EDUCARE E
PUNIRE
di Fulvio Papi
Con questa nota so che mi
troverò in netto contrasto con due potenze intellettuali che, nella maggior
parte dei casi, ho sempre considerato essenziali e con le quali ho per lo più
identificato il mio pensiero e, per quel “quasi nulla” che è, la mia azione.
Sto parlando in senso lato dell’umanesimo laico e dell’umanesimo religioso. Nel
primo caso -è ovvio ricordarlo- esso deriva dalle conquiste e dalle distruzioni,
dai pensieri e dalle sofferenze tragiche della nostra storia. Nel secondo caso
dalla misericordia di Dio che è “interpretata” da chi ha il compito gravissimo
di rappresentarla in terra.
Ecco
la ferocia e la crudeltà della guerra, la sofferenza della povertà più iniqua,
la mancanza delle più elementari condizioni di giustizia, l’indignazione di
leggere nell’opera di specialisti che la forma che ha assunto l’economia
mondiale ha aumentato la dovizia dei ricchi e diminuito (ancora) la povertà dei
poveri. E, mi spiace proprio se sarò frainteso, ma non ho mai visto quegli
operai, che per anni ho visto scendere da vergognosi treni locali qui a
Lambrate in primissimo mattino per andare al lavoro dai 16 anni ai 60 passati,
essere chiamati per un decoroso riconoscimento nei saloni prestigiosi dei
palazzi romani, dove arrivano -giustamente- sportivi di valore, studenti in formazione,
ricchi e potenti imprenditori (e il lavoro di chi è?) eccetera. Non desidero
offendere minimamente persone per le quali ho rispetto massimo e devozione
civile, ma nemmeno quel desiderio di verità che non credo vada soppresso.
È
con questo spirito di giustizia che vorrei avanzare qualche osservazione
intorno al tema immenso della colpa. Nessuno deve pensare che qui voglia anche
solo accennare al tema filosofico della colpa da Abramo a Kafka, e nemmeno a quello
che a me pare un difficile intrico della giustizia positiva. È però necessario
osservare che la colpa (a meno che non sia quella radicale di esistere) ha una
notevole e differenziata forma di definizione secondo le culture in senso antropologico,
le concezioni storiche in senso politico, le sensibilità dei poteri, le
relazioni sociali e molto in generale la spinta pubblica. Questa è una
considerazione intuitiva, ma se fosse sufficiente un esempio basterà evocare la
sorte delle “streghe” bruciate nel Medioevo per comprendere che quello spirito,
che a noi pare aberrante, ai tempi era, con diverse sensibilità e
argomentazioni, una solidarietà tra coloro che comminavano la condanna e lo
spirito pubblico. È difficile dire in altri casi a quale livello potrebbe
essere intrecciata questa solidarietà che spesso, nel grande pubblico, si
trasforma in indifferenza, come nei casi politici di imputazione di
colpevolezza nei confronti del potere.
Questo
ragionamento potrebbe essere proseguito analiticamente, tuttavia è forse
sufficiente per comprendere come certi concetti che in filosofia possono essere
determinati come “trascendentali” in una data epoca siano vissuti secondo una
sensibilità, un consumo o una contestazione di natura sociale. Non è che questa
sia una perfetta armonia, ma non può essere, in regimi politici tollerabili,
una totale opposizione. Per quanto mi riguarda, credo di poter dire che vi è un
notevole abbassamento della concezione sociale della colpa: in alcuni casi mi
sembra positivo, in altri del tutto intollerabile. Questo sentimento spesso è
condiviso dall’opinione pubblica rispetto alla amministrazione della giustizia
positiva, e si potrebbero fare decine di esempi. Questo vuol dire che vi è una
differente percezione morale, sociale e intellettiva del concetto di colpa.
Potrei fare un’analisi molto minuta, ma mi limiterò nella estensione del mio
argomentare.
È
un luogo comune, che ha fondamenti culturali e storici, che la pena che viene
comminata è da comprendere nel suo senso più profondo, con un processo di “rieducazione”.
Concepito come un compito assoluto e generalizzato nella totalità dei casi, è
un lacerto metafisico di lontana ascendenza rousseauiana che si collega con l’interpretazione
del concetto generale di colpa e, naturalmente, con la prassi giudiziaria.
Desidero
qui soffermarmi brevissimamente sul tema del rapporto tra rieducazione sociale
e punizione. Entrambi devono essere riconsiderati in una prospettiva priva di
qualsiasi eccesso metafisico. Occorre usare “quantitativamente” i due concetti
secondo la pluralità dei casi, il che realizzerebbe l’assioma che la legge è
uguale per tutti nella sua concretezza fattuale. Il progetto di rieducazione,
come del resto già accade, va declinato con l’attività lavorativa, dove si forma
un determinato sapere tecnico e una forma positiva di auto riconoscimento, tenuto
conto che nemmeno questo progetto ha la certezza della gravità Newtoniana, ma
apre una direzione possibile che mostra buoni livelli percentuali di riuscita. Tuttavia
vi sono reati che non si devono interpretare in questa dimensione di assiologia
etica, ma secondo la prospettiva di una intollerabile aggressione che non è mai
“personale”, ma il cui senso è sempre sociale. In questo caso la risposta non
può che derivare da una elevazione del concetto di colpa che come risposta
esige quello di punizione (e che sia punizione). Non temo affatto i giudizi dei
“libertari” a qualsiasi costo, perché so che un regime libero richiede non solo
l’applicazione di criteri sociali che giustamente derivano dal concetto di
libertà, ma anche la difesa della libertà che ognuno deve poter godere senza
timori fuori luogo. Non voglio ostentare competenze che non ho (e che in più di
un caso non hanno forse nemmeno alcuni cui spetterebbe d’obbligo), ma una
rivisitazione anti-metafisica e anti-totalitaria dei concetti di “rieducazione”
e “punizione” sarebbe in proporzione con una riconsiderazione meno distratta e
superficiale del concetto di colpa, e similmente -come credo di aver detto- di quello
di merito, che costituiscono entrambi una forma democratica dell'educazione
sociale.