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martedì 18 giugno 2019

IL CONCETTO DEL POTERE
di Franco Astengo


In questi giorni è emerso uno dei nodi più complicati nella gestione del potere in Italia così come questa si è sviluppato nel corso di molti decenni. È caduto, infatti, il mito della “supplenza” esercitata dalla magistratura in vece della politica. Una “supplenza” esercitata nel tempo sui punti più delicati a partire da quello storicamente riguardante la “questione morale” ma capace di esercitarsi in molti campi compreso quello, ad esempio, del rapporto tra il lavoro e l’ambiente. Una “supplenza” che in diverse occasioni si è cercato di respingere andando a cercare modificazioni legislative e/o costituzionali spinte al punto da sollevare la questione del rapporto tra i poteri ma comunque mai realizzate, a partire dall’atavico disegno della separazione delle carriere.
L’emergere di un vero proprio “trascinamento” tra la gestione politica e quella della giustizia, come risalta dai fatti resi pubblici in questi giorni riguardanti il CSM e le nomine di vertice dell’impianto giudiziario, ha modificato questo quadro e aperto un nuovo capitolo nella crisi della democrazia.
A modesto giudizio di chi scrive è questa l’occasione per riaprire una riflessione di fondo attorno al concetto di “potere”, alle forme e alle modalità di detenzione dello stesso, sulla distinzione tra “potere” e “governo” così come oggi può essere realizzata e vissuta nel mutamento di struttura dello Stato e di crisi della cosiddetta “democrazia occidentale”.
La concentrazione dello sviluppo tecnologico in funzione quasi esclusiva della comunicazione mediatica, collettiva e individuale, ha portato a uno spostamento nella percezione di quello che può essere definito “immaginario del pubblico” incidendo fortemente sui meccanismi di accumulazione del consenso e di conseguenza di espressione del potere che si realizza così, appunto, attraverso l’immagine, al di là del campo di riferimento sia questo la politica, l’economia, lo spettacolo. Sono nati così fenomeni molto significativi che hanno dimostrato una crescita esponenziale del concetto di “personalizzazione” spinto quasi al limite del “divismo”, nel trionfo dell’apparire in luogo dell’essere e di una nuova forza dell’effimero nel nascondere la realtà complessa del potere reale.
I fatti di questi giorni rischiano di spingere ancor di più nella direzione appena descritta: quando si scrive ad esempio di “Quirinale unica isola sicura” oggettivamente si spinge verso una riproposizione di una modifica costituzionale in senso presidenzialista, anche al di là delle intenzioni dei proponenti e dello stesso Presidente della Repubblica in carica.
Forse vale la pena riflettere al meglio su questi elementi di novità al fine di comprendere davvero ciò che sta accadendo attorno a noi.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di attrezzarci al meglio sul piano teorico: sicuramente, sotto quest’aspetto il concetto e la conseguente percezione esterna del potere sono mutati nella valutazione di larga parte dell’opinione pubblica, almeno in Occidente.
Un elemento sul quale, con ogni probabilità, il fattore globalizzazione ha inciso in maniera inferiore rispetto ad altre tematiche come, invece, quelle riguardanti la finanziarizzazione dell’economia, la standardizzazione dei meccanismi comunicativi, l’apertura ai flussi di migrazione: tutti fenomeni che nell’ultimo ventennio hanno registrato un forte incremento nel loro peso specifico sulla realtà politica, economica, sociale.
Nello sviluppo del pensiero umano il concetto di potere è sempre stato suddiviso in “comparti” (per così dire).
Aristotele distingueva nella Politica tre tipi di potere in base all’ambito nel quale esso era esercitato: il potere dei padri sui figli, il potere dei padroni sugli schiavi, il potere dei governanti sui governati (vale a dire il potere politico in senso stretto). In età moderna Locke riprese la classificazione aristotelica allorquando, aprendo il secondo dei suoi Trattati sul governo, ribadisce la distinzione tra il potere del padre sui figli, del capitano di una galera sui galeotti e del governante sui sudditi.
Ancora Max Weber in Economia e Società distingue tra potere “costituito in virtù di una costellazione di interessi” (dunque il potere specificatamente economico) e il potere costituito in virtù dell’Autorità, includendo in questo il potere del padre di famiglia, dell’ufficio o del potere del principe.
Nella modernità attorno al concetto di potere abbiamo trovato espressi fattori come potenza, forza, influenza tutti utilizzati al fine di realizzare il condizionamento sociale per trovare obbedienza a un comando che contenga un determinato contenuto. Su queste basi era maturato il concetto fondamentale di separazione dei poteri (Locke, Montesquieu, Sieyès) destinata a diventare il cardine dello Stato di diritto.
In particolare l’abate Sieyès, con la sua teorizzazione dei rapporti tra potere costituente e poteri costituiti, pone le basi per la teoria moderna della Costituzione.
