La SLA e la tenace scrittura di Patrizia Pozzi
di Gabriele Scaramuzza
di Gabriele Scaramuzza
Patrizia Pozzi (Milano,
1956), già docente a contratto di Storia del
Pensiero ebraico presso l’Università degli Studi di Milano, ha condotto le
proprie ricerche su vari aspetti della filosofia di Spinoza pubblicando, tra
l’altro, Visione e parola.
Un’interpretazione del concetto spinoziano di scientia intuitiva, tra finito e
infinito (Franco Angeli, Milano 2012); De
vita solitaria: Petrarca e Spinoza (Mimesis, Milano 2017). Ha inoltre
curato i «Quaderni Spinoziani», tra cui L’eresia
della pace - Spinoza e Celan. Lingua, memoria, identità (ivi 2005). Nipote
di Antonio Fanzel, deportato politico ucciso nel lager nazista di Mauthausen,
ha svolto studi e ricerche sulla Resistenza e la deportazione, pubblicando
anche il testo, scritto con Miuccia
Gigante, Mai più lontani. Antifascismo e Resistenza visti con gli
occhi di una bambina (2017).
B. Spinoza |
Spinoza
è il centro della vita spirituale di Patrizia, da lui si irradia non poco di
quanto ha sostenuto e tuttora sostiene la sua vita. Che questo possa succedere
è encomiabile ed esemplare, ed è di conforto per chiunque nella filosofia
(nella ragione nel suo senso più ampio e alto), tante volte messa in scacco,
tuttora, fino ai limiti della propria vita, confidi.
Per parte mia alle notizie iniziali
aggiungo (dato che segna uno dei momenti che mi ha reso più vicina Patrizia)
che Patrizia ha curato Quintino Di Vona. Una vita per la libertà, edito
da Mimesis nel 2009.
Aggiungo quanto ci comunica Franco
Sarcinelli: “Ricevo da Patrizia Pozzi, mia
amica filosofa, da due anni con il corpo totalmente inerte per la Sla,
tracheotomizzata e connessa a macchinari per respirare, unica parte
funzionante la mente e gli occhi con i quali comanda un computer che le
permette di scrivere e far girare mail come questa, una poesia di Nazim Hikmet
e in allegato una stupenda immagine di una formella di Notre-Dame.
Franco”. Riporto qui a complemento la autopresentazione di Patrizia
Pozzi che Franco Sarcinelli ha trascritto per noi: "sono malata di Sla,
immobile presso una struttura apposita di Merate, non parlo, non mangio, vivo
grazie a macchine collegate al mio corpo inerte, posso scrivere con gli occhi
grazie a una barra ottica, elettronica, connessa al computer... ma mi rimangono
la luce degli occhi, la luce del cuore, la luce della mente e voglio usare
questa luce finché posso per gli ideali che soli rendono l'umanità degna di
questo nome..."
Formella di Notre Dame |
La poesia di Nazim Hikmet dice non
poco della sensibilità di Patrizia Pozzi, così come la formella di Notre Dame,
e il quadro di Van Gogh, che riproduciamo sotto:
Finché
c'è ancora tempo, mio amore
e
prima che bruci Parigi
finché
c'è ancora tempo, mio amore
finché
il mio cuore è sul suo ramo
vorrei
una notte di maggio
una
di queste notti
sul
lungosenna Voltaire
baciarti
sulla bocca
e
andando poi a Notre-Dame
contempleremmo
il suo rosone
e
a un tratto serrandoti a me
di
gioia paura stupore
piangeresti
silenziosamente
e
le stelle piangerebbero
mischiate
alla pioggia fine.
V. Vangogh |
A
testimonianza infine della sensibilità musicale di Patrizia includo il brano
che segue: Patrizia
Pozzi: Da Joe Cocker alla Pizia, o viceversa
https://www.youtube.com/watch?v=3s-dSoDptVc
Vedere
Joe Cocker mi conferma un pensiero: la musica come un modo di affrontare le
malattie, in particolare una malattia come la SLA. Lui si muove come se il suo
corpo fosse impregnato di musica, al di là della sua volontà. Quando ascolto
musica che mi coinvolge io sento muovere dei nervi che per lo più sono silenti.
