono portati via correndo su una barella coperta da un
telo diventato rosso di sangue. Corrono tutti, sia fuori che dentro l’ospedale.
Molti sono volontari. Molti lo sono pur essendo dipendenti dell’ospedale,
perché non prendono più lo stipendio in seguito ai tagli dell’UNRWA e alla
politica punitiva di Ramallah che l’attentato-farsa del mese scorso ha
ottusamente rilanciato.
Non
prendono salario né alcuni infermieri né alcuni medici ma non fa niente, sono
lì e cercano di ridurre il danno su corpi centrati dai cecchini israeliani.
Centrati in modo che sembra scientifico: il bacino, con conseguente
asportazione o riduzione della funzionalità dell’apparato genitale, e le gambe
nei punti giusti per restare invalidi, come la rotula. Stentiamo a credere che
sia voluto e quindi ci limitiamo a riferire quanto ci viene detto dal personale
sanitario. Non obiettiamo. Ci troviamo di fronte a situazioni troppo tristi per
farlo, come l’uomo cui hanno dovuto amputare entrambe le gambe, il giovane in
coma farmaceutico operato al bacino e alla gamba e a rischio di sopravvivenza,
l’uomo operato alla gamba che sa di restare invalido e ha 6 bambini, quello
operato al fegato per un proiettile che gli ha attraversato il corpo
lasciandolo vivo, e anche il ragazzo che non sa come uscirà dall’ospedale né
quando né se, ma che riesce a fare un sorriso e a dire shukran, cioè grazie per
il supporto dell’Italia.
Per
pura umana comprensione non precisiamo che il nostro governo è complice di
Israele, ma diciamo soltanto che il popolo italiano che conosce la situazione è
con loro. Anche i medici ci ringraziano,
e chi scrive non ha il cuore di dirgli che non è l’Italia intesa come Stato né
tanto meno come governo a mandare il suo saluto, ma solo quel pezzetto d’Italia
che esce dalla narrazione israeliana ed è solidale con la loro lotta. Non
possiamo dirglielo in questo momento. Le parole giuste da dire alle famiglie
non ci sono, o almeno chi scrive non le trova, ma l’interprete è bravissima e
riesce a trasmettere in arabo quello che in inglese suona solo come frase di
circostanza. Usciamo e sappiamo che se la rete ce lo consentirà passeremo la
notte a scaricare video e foto per testimoniare di un’altra giornata che poteva
essere di festa se la legalità internazionale avesse vinto sulla legge del più
forte.
Uscendo
i nostri occhi cadono ancora su quella scarpa sporca di sangue. È una scarpa da ginnastica, è quasi nuova. Forse
portava i passi di un altro sognatore oggi diventato martire. Come Yasser, il
giornalista ucciso a Khuza’a, o come Mohammed, lo scultore ucciso lo scorso
venerdì. O come tutti gli altri martiri di questa marcia che avendo vinto la
paura seguitano ad andare a mani nude di fronte a un nemico armato e micidiale
per chiedere al mondo di svegliarsi.