di Franco Astengo
“Non moriremo democristiani”
titolò “Il Manifesto” diretto da Luigi Pintor all’indomani delle elezioni
politiche del 1983, quando il distacco tra DC e Pci toccò il minimo storico:
32% per la Democrazia Cristiana, 30% per la lista PCI-PdUP (nelle successive
elezioni europee del 1984, svoltesi nei giorni della morte di Enrico
Berlinguer, arrivò anche un platonico “sorpasso”).
Oggi,
a distanza di oltre trent’anni, si potrebbe titolare “Rimpiangere la DC”?
Di
vera e propria “nostalgia” infatti, sono intrisi i commenti al discorso di fine
anno pronunciato dal presidente della Repubblica Mattarella: un democristiano
“sociale” vero e proprio modello di riferimento di una DC d’altri tempi, a
cavallo tra il percorrere i passi felpati nei palazzi del Potere e la dottrina
sociale della Chiesa, quasi un intreccio tra Moro e Andreotti. Alcuni giornali
presentano il Capo dello Stato quasi come il “Cavaliere senza macchia e senza
paura” destinato a contrastare la barbarie giallo-verde: un ruolo che capitò
già a Scalfaro, (in verità un democristiano di destra) di interpretare a suo
tempo, nell’immaginario di molti, la parte dell’anti - Berlusconi (e così si
rivelò Scalfaro nel delicato, quasi borderline, passaggio che portò prima al governo
Dini e poi alle elezioni del 1996, vinte dall’Ulivo).
La
“saudade” per la DC non è quindi una
novità: si può dire che si è trattato di un sentimento che ha percorso tutta la
lunga fase della transizione post-Repubblica dei Partiti.
L’idea
era quella di tornare a un riequilibrio di centro (un centro che guardava a
sinistra) un sistema che finalmente si sarebbe potuto completare attraverso il
meccanismo dell’alternanza.
Fu
quella, dell’alternanza e dello “sblocco del sistema politico” la molla che fece
costruire prima l’Ulivo e successivamente il PD: passaggi che si potrebbero
definire come “la voglia di DC” degli ex-appartenenti al PCI incapaci di
sviluppare la loro presenza politica, almeno, in termini socialdemocratici e
completamente smarriti nella loro identità dal vorticoso passaggio provocato
dalla “svolta” del 1989.
Il
progetto del PD non è riuscito, non tanto e non solo per via della “maionese
impazzita” ma soprattutto per via di scompaginamenti sociali non previsti e
letti male e del successivo riproporsi, in termini inediti, di una pluralità di
presenze politiche e dell’esplodere di nuove contraddizioni specialmente sulla
scena internazionale che hanno mandato in forte crisi anche il progetto
europeo.
Oggi
la “voglia di DC” che sicuramente la Presidenza della Repubblica interpreta
secondo collaudati stilemi (il discorso di fine anno potrebbe essere
intitolato: “State buoni se potete”) viene considerata, sicuramente da una
fetta consistente di elettrici ed elettori quasi come l’unico riferimento
ostativo alla crescita della valanga che i “media” definiscono come sovranista
e populista.
Definizioni
improprie per una valanga che probabilmente non ci sarà: comunque così stanno
le cose almeno dal punto di vista della sensazione popolare e dell’ordito che i
media stanno tramando in vista della scadenza di maggio.
C’è
una ragione di più però per giustificare questa nostalgia di DC e la ragione si
chiama Costituzione.
Nel
corso di questo 2019 che sta per cominciare verificheremo senz’altro un nuovo
assalto ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale: a essere
attaccati saranno i punti essenziali di un regime che è rimasto basato sul
Parlamento e sulla rappresentanza politica.
Era
già accaduto con la Bicamerale del 1997e con le modifiche del 2006 e del 2016
respinte dal voto popolare.
Questa
volta però i punti d’attacco saranno diversi:
1) L’introduzione del
referendum propositivo;
2) L’abrogazione
dell’articolo 67 che prevede “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione
ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”.
Punti
che rappresenterebbero insieme, se introdotti, sia un richiamo alla “democrazia
diretta” sia un inedito “centralismo di partito”: in apparenza parrebbero
misure contraddittorie ma entrambe sono destinate verso un solo bersaglio, il
Parlamento.
Un
Parlamento da “saltare” sul piano legislativo attraverso il voto del popolo e
sul terreno delle dinamiche della rappresentanza politica.
Un
Parlamento i cui compiti resterebbero ristretti alla mera ratifica dei dettati
governativi.
Sul
piano costituzionale esploderà una terza questione: quella riguardante
l’autonomia regionale e l’ulteriore modifica del titolo V della Costituzione
stessa.
Su
questo punto le responsabilità del defunto centro-sinistra e del PD sono enormi,
in particolare al riguardo di una vera e propria sudditanza culturale verso la
Lega.
In
momento di forte crisi dell’idea di “cessione di sovranità dello Stato-Nazione”
e di evidente crescita dei livelli di disuguaglianza economico-sociale tra le
diverse parti del Paese quello dello spingere sull’acceleratore delle autonomie
regionali rappresenterà un altro tema di grande dibattito (e anche di grande
pericolo) per le garanzie costituzionali in materia di struttura dello Stato.
È in questo quadro che
sembra crescere la “voglia di DC”.
Per
la sinistra, se si pensa che questa parte politica, sempre divisa tra
riformisti e massimalisti, possa ancora battere un colpo c’è motivo di
riflessione magari riprendendo le fila di quello che sembrava essere un destino
storico che, nella vicenda italiana, aveva avito proprio nella partecipazione
alla stesura della Costituzione un punto di partenza qualitativamente molto
alto.