Capisco che potremo affrontare una patologia cosi misteriosa e invalidante come
la SLA solo recuperando una visione unitaria del corpo-mente. Io vorrei
organizzare un incontro medici-filosofi -letterati-artisti-maestri di
meditazione orientale per una prospettiva più ampia rispetto a quelle della
medicina occidentale. Pensiamo a quando Freud capì di dover affrontare problemi
psico-fisici attraverso il racconto, la parola, mettendo a fuoco la complessità
del nostro esistere, la cui dimensione non si limita alla coscienza, ma è molto
più ampia e articolata e si esprime attraverso linguaggi dalla semantica non
immediatamente accessibile, ma da cercare, ricostruire, interpretare ricorrendo
al piano simbolico, metaforico che dà luogo alle immagini dei sogni e permette
al nostro inconscio di esprimersi. Ancora un linguaggio, una parola necessari
al nostro esistere, che certamente vive una memoria a noi per lo più ignota.
Attualmente siamo abituati all’idea di cercare aiuto attraverso il nostro
narrare presso professionisti come psicologi o analisti e l’idea delle nostre
parole rivelatrici del nostro io può sembrarci ovvia, banale, ma non è così.
Anche nel caso di questa malattia, secondo me, non siamo di fronte ad un
problema meramente organico (infatti da 150 anni rimane pressoché un mistero),
ma si tratta di una manifestazione psico-fisica (come avviene in ogni
malattia). Io credo che la parola possa molto: infatti questa malattia la
preclude a mostrare come la prigione dello spirito debba avvenire in modo totale
e radicale. D’altro canto, pensando ad espressioni chiave della cultura
occidentale, il logos (pensiero, parola, calcolo) è al centro della filosofia
greca e la creazione biblica avviene attraverso la parola, che dà luogo al
mondo; inoltre, moltissimi riti e rituali avvengono attraverso parole e formule
verbali appositamente organizzate che, uniche, ne garantirebbero l’efficacia.
Patrizia Pozzi: Comunicazione a tutti i
miei amici
La malattia che da più di due anni mi
affligge è stata diagnosticata come SLA.
Dall'ottobre fino a dicembre 2017 sono
stata ricoverata in rianimazione a Venezia (dove mi ero recata per un ciclo di
fisioterapie, dopo 3 mesi al Don Gnocchi di Milano), a causa di una serie di
infezioni (dalla polmonite alla setticemia) che mi hanno portata in punto di
morte. Sono sopravvissuta per miracolo, grazie ai medici che mi hanno curata e si prendono cura di me e grazie all'amore delle mie figlie, ma la mia situazione è
difficile: attualmente respiro collegata ad un ventilatore, mi nutro via PEG
(ho un buco sia in gola che nella pancia, con i rispettivi tubi collegati ad
apposite macchine), non mi muovo più (sono tetraplegica) e riesco a parlare
(miracolosamente) solo per qualche istante e neppure ogni giorno. Scrivo al computer
con gli occhi. Non posso essere assistita a casa e sono perciò ricoverata in un
Centro apposito in provincia di Lecco, a Merate. Certamente, sarei stata la
candidata perfetta per un lager nazista o per il castello di Hartheim, e per un
forno crematorio, come avvenne a mio nonno, Antonio Fanzel, deportato
politico ucciso a Mauthausen: aveva 35 anni e lasciava una moglie e cinque
figli. Anch'egli, come milioni di esseri umani, passò per il camino: le fiamme
che arsero i libri durante il regime nazista (il rogo più grande, ma non unico,
a Berlino, il 10 maggio 1933) furono le fiamme che arsero nei forni crematori
per cancellare chi era ritenuto indegno di vivere, anche i disabili, come
me in questo momento della mia vita. E come tutti coloro che erano considerati
estranei, stranieri riguardo all’ ‘ordine’ nazista: ebrei, oppositori politici,
zingari, omosessuali, malati psichiatrici: anzi, i primi convogli che
dall’Italia portarono deportati nei lager nazisti partirono nel maggio 1940
dalla struttura di Pergine Valsugana dove erano ricoverati malati
psichiatrici, nell’ambito di un’operazione di
presunta eutanasia chiamata Aktion T4, a cui aderì il governo fascista. A
testimoniare la stretta connessione tra nazismo e sterminio nei lager, ricordiamo
che oggi, 5 maggio, è l'anniversario della Liberazione del lager di
Mauthausen, avvenuta il 5 maggio 1945 e che fino a quel giorno i forni
crematori funzionarono pienamente per svolgere il loro macabro
compito. Dopo la Liberazione di Mauthausen, l'8 maggio 1945 la Germania
firmò la resa e finì così la Seconda guerra mondiale in Europa. La liberazione
dei lager iniziò con Auschwitz, il 27 gennaio 1945.
