Pagine

mercoledì 2 gennaio 2019

RIMPIANGERE LA DC? 
di Franco Astengo



“Non moriremo democristiani” titolò “Il Manifesto” diretto da Luigi Pintor all’indomani delle elezioni politiche del 1983, quando il distacco tra DC e Pci toccò il minimo storico: 32% per la Democrazia Cristiana, 30% per la lista PCI-PdUP (nelle successive elezioni europee del 1984, svoltesi nei giorni della morte di Enrico Berlinguer, arrivò anche un platonico “sorpasso”).
Oggi, a distanza di oltre trent’anni, si potrebbe titolare “Rimpiangere la DC”?
Di vera e propria “nostalgia” infatti, sono intrisi i commenti al discorso di fine anno pronunciato dal presidente della Repubblica Mattarella: un democristiano “sociale” vero e proprio modello di riferimento di una DC d’altri tempi, a cavallo tra il percorrere i passi felpati nei palazzi del Potere e la dottrina sociale della Chiesa, quasi un intreccio tra Moro e Andreotti. Alcuni giornali presentano il Capo dello Stato quasi come il “Cavaliere senza macchia e senza paura” destinato a contrastare la barbarie giallo-verde: un ruolo che capitò già a Scalfaro, (in verità un democristiano di destra) di interpretare a suo tempo, nell’immaginario di molti, la parte dell’anti - Berlusconi (e così si rivelò Scalfaro nel delicato, quasi borderline, passaggio che portò prima al governo Dini e poi alle elezioni del 1996, vinte dall’Ulivo).
La “saudade” per la DC non è quindi una novità: si può dire che si è trattato di un sentimento che ha percorso tutta la lunga fase della transizione post-Repubblica dei Partiti.
L’idea era quella di tornare a un riequilibrio di centro (un centro che guardava a sinistra) un sistema che finalmente si sarebbe potuto completare attraverso il meccanismo dell’alternanza.
Fu quella, dell’alternanza e dello “sblocco del sistema politico” la molla che fece costruire prima l’Ulivo e successivamente il PD: passaggi che si potrebbero definire come “la voglia di DC” degli ex-appartenenti al PCI incapaci di sviluppare la loro presenza politica, almeno, in termini socialdemocratici e completamente smarriti nella loro identità dal vorticoso passaggio provocato dalla “svolta” del 1989.
Il progetto del PD non è riuscito, non tanto e non solo per via della “maionese impazzita” ma soprattutto per via di scompaginamenti sociali non previsti e letti male e del successivo riproporsi, in termini inediti, di una pluralità di presenze politiche e dell’esplodere di nuove contraddizioni specialmente sulla scena internazionale che hanno mandato in forte crisi anche il progetto europeo.
Oggi la “voglia di DC” che sicuramente la Presidenza della Repubblica interpreta secondo collaudati stilemi (il discorso di fine anno potrebbe essere intitolato: “State buoni se potete”) viene considerata, sicuramente da una fetta consistente di elettrici ed elettori quasi come l’unico riferimento ostativo alla crescita della valanga che i “media” definiscono come sovranista e populista.
Definizioni improprie per una valanga che probabilmente non ci sarà: comunque così stanno le cose almeno dal punto di vista della sensazione popolare e dell’ordito che i media stanno tramando in vista della scadenza di maggio.
C’è una ragione di più però per giustificare questa nostalgia di DC e la ragione si chiama Costituzione.
Nel corso di questo 2019 che sta per cominciare verificheremo senz’altro un nuovo assalto ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale: a essere attaccati saranno i punti essenziali di un regime che è rimasto basato sul Parlamento e sulla rappresentanza politica.
Era già accaduto con la Bicamerale del 1997e con le modifiche del 2006 e del 2016 respinte dal voto popolare.
Questa volta però i punti d’attacco saranno diversi:
1) L’introduzione del referendum propositivo;
2) L’abrogazione dell’articolo 67 che prevede “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”.
Punti che rappresenterebbero insieme, se introdotti, sia un richiamo alla “democrazia diretta” sia un inedito “centralismo di partito”: in apparenza parrebbero misure contraddittorie ma entrambe sono destinate verso un solo bersaglio, il Parlamento.
Un Parlamento da “saltare” sul piano legislativo attraverso il voto del popolo e sul terreno delle dinamiche della rappresentanza politica.
Un Parlamento i cui compiti resterebbero ristretti alla mera ratifica dei dettati governativi.




Sul piano costituzionale esploderà una terza questione: quella riguardante l’autonomia regionale e l’ulteriore modifica del titolo V della Costituzione stessa.
Su questo punto le responsabilità del defunto centro-sinistra e del PD sono enormi, in particolare al riguardo di una vera e propria sudditanza culturale verso la Lega.
In momento di forte crisi dell’idea di “cessione di sovranità dello Stato-Nazione” e di evidente crescita dei livelli di disuguaglianza economico-sociale tra le diverse parti del Paese quello dello spingere sull’acceleratore delle autonomie regionali rappresenterà un altro tema di grande dibattito (e anche di grande pericolo) per le garanzie costituzionali in materia di struttura dello Stato.
È in questo quadro che sembra crescere la “voglia di DC”.
Per la sinistra, se si pensa che questa parte politica, sempre divisa tra riformisti e massimalisti, possa ancora battere un colpo c’è motivo di riflessione magari riprendendo le fila di quello che sembrava essere un destino storico che, nella vicenda italiana, aveva avito proprio nella partecipazione alla stesura della Costituzione un punto di partenza qualitativamente molto alto.