di Franco Astengo
Individualismo
competitivo. Individualismo difensivo. Individualismo della paura che si
racchiude nel “branco”.
Sono
stati questi i tre passaggi che si sono via via succeduti nella rovina del
“moderno e che hanno determinato lo spezzarsi dei legami sociali, lo
sfarinamento dell’idea di elaborazione del collettivo, il riflusso nella difesa
del proprio “particolare”.
Un
particolare collegato all’odio ben oltre verso il “diverso”, ma semplicemente
rivolto verso “l’altro”. Un odio sociale arrivato al punto da far rigenerare
una forma di razzismo come sottofondo del quotidiano ed esercitato nel segno
del “comando unico” imposto dall’alto. Globalizzazione, sovranazionalità,
estensione del conflitto sociale, mutamento nella narrazione morale. Attorno a
questi fattori, parzialmente inediti sulla scena della nostra azione politica
la lettura occidentale della storia ha tentato, nel post-caduta del socialismo
reale, di rispondere (fallendo) contrabbandando come la centralità del singolo
corrispondesse alla “fine della storia” e al “mercato” quale unica forma
possibile di relazione umana. Il senso dell’appartenenza collettiva mediata
dallo Stato lasciava il posto a una nuova dialettica che si pensava potesse
risolversi semplicemente presentando la propria coscienza individuale al
cospetto dell’immutabilità di funzione del potere costituito. Prendeva così
corpo una fase di vera e propria egemonia dell’antipolitica fondata su quello
che è stato definito “individualismo competitivo”.
Una
forma specifica di affermazione dell’individuo portata in tutti i campi e in
ogni dimensione possibile ma che ha finito con il trasformare “il politico”
quale soggetto stesso in contemporanea dell’azione e della sua critica, fino a
far generare proprio da se stesso l’idea che è stata definita di
“antipolitica”.
Una
“antipolitica” intesa come richiesta di affermazione dell’egoismo.
A
fermare il fenomeno non poteva essere sufficiente il richiamo alla “ legge morale dentro di sé”. La competizione politica ridotta all’ “individualismo
competitivo” come i neo liberal avevano imposto non poteva che portare a una
degenerazione.
Degenerazione
dovuta all’assenza di protezione, all’incapacità di superare singolarmente i
grandi traumi che la fase storica imponeva a ogni passaggio, specialmente sotto
l’aspetto del mutamento delle condizioni di vita imposte dalla globalizzazione,
dall’innovazione tecnologica, dalla perdita di ruolo da parte dello Stato
sottoposto al nuovo livello di vincoli dovuti dalla sovranazionalità attuata
nel segno del potere dell’economia e della tecnica.
L’individualismo
competitivo a, questo punto, finiva con il trincerarsi dietro a un
individualismo difensivo con l’affermarsi di un collegamento sociale di stampo
corporativo: se ne rintracciano esempi in diversi sistemi politici, ma quello
più evidente rimane il caso dell’affermazione di Trump negli USA.
Non
ci si poteva però fermare a questo punto: fenomeni economici, politici,
sociali, militari che abbiamo adesso sotto gli occhi (assieme all’incapacità di
affrontare la complessità delle contraddizioni in atto) hanno condotto a quello
che, in altre sedi, si è cercato di definire come “sfarinamento sociale” e di
“disarticolazione delle ragioni del consenso e del dissenso”.
Si
è smarrito, insomma, l’asse logico del riferimento politico. Il passaggio
conseguente è stato, quindi, quello dall’individualismo difensivo
all’individualismo “della paura”. Un individualismo definibile della “chiusura
totale” e della possibilità di riconoscimento riservata soltanto fra simili.
Quale
può essere allora la possibile aggregazione in tempi di “individualismo della
paura”? Quella del “branco”, ricordando come il branco abbia sempre bisogno di
un capo-branco.
Rispetto
alla situazione italiana se s’intende ravvedere, in quest’ultima frase, un
accenno alla situazione in atto si può ben affermare che esso è voluto e non
casuale. Branco e relativo capo-branco sono il risultato di decenni di crisi
profonda della “modernità” e degli assetti culturali e politici che vi si erano
stabiliti.
Occorre
allora richiamarci in maniera diversa da ciò che sembra imposto dal vuoto
dell’attualità per recuperare la capacità dell'intellettuale di presentarsi
come portare di un pensiero concreto della pluralità, del conflitto, dell'immanenza,
del materialismo.
Si
tratta di non cedere, come intende Habermas, all'idea che dalla caduta della
modernità potrà salvarci soltanto una religione. La forza del lavoro
intellettuale deve invece essere utilizzata per chiamare a raccolta quante/i si
sottraggono, oggi, alla politica, richiamando l’impossibilità del non tirarsi
fuori dal procedere, inesorabile, della dialettica della storia.