In questo momento, sto scrivendo
tramite una barra ottica che trasforma il mio sguardo nei segni scritti di una
tastiera. Tale barra è stata qui introdotta da un ammalato, geniale Web Master,
che ha saputo trasformare ciò che nasce come un gioco in un ausilio
fondamentale per ammalati come lui, come me. La nuova possibilità di vita che
mi è stata permessa (mi davano per spacciata al 90%) passa anche dai libri che
ho letto (o audiolibri, che ho ascoltato a valanga) e dai libri o saggi che
posso scrivere. Infatti, sta per uscire presso Mimesis un mio libro su Spinoza,
che ho concluso qui e che è ciò che di più antinazista si possa pensare. Il
titolo è: Homo Homini Deus. L'ideale umano di Spinoza, corretto, completato
e ampliato in questi mesi, con gli occhi e con l'aiuto di mia
figlia Susanna.
Ecco tutto... tutto piuttosto difficile:
eppure mi piace ancora vivere e desidero continuare a vivere. E desidero poter
scrivere, discutere, lottare secondo gli ideali che guidavano mio nonno e che
hanno sempre guidato anche me: questo è per me linfa vitale (allego il discorso
per la Giornata della Memoria 2019 vd. infra). Non considero quello
che non ho, ma quello che ho: e ringrazio i medici e il Cielo di poter avere
ancora la luce degli occhi, del cuore, della mente.
Certamente, da ammalata sono stata
indotta a pormi domande radicali. Nel luogo in cui vivo, le domande richiamano
a piani fattuali: che cosa significa vivere? quando è accettabile vivere
nonostante…? come si attiva l'unità corpo-spirito? Spesso le domande e le
riflessioni si mettono a fuoco scrivendo o parlando a qualcuno: emerge così
l'importanza del rapporto, dell’interrelazione per vivere la malattia non solo
come problema, ma anche come occasione di riflessione e comprensione. E si
capisce che l'affetto che ci viene rivolto vale, sempre e per tutti, quanto una
medicina, per il nostro spirito e per il nostro corpo, secondo il rigoroso
parallelismo spinoziano tra corpus e mens.
In generale, si potrebbe vedere la
malattia come una radicale trasformazione della vita, non solo come via verso
la morte. E la speranza è elemento vitale di ogni giorno, di ogni ora, di ogni
attimo.
Vi auguro giorni felici
un abbraccio, con tanto affetto
Patrizia
Allego l'intervento che ho scritto quest'anno, da
questo mio computer con la barra ottica, per la Giornata della Memoria
a Cologno Monzese. Il melograno a cui alludo è stato posto nel 2005, con
la lapide che ricorda i deportati della cittadina, tra cui mio nonno, Antonio
Fanzel. Questo grazie al lavoro che svolsi in questo senso con l'ANED
(Associazione Nazionale ex deportati), sezioni di Milano e Sesto san Giovanni.
Patrizia
Pozzi: Intervento per la Giornata della Memoria 2019
Dal
2005, la Giornata della Memoria a Cologno ha il suo momento centrale dinanzi a
questa lapide che ricorda i deportati di Cologno nei lager nazisti. La lapide è
posta sotto un melograno, i cui frutti sono ricchi di significati simbolici,
che possiamo sintetizzare in quello di ‘energia vitale’, ad indicare la vita
che nacque dalla sofferenza e dalla morte di coloro che lottarono contro il
nazifascismo: anche la nostra vita. Pertanto, il 27 gennaio, data che nel 1945
vide la liberazione di Auschwitz, non è solo un appuntamento istituzionale e
generico riguardante fatti ormai lontani, di cui parlare con frasi di
circostanza. La memoria di questa giornata si rivolge a tutti i milioni di
deportati visti uno per uno nel loro dolore e nel dolore dei loro cari: i nomi
qui indicati sono rappresentativi di tutti coloro che furono deportati, e non
solo. Questi nomi, infatti, rappresentano tutte le vittime del nazifascismo, e
anche i caduti, i perseguitati, i massacrati che purtroppo costellano la storia
dell’umanità (dai nativi americani agli africani resi schiavi), poiché questi
nomi testimoniano valori che ancora valgono e che si vogliono condividere
unitariamente. Ideali come quelli di libertà, giustizia, solidarietà,
accoglienza, reciproco aiuto tra tutti gli esseri umani indipendentemente dall’etnia,
dalla provenienza, dalla religione, dalle condizioni di salute, dagli
orientamenti sessuali e culturali, sono ideali pienamente attuali e il loro
valore è etico, politico, pedagogico.