Il testo della Costituzione deve essere così inteso come atto normativo mirante a definire e disciplinare la titolarità e l’esercizio del potere sovrano.
Da questa concezione del potere e del suo esercizio che, a questo punto, potrebbe essere definita come “classica” è derivata concretamente l’attuazione del principio della separazione dei poteri: tra potere legislativo e potere esecutivo da un lato, e tra potere giudiziario e potere legislativo dall’altro.
Su queste basi prendeva corpo l’idea della Centralità del Parlamento, che sovraintende - tra l’altro - all’intero impianto istituzionale previsto dalla Costituzione Italiana del 1948.
Oggi, non soltanto in Italia, questo schema si sta rapidamente modificando.
Lo Stato legislativo ha ormai lasciato il posto allo Stato governativo che produce una sorta di “inflazione normativa” nella forma di decreti e decisioni particolaristiche (è sufficiente esaminare il lavoro del Parlamento Italiano nel corso degli ultimi trent’anni).
Nello stesso tempo la Magistratura ha svolto, come è già stato richiamato all’inizio di questo intervento, sempre di più funzioni di supplenza al riguardo della determinazione degli equilibri politici e degli stessi orientamenti legislativi, intervenendo oltre ai temi già citati addirittura su temi di diretta pertinenza al riguardo delle fonti stesse di legittimazione delle sedi legislative: si pensi al tema della legge elettorale.
Inoltre i confini del potere politico appaiono confusi rispetto a quelli del potere economico: su questo punto è avvenuto, sempre per restare nell’ambito dell’Occidente e ancor più in specifico del “caso italiano”, una surrettizia (e non completata) “cessione di sovranità”.
Uno spunto di riflessione ulteriore può essere suggerito, a questo punto, da un aggiornamento d’analisi al riguardo della teoria della “microfisica del potere” elaborata a suo tempo da Michel Foucault per rispondere proprio all’evidenziarsi di quella “confusione tra i poteri” cui si è appena accennato.
La teoria del filosofo francese considera il potere come una risorsa che circola attraverso un’organizzazione reticolare. Si tratta di un punto sul quale l’analisi non si è ancora soffermata abbastanza a fondo e che vale la pena riprendere all’interno di una riflessione dettata dall’attualità di questi giorni.
Una riflessione sulla folle corsa che la modernità impone alla ricerca di un verticismo assoluto nella detenzione del potere, nell’assolutismo dell’io come essere esaustivo della finalità umana come punto di ricerca dell’assolutismo politico. Emerge un contrasto evidente, si sente uno stridore terribile proprio tra questa ricerca della verticalità del potere assoluto e l’orizzontalità piatta dello scorrere della vita umana.
Un’orizzontalità perenne, che si perpetua nonostante le deviazioni improvvise che un itinerario di vita trova strada facendo. Questi frangenti impongono di tornare a riflettere proprio sull’appiattirsi delle relazioni, sull’impossibilità di riconoscere un ordine e un comando che appaiono inutili nel loro vano dimostrarsi. L’orizzontalità dell’essere reclama il collettivo, il “noi”, e respinge l’io. Il potere non si concentra più al vertice ma si disperde nella società attraverso gli individui: è la tesi della “inflazione del potere” cui Luhmann risponde considerandola come fonte dell’ingovernabilità con la teoria della riduzione del rapporto tra politica e società, e di conseguenza con una sorta di ritorno a forme “decisionistiche” di tipo quasi assolutiste.
La presa d’atto, in sostanza, della necessità di un potere sovraordinato rispetto al venir meno di confini netti tra potere economico, politico, ideologico, tra poteri costituenti e poteri costituiti oppure ancora tra esecutivo, legislativo, giudiziario. Sorge però a questo proposito una domanda cruciale: come potrà costituirsi, nel concreto, questo potere sovraordinato?
Una possibile risposta può venire proprio dall’analisi dell’attualità del caso italiano. La risposta può venire dalla finzione, dalla messa in scena di un potere esclusivamente immaginario esercitato in via personale da un attore capace di interpretare il flusso degli strumenti mediatici (orientati, tra l’altro, sempre più verso il consumo individuale di notizie e di fittizi rapporti sociali e di trasmissione di idee).
Una nuova concezione del potere: “di finzione” sul piano del pubblico e “privato” nella concezione, ormai apparentemente egemone, dell’individualismo quale sola fonte di rapporto verso gli altri.
Su questa base si sviluppa la crisi della democrazia occidentale e si ridefinisce proprio il concetto di potere: un terreno tutto da analizzare con grandi difficoltà che s’incontrano nella capacità di proporre sintesi.

Nota
Per redigere questo testo sono stati consultati: Max Weber Economia e Società, Milano 1974; Michel Foucault Microfisica del potere Torino 1977, Niklas Luhmann Potere e complessità sociale, Milano 1979, Roberto Esposito e Carlo Galli, Enciclopedia del pensiero politico, Roma-Bari 2005.