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domenica 25 novembre 2018

IL TEMPO DI SCELBA. LA STORIA RIMOSSA?
di Fulvio Papi

Mario Scelba

Scrivere storia dipende non poco dalla situazione sociale e culturale con cui la figura dello storico si trova di fatto a entrare in contatto più o meno diretto. Una qualsiasi bibliografia storica evidenzia con chiarezza questa condizione che, a sua volta, quasi necessariamente, è bene cercare di comprendere, senza farsi condizionare da alcun pregiudizio. Per esempio temevo che a una situazione etico-politica come la nostra, contemporaneamente pericolosa e volgare, potesse corrispondere un inaridirsi della ricerca storica. Non è affatto vero che gli storici più anziani conservano tutti la loro preziosa competenza e la misura del giudizio, i più giovani, rappresentati soprattutto da professoresse di notevole valore, sanno aprire la ricerca a spazi nuovi con domande eticamente elevate e con ricerche puntigliose. La televisione apre loro lo spazio di una rubrica storia quotidiana (“Rai Storia”) al cui appuntamento non manco mai con una aspettativa fiduciosa. Proprio per questo la serata dedicata alla figura di Mario Scelba, ministro degli Interni nel governo De Gasperi dopo la fine della collaborazione con PSI e PCI, e poi oltre, pur nei limiti televisivi, non mi è parsa esauriente. Il titolo della trasmissione era “Il ministro della Celere” e i protagonisti parlando di Scelba lasciavano scorrere una certa leggerissima ironia che andava oltre il messaggio centrale il quale diceva che il ministro, dopo le venture del nostro paese del ’43-’45, voleva restaurare l’autorità dello stato. Fino dai Greci sappiamo che c’è stato e stato, ma il problema è come “restaurare”. Ed era qui che la riflessione meritava un approfondimento che avrebbe portato qualche luce politica sull’Italia di allora. Nessuno può negare che in quel periodo non furono poche le manifestazioni pubbliche della sinistra e dei sindacati, talora turbolente ma mai eversive. Un politico di governo non poteva ignorare che il partito comunista aveva fatto una scelta costituzionale definitiva che veniva, non poco opportunisticamente, rappresentata dal rapporto Gramsci-Bordiga. Inoltre non vi era alcuna possibilità che la sinistra potesse alterare il rapporto di alleanze dello stato italiano. 


Un conto è il dire e l’agitarsi e un altro quello che si può fare. In questa situazione l’interpretazione che il ministro diede all’autorità dello stato fu quella del dominio della piazza e della persecuzione possibile e anche violenta di ogni iniziativa delle opposizioni. In quella trasmissione è stato detto che Scelba cacciò dalla polizia gli ex partigiani come non affidabili ai suoi scopi. Ma quanti furono i fascisti o filo-fascisti che integrò nei ruoli? È incancellabile l’impressione che egli avesse una personale insofferenza nei confronti del movimento operaio e una totale contrarietà a quel clima politico che Nenni chiamò “vento del Nord”. La sua politica aggressiva e violenta fu certamente usata dalla DC per tenere alto il livello di scontro con la sinistra. E anche questo andrebbe osservato, ma il ministro vi aggiungeva la sua avversione propria di un notabile siciliano di bassa cultura. Il contrario del letterario principe di Salina ne Il gattopardo. Ci vorrebbe l’informazione di uno storico di professione per ricordare tutte le violenze che caratterizzarono il suo ministero che andavano al di là della garanzia dell’ordine pubblico. Qui ricorderò solo gli episodi di cui ho una informazione diretta: le ho viste anch’io le camionette della polizia a forte velocità contro i dimostranti, scena che è stata mostrata alla tivù; una disposizione che è un capitolo del suo stile complessivo. Non credo vada dimenticato l’atteggiamento assunto nel ’47 a Milano con l’allontanamento del prefetto Troilo, valoroso comandante partigiano. Ci fu certamente l’occupazione della prefettura e per qualche giorno in qualche zona un clima vagamente insurrezionale. Scelba diede ordine al comandante militare della piazza di Milano di riportare l’ordine.


Per fortuna e intelligenza il comandante militare non eseguì l’ordine che avrebbe anche potuto provocare una catastrofe. In fondo bastava che il ministro frenasse il furore per l’esistenza politica di “altri” e copiasse Giolitti al tempo ben più difficile dell’occupazione delle fabbriche. Certamente venne dal ministro degli Interni la decisione di sottoporre gli schedati militanti di sinistra e simili a un supplemento di indagini nella concessione del passaporto. Io stesso dovetti subire un interrogatorio - del resto più che benevolo - da parte dei carabinieri di un ufficio speciale nel Palazzo di Giustizia. Il passaporto escludeva il passaggio in Austria paese confinante con i paesi satelliti sovietici. A me il passaporto serviva per andare a Parigi, la Parigi di Sartre, Merleau Ponty, Camus, Simone de Beauvoir , ecc. Una cultura che il ministro chiamava “culturame” con il disprezzo tipico del “risentito” nei confronti di un livello di intelligenza che gli era precluso.  Quale distanza da un generale patriota e conservatore come De Gaule che sapeva a memoria passi di Racine e aveva un rispetto pieno nei confronti di scrittori e filosofi che gli erano contrari, e non poco!
E poi, capolavoro anti-democratico, la decisione (non so con quale apparato giuridico) di eguagliare la polizia all’esercito che, ovviamente, merita tutto il rispetto. Capitava così che una qualsiasi critica all’apparato della polizia da parte di giornalisti, era equiparata a una offesa all’esercito nazionale. La conseguenza era questa: il tribunale civile di fronte al “reato” si dichiarava incompetente e passava gli atti al tribunale militare. Ho assistito io stesso a questa scena. Finirò con due ricordi personali. Il 25 aprile del 48 andai in Piazzale Loreto, nel luogo dove nell’agosto del ’44 furono fucilati gli antifascisti prelevati da San Vittore, per celebrare la ricorrenza della Liberazione. La piazza era piena di gente del tutto pacifica. Improvvisamente la piazza venne circondata da autocarri dell’Arma dei carabinieri e altrettanto improvvisamente i militari scesero dagli automezzi e caricarono la folla usando i moschetti a rovescio come manganelli. Ci furono non pochi feriti. Lo stile era quello del ministro degli Interni, anche se l’ordine poteva provenire da un allievo locale (con nostalgie dello stato autoritario). 


Ricorderò poi una manifestazione in Piazza del Duomo attaccato dalla Celere che caricò sui suoi autocarri per portare i “prigionieri” in questura, forse solo per schedature e ammonizioni. Tuttavia circolava la convinzione che potessero essere anche picchiati da funzionari particolarmente zelanti. Nel tragitto un mio caro amico si mangiò la tessera del partito per rendere più difficile l’eventuale punizione. La cosa può far sorridere, ma questo era il clima instaurato dal ministro degli Interni. Di Scelba non ce ne importa niente, il clima sociale, politico e culturale (la polizia si presentava alla Casa della Cultura quasi dopo qualsiasi manifestazione) non va dimenticato. Appartiene alla nostra storia, né più né meno come l’operato di governi che hanno dissestato il bilancio dello stato. I silenzi o le approssimazioni non vanno bene. Se si fa così si segue l’onda prevalente dei tempi e si sbaglia, anche in buona fede quando si dimentica il granello di sabbia della critica.