Il
nazifascismo massacrò ebrei, oppositori politici, disabili, rom, testimoni di
Geova, omosessuali distinguendo tra chi era degno di vivere e chi doveva essere
eliminato. Per questo è causa di sofferenza vedere assegnati a formazioni che
esplicitamente si richiamano al fascismo luoghi della città che portano in sé
la memoria di chi al fascismo si oppose e per questo venne condannato alla
deportazione e alla morte. Mi riferisco, ad esempio, a piazza Castello, angolo
via Fontanile. Nella casa che precedeva le
attuali costruzioni abitava mio nonno, Antonio Fanzel, deportato a 35 anni in
quanto oppositore politico e ucciso a Mauthausen il 20 agosto 1944. Il suo nome è inciso su questa lapide, come sulle
lapidi dei monumenti ai deportati del Cimitero Monumentale di Milano e del
Parco Nord di Sesto San Giovanni. Ma il suo strazio e quello della sua famiglia
(di sua moglie e dei suoi cinque figli; la più piccola aveva allora due anni) iniziarono qui: e i luoghi sono
costituiti dagli spazi, ma anche dal tempo, dalla storia, dagli eventi che li
riguardano. Per questo non vanno profanati, soprattutto con iniziative che
inneggiano ai persecutori: i quali non furono individui allo sbando o animati
da impeti di vendetta (come spesso avviene, purtroppo, ai margini di guerre ed
occupazioni), ma Stati come la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini, che imponevano
le discriminazioni e le uccisioni come attuazione delle loro leggi. Basti
pensare che in Europa la Germania nazista organizzò più di 40.000 campi di
concentramento e sterminio e che ad Auschwitz–Birkenau vennero uccisi nelle
camere a gas fino a migliaia di individui in un solo giorno; tra loro anziani,
uomini, donne, madri con i loro figli, soprattutto ebrei, ma anche rom, prigionieri
di guerra, oppositori politici, malati psichici, disabili, inabili al lavoro,
omosessuali: tutti coloro che il nazismo riteneva indegni di vivere. Ricordiamo
anche le leggi razziali promulgate nel 1938 in Italia dal regime fascista che,
dimostrando una abissale ignoranza storica, antropologica e genetica, oltre ad
una proterva crudeltà morale, pretendeva di contrapporre, come già facevano i
nazisti, una (inesistente) ‘razza ebraica’ ad una (altrettanto
inesistente) ‘razza italica’ o ‘ariana’. Il destino degli ebrei italiani fu così
segnato da leggi dello Stato stesso di cui erano cittadini, che imponeva contro
di loro discriminazione ed esclusione (pensiamo ai bambini, ai ragazzi, agli
insegnanti cacciati dalle scuole), fino alla deportazione e alla morte nei
lager. Inoltre, durante l’occupazione di
territori della Slovenia, della Dalmazia, della Croazia e del Montenegro l’Italia
infierì sulla popolazione civile con stragi, rappresaglie, esecuzioni sommarie,
distruzioni e saccheggi allo scopo di stroncare la resistenza partigiana di
quelle zone. Anche il lager di Trieste (la Risiera di San Sabba), formalmente
parte della Repubblica Sociale Italiana, ma sottoposto al controllo dei
nazisti, fu allestito con lo scopo di eliminare gli oppositori e chi era
giudicato indegno di vivere.
Prima
ho accennato al valore etico-politico di certi ideali, ma anche al loro senso
pedagogico; propongo un esempio che riguarda me, nipote di un deportato: sono
cresciuta in una famiglia pesantemente segnata dal nazifascismo, ma non ho mai
udito, dico mai, parole di odio verso alcuno, desideri di vendetta o di
rivincita. Gli insegnamenti che mi venivano dalla mia famiglia come linfa
vitale e quotidiana erano ispirati ai valori di mio nonno: aiuto ai più deboli,
solidarietà, giustizia, rispetto tra tutti gli esseri umani visti come una sola
famiglia, lontani da ogni nazionalismo o razzismo. L’ideale, cioè, di un mondo
senza confini per un’umanità libera e unita, che rinvia alla prospettiva del
cosmopolitismo, sostenuto da filosofi come Democrito e Platone nell’antichità
(V-IV sec. a.C.), o Rousseau e Kant nel ’700: essi vedono tutti gli esseri
umani come “cittadini del mondo”. Ricordiamo anche che la xenía, l’ospitalità verso lo straniero, era un dovere sacro per la civiltà
greca da cui deriviamo: pensiamo all’omerica Odissea, al naufrago e lacero Ulisse accolto dal re dei Feaci, in
quella che forse è l’odierna Ischia anticamente abitata da Fenici, a conferma
dell’intrecciarsi di popoli e culture proprio della nostra penisola. E dai deportati ci viene
un altro insegnamento: saper dire NO quando si impongono comportamenti che
trasgrediscono i valori di solidarietà e aiuto reciproco tra tutti gli esseri
umani. Un insegnamento molto importante proprio ora, quando da molti politici
provengono parole e provvedimenti di impronta cosiddetta sovranista, capaci di
negare aiuto a chi, disperatamente, lo chiede.
Per
tutto questo, avanzo una richiesta all’Amministrazione comunale: dedicare ai
deportati vie della città, una per ciascun
deportato, in quanto testimone dei valori che sono alla base della civiltà
umana.
Patrizia
Pozzi: Con le parole vediamo
Siamo
in una biblioteca. Un tesoro di parole.
Con
le parole vediamo, sogniamo, amiamo.
E
viaggiamo, viaggiamo con la mente: andiamo ora, perciò, tutti insieme, a
Lentini, Siracusa, Sicilia. V sec. a. C. Gorgia è un filosofo di Lentini, ama
le parole e dice che le parole ci incantano. Per questo scrive l’Encomio, cioè
l’elogio, di Elena. Elena, proprio lei, la donna che il mito ci dice essere
stata la causa della guerra di Troia. Ma Gorgia non ci sta e scrive un encomio
per difenderla - non è lei la causa della guerra: Elena, infatti, non avrebbe
potuto non amare Paride, non avrebbe potuto scegliere di non amarlo. E non
avrebbe potuto non per la bellezza di Paride, non per la sua forza, ma per le
parole che egli seppe rivolgerle; quelle parole erano così belle che la
incantarono e lei non poté fare a meno di seguirlo. Furono le parole di Paride,
perciò, che cambiarono la storia di Troia, degli Achei, del mondo. Che
cambiarono la nostra storia
E
dove si trovano le parole che incantano e che rimangono oltre la voce, danzando
nei nostri pensieri? Le parole rimangono e vivono per sempre nei libri, in quei
misteriosi e meravigliosi segni che sono le parole di tutti i libri. Ecco
perché siamo qui: perché ogni biblioteca racchiude infiniti mondi, infiniti
incanti. Noi abbiamo bisogno delle biblioteche. E se non ci sono, le biblioteche
si sognano.
torniamo
ad un lontano maggio 1970. Un vecchio libro; tra le pagine, l’ultimo compito di
terza media, della mia terza media, che ho trovato qualche tempo fa, per caso:
è un tema - il suo titolo: Il luogo in cui vivo. Vivo, scrivevo, alle porte di
Milano… ed ecco che tra quelle righe ingenue di bambina si affaccia un
desiderio: io vorrei che nel mio quartiere ci fosse una biblioteca… perché
allora non c’era una biblioteca... Vent’anni dopo, nel 1992, quel desiderio fu
esaudito… ed ora siamo qui perché questa bellissima biblioteca continui a
vivere, perché qui, tra questi libri, tutti possiamo sognare, viaggiare, amare.
Questo
avrei voluto dire e in parte ho detto. Ma oggi, come già troppi altri giorni, è
un giorno di lutto nazionale; per questo vorrei ricordare con voi i morti di
ieri e quelli di tutti questi sciagurati anni. Anni in cui la legge si è fatta
e si fa strumento di morte, e non di vita e convivenza pacifica. Dietro i numeri
impietosi di questi disperati naufragi ci sono volti, nomi, storie. E ancora
una volta sono le parole, sono i libri a poterci aiutare: desidero infatti
leggere i passi di alcune lettere scritte da una ragazza di famiglia eritrea,
Simret, nel 2006, parole che si trovano in questo libro: Dall’Etiopia a Roma. Lettere alla madre di una migrante in fuga.
