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domenica 30 dicembre 2018

Taccuino
SUL “MESTIERE” DI SCRITTORE
di Angelo Gaccione

Angelo Gaccione
foto di Stefano Merlini Bejart (Milano, 2018)

Dunque, io sarei quel che si dice un maledetto scrittore, (non uno scrittore maledetto, questo è bene chiarirlo subito). Il mio amico Vincenzo Pardini ha scritto che quello dello scrittore non è un mestiere (io l’ho sempre definito un insano mestiere), ma “una vocazione”. Come fare il prete? (no, questa è una chiamata mistica), come curare i lebbrosi? (nemmeno, questa è una missione), come un maratoneta? (ancora no, questa è semmai una passione). La vocazione è qualcosa di più indefinito, qualcosa di più ambiguo, di più sfuggente e non riconducibile ad una oggettiva concretezza, anche se il risultato, l’esito di questa vocazione, produce un “prodotto” (la parola è orribile) concreto e oggettivo: in genere un libro fatto di fogli di carta, materiale ricavato dagli alberi, che foglie (al femminile) ne producono davvero, e che hanno una vita concreta che più concreta non si può. Io non so se è una vocazione o una passione, questo “non” mestiere; per me è stata una dannazione, questo posso affermarlo con assoluta certezza. Dannazione per gli esiti non sempre ritenuti felici da quello spietato e severo tiranno ipercritico che si è annidato in voi e non vi dà tregua, anche quando i vostri scritti sono stati ben accolti. Dannazione per l’insoddisfazione che sempre vi divora, tesi come siete verso una impossibile perfezione. Dannazione per i giorni e giorni spesi su un concetto, una frase, una singola parola. E poi delusione per come siete stati fraintesi, delusione per il silenzio su uno scritto che non l’avrebbe meritato, delusione per la superficialità dimostrata verso un lavoro che ha richiesto anni di fatica, di sacrifici, di solitudine, di tempo sottratto al riposo, allo svago, agli affetti, alla salute. Senza contare il disagio per le figure con cui siete costretti ad entrare in contatto, molte volte lontanissime dal vostro sentire, dalla vostra visione di mondo, esseri spesso insopportabili e, diciamolo pure, ripugnanti. Se poi avete conservato un briciolo di dignità morale, questo “non” mestiere che vorrebbe costringervi ad ingoiare rospi di ogni tipo, ad adulare personaggi disgustosi, a diventare servi, ad essere perbenisti, conformisti, insomma a mangiare merda, vi renderà la vita molto amara. Se avete un animo ribelle, come l’ho avuto io, non vi conviene avventurarvi lungo questo impervio sentiero, e se lo farete, dovete prepararvi ad avere spalle larghe e stomaco robusto per incassare e nello stesso tempo ribattere colpo su colpo. È facile che vi troverete ad essere stranieri in patria, a suscitare invidie, rivalse, maldicenze, a rimanere isolati. Se il cinismo non ha anestetizzato del tutto i vostri sentimenti, e se la vostra anima è ancora capace di commuoversi davanti al disumano sociale, vi farete molti nemici. La nobiltà di questo mestiere (ma non è la sola nobiltà) consiste proprio nella sua strenua resistenza al disumano. E dunque dovete scegliere da che parte stare, se non volete diventare una canaglia del potere. Ovviamente potete seguire la via più facile, quella più comoda e remunerativa, quella più opportunisticamente gratificante, ma a patto che non abbiate una sola idea che sia vostra, personale, pericolosa; che le vostre idee non abbiano alcun valore, e che siate già parte integrante del branco. Ma in questo caso voi stessi, come il mestiere che avete umiliato, non valete nulla. Dovete poi mettere in conto che non vi basterà una vita per impararlo fino in fondo, questo mestiere: è possibile che il bilancio di un’intera esistenza di scrittura sarà stato vano e che non vi sarà rimasto, alla fine, che un magro bottino. Tutto quello che ho imparato io da questa oramai lunghissima pratica, non è come scrivere, ma come non devo scrivere. È il mio misero bottino, non è poca cosa e non me ne lamento. Non è un mestiere pericoloso (come lavorare in miniera, ad esempio), ma può tuttavia diventarlo: non dimenticate che i suicidi sono molto frequenti fra la categoria, e l’ansia, il senso di vuoto, di fallimento, di malinconia, di ineffabile silente disperazione, non vi abbandoneranno mai. Saranno perennemente in agguato, pronti per ghermirvi.