Simret ha 17 anni, sta fuggendo dall’Africa verso l’Europa e scrive a sua
madre, morta nel deserto della Libia durante il loro peregrinare per fuggire
dalla guerra e dalla fame. Per la figlia, scrivere alla madre morta è un modo
per darle ancora vita e per sopravvivere al dolore. Queste parole sono tratte
da un piccolo libro, di quelli che i ragazzi vendono per le strade. E vorrei
anche rivolgervi un invito: acquistate questi libri, è un modo per aiutare chi
cerca di vivere, confermando loro dignità e valore, ma è anche un modo per
conoscere storie di disperazione e speranza, morte e vita che ogni giorno si
svolgono sotto i nostri occhi, ma di cui non ci accorgiamo. E ancora una volta,
ecco l’importanza dei libri.
Scrive
Simret quando, giunta a Tripoli, sogna di fuggire:
Cara
mamma,
con
me non ho più niente che ti appartenga. Soffro molto all’idea di non avere
nemmeno una tua foto, ma tu sei sempre nel mio cuore. A volte, di notte, mi
sveglio all’improvviso perché mi sembra di sentirti accanto, mi pare di sentire
il tuo respiro e, addirittura, le tue carezze. Se con le mie lacrime potessi
riportarti in vita, piangerei per anni. Ma non mi resta che accettare la dura
realtà e rassegnarmi all’idea che tu non sia più qui con me a proteggermi e a
procurarmi quanto mi è necessario. Di una cosa però sono certa. Farò qualunque
cosa per sopravvivere. Mi troverò un lavoro e con i soldi messi da parte
raggiungerò l’Europa. Da qui sento il rumore del mare e lo vedo da lontano.
Sogno ad occhi aperti di attraversarlo per raggiungere l’Europa. So che tu
tenevi tanto a questo e farò di tutto per non deluderti. In futuro spero di
imparare a nuotare, di godermi il mare da vicino, di avere una casa tutta per
me senza che nessuno mi rimproveri più, senza avere più paura. Cara mamma, da
grande voglio vivere una vita felice.
Io
credo che questi possano essere i pensieri di tutti coloro che partono, e che
spesso non arrivano.
Ed
è ancora un libro che ci apre gli occhi, il cuore, la mente, che ci racconta
una vita… E la speranza e l’augurio per noi qui stasera è che sia possibile a
tutti, cittadini del mondo, muoversi, vivere, cercare la felicità e che le
parole di chi fugge non evochino più la morte di troppi, ma la vita di tutti.
Avendo
iniziato con Gorgia, filosofo del V sec., vorrei concludere accennando al
pensiero di Kant, filosofo del XVIII sec., il quale ci parla di un dovere che
secondo lui dovrebbe essere un dovere di tutti i popoli, gli uni verso gli
altri: il dovere dell’ospitalità. Per questo, ora vedremo i volti e ascolteremo
le voci di ragazzi di diversi paesi, che raccontano la nostra storia,
dell’Italia e di Milano, pur provenendo da mondi lontani. Perché le parole sono
anche storia, conoscenza, memoria.
P.S. Il reato di “ingresso e
soggiorno illegale nel territorio dello Stato” è stato introdotto con
l’approvazione del cd. “pacchetto sicurezza” (legge n. 94 del 2009) nel Testo
Unico sull’immigrazione. Il nuovo art. 10 bis, (cd. reato di clandestinità) è
una norma che sanziona la condotta di “fare ingresso” o di “trattenersi” in
Italia in violazione del Testo Unico e della legge 68/2007 (relativa ai
soggiorni per breve durata).
Perché
bisogna prendersela sempre con qualcuno per avere ragione. E chi meglio dei
migranti? Guardateli sotto quei teloni, guardate come sono pericolosi quelle
donne incinte, quei bambini, quei ragazzini, quegli uomini dai corpi gonfi,
bruciati. Le onde di Lampedusa raccontano la nostra vergogna, la nostra
mancanza di memoria. La solidarietà presa in ostaggio. Il Bene abbandonato.
Alla deriva. Nel profondo del mare.
Patrizia Pozzi: La memoria e gli ideali, Introduzione al testo Mai più lontani
I
ricordi di Miuccia Gigante raccolti in questo libro sono grande e profonda
testimonianza di come la memoria sia la vita più vera dell’interiorità. In essi
ritroviamo la bimba che Miuccia è stata e che, ancora oggi, è radice del suo io
più profondo. Questa bambina emerge in racconti che non seguono un rigido
ordine cronologico, ma intrecciano fili di memoria in cui si affacciano volti,
nomi, luoghi che rivivono nel modo più vero e autentico. Al centro, la figura
di Vincenzo Gigante, padre di Miuccia, antifascista e partigiano, deportato e
assassinato nella Risiera di San Sabba, a Trieste, nel 1944.
Sono
due le linee narrative che sostengono i racconti di questo libro, richiamandosi
l’un l’altra: la linea che si può definire esistenziale, in cui si declina la
vita di una bambina che cresce senza padre, imprigionato dal fascismo per
lunghi anni, senza che padre e figlia si siano mai incontrati dopo i primi mesi
di vita della piccola, e la linea che si può definire ideale, in cui emergono i
valori etici e politici per i quali questo padre lotta; valori che sono propri
anche della famiglia materna in cui Miuccia cresce, a Lugano.
Riguardo
a questo secondo e fondamentale filo narrativo, le pagine che seguono ci
ricordano che, allora come ora, lottare per l’emancipazione degli umili e degli
oppressi è ciò che può dare senso alla vita. Tale idea guida gli uomini e le
donne raccontati in questo libro, il quale ha la forza di parlare anche al
presente; leggendolo capiamo infatti che è ora di ritornare a levare alto il
suono dei valori che percorrono le sue pagine: libertà, solidarietà, giustizia,
fraternità, uguaglianza.
La
famiglia di Miuccia Gigante vive questi ideali con profonda convinzione, con
naturalezza, e si potrebbe anche dire con gioia, nonostante la fatica e la
sofferenza che la lotta e la resistenza contro fascismo e nazismo comportano.
Per coloro che vengono qui ricordati quei valori sono come linfa vitale e con
questa stessa forza essi sanno entrare nel lettore, dando un senso di
profondità, verità, bellezza. Aiutare chi soffre affinché si liberi
dall’ingiustizia significa piena realizzazione di sé: questo insegnano le
scelte del padre di Miuccia Gigante, le parole e i gesti dei suoi nonni e di
sua madre, le vicende di coloro che rivivono in queste pagine. Sognare e
lottare un mondo di libertà e giustizia fa sentire una profonda ricchezza
interiore: si sta bene pensando e facendo il bene, affermano Socrate e Spinoza,
per i quali le azioni malvagie sono frutto di ignoranza. Il legame tra
conoscenza, bene e felicità è a fondamento dell’etica tanto socratica che
spinoziana, e Vincenzo Gigante riesce a trasmettere alla figlia la necessità e
la bellezza dello studio e della conoscenza che egli continua a coltivare anche
nelle orribili condizioni della prigionia. Solo la conoscenza può fondare la
lotta per liberarci dalle catene della sottomissione sociale, solo la
conoscenza ci libera dai pregiudizi e ci permette di unirci agli altri uomini
per fondare un progetto di società e di vita improntato all’ideale di un bene
comune, nel rispetto dell’identità del singolo: l’uomo guidato dalla ragione,
scrive Spinoza, è libero non in solitudine, ma nella communis vita e utilitas[1].
D’altro canto, Voltaire insegna chiaramente che aiutare l’indigente e liberare
l’oppresso è il nostro più autentico compito morale. Lo sfondo di un’etica di
giustizia e fratellanza trapela dalle pagine che seguono, nella prospettiva di
una società di liberi ed uguali. Questo era anche l’obiettivo del socialismo
dei nonni di Miuccia e del comunismo di suo padre, il quale sempre esercitò la
propria capacità di critica all’interno dei movimenti sindacali e politici di
cui fece parte. Vincenzo Gigante, pur dovendo lavorare fin da giovanissimo come
operaio, studiò da autodidatta e coltivò il proprio amore per la conoscenza
anche in carcere, dove si dedicò allo studio di temi storici, politici,
sociali. I libri faticosamente acquistati da Vincenzo, e ora conservati da sua
figlia, ci mostrano le letture (da Machiavelli a Cattaneo, da Dante a Galileo,
da Spinoza a Marx) sulle quali si formò la
visione del mondo, complessa e articolata, che alimentò i suoi ideali. Tali
ideali si declinano in progetto esistenziale e politico, nel senso più
autentico ed elevato del termine, e riecheggiano nelle parole che scrive alla
piccola figlia che poté vedere solo appena nata, ma che fu sempre nel suo cuore
e nei suoi pensieri durante i lunghi anni della prigionia e della lotta, fino
alla morte. Riguardo
al piano esistenziale e intimo che mette in luce l’interiorità della bambina al
centro delle pagine che seguono, emerge con lancinante evidenza il tema
dell’assenza del padre.
La
narrazione è condotta in terza persona e Miuccia Gigante parla di sé
definendosi la “piccola”, la “bimba”: è come se in questo modo potesse rivedere
la propria vita comprendendo pienamente la bambina che è stata, e che non è
più. Il sogno infranto della bimba di incontrare suo padre, spezzato dopo la
notizia del suo assassinio, determina una frattura, un vuoto, una ferita non
rimarginabili. Miuccia ricorda quella bimba che ancora vive dentro di lei, ma
non c’è continuità tra la “piccola” Miuccia e l’adolescente, la giovane, la
donna che è divenuta. Tra loro un vuoto incolmabile: l’assenza e poi la morte
del padre. La speranza, la fiducia nel suo rientro riempiono i giorni e i
pensieri della bimba; la consapevolezza che questo non avverrà mai è il dolore
che per sempre accompagnerà la vita dell’adolescente e della donna. Un velo di
malinconia è sempre nei suoi occhi (e lo sa bene chi la conosce) e ora lo
possiamo immaginare anche in lei bambina: ma se allora c’era l’attesa a
sostenere i giorni, a tredici anni Miuccia visse l’implacabile certezza della
vanità di questa attesa. La notizia della morte del padre uccide anche
l’innocente speranza della piccola: nei ricordi di questo libro pesa il buio di
questo dolore. Il vuoto che aveva accompagnato l’infanzia non si sarebbe più
colmato, quella solitudine sarebbe stata per sempre. E questo induce a
riflettere su che cosa possa significare crescere nell’assenza di un genitore,
che avrebbe voluto esserci con tutto l’amore e a cui ciò non fu permesso a
causa dei suoi ideali di giustizia e fratellanza. È il caso di Miuccia e dei
figli di coloro che furono deportati nei lager, o che persero la vita per gli
ideali della Resistenza, talvolta dopo anni di clandestinità e prigionia e
spesso senza che se ne avessero più notizie, precipitati nell’assordante
silenzio di morte della guerra e dello sterminio: genitori amati per il loro
valore, ma anche disperatamente cercati e rimpianti. Questo libro ci dice che i
bimbi vivono la quotidianità: ogni minuto perduto è perduto per sempre, l’assenza brucia, è presente in ogni attimo. E quanta tenerezza per questi piccoli
condannati a provare, impotenti, un lacerante senso di abbandono. In una
lettera del 10 ottobre 1935 Wanda, madre di Miuccia, scrive a Vincenzo (da lei
affettuosamente chiamato Cenzo o Cenzino) che la loro piccola figlia, solare e
allegra nei primi anni della sua infanzia, parla continuamente di lui e lo
attende: vedendo un’auto fermarsi davanti a casa, la bimba chiede se si tratti
del padre. Sono struggenti le parole di Wanda: «La rassicurai che tu verrai
quando sarà più grandicella [...] Ma mi rispose: voglio adesso che sono piccola
il mio Cenzino».
Quanto
qui ricordato riguarda i bimbi e, più in generale, coloro che hanno subito la
Seconda guerra mondiale e lo sterminio nazifascista, ma la loro sofferenza può
essere vista come una delle manifestazioni di quella che la riflessione etica
definisce la “sofferenza del giusto e dell’innocente”: una sofferenza che ha
attraversato e attraversa la storia dell’umanità nelle guerre, negli stermini,
nelle oppressioni che l’hanno tragicamente travagliata e che ancora la
travagliano, giungendo fino ai nostri giorni. Dinanzi all’impotenza e al senso
di vuoto e di disperazione che ci assale di fronte alla sofferenza di un
innocente, le più intense ed elevate riflessioni che si possano pensare sono
espresse dalle parole di Dostoevskij allorquando, ne I fratelli Karamazov, per tramite di Ivan, si interroga sulla
crudeltà di cui gli esseri umani sanno dare prova e sul dolore dei bimbi, sul
male che distrugge il corpo e annichilisce l’anima, rispetto al quale non si
possono trovare né risposte né giustificazioni.
Se
da queste pagine riusciamo a conoscere il dolore e il senso di solitudine che
vissero la piccola e i bambini che come lei furono travolti dall’assenza e
dalla morte dei loro genitori, possiamo anche immaginare il travaglio e il
dolore del padre di Miuccia e di tutti i genitori strappati ai loro figli,
catturati, rinchiusi, deportati senza che se ne sapesse più nulla, con l’unica
speranza del ritorno a riempire i loro giorni. La stessa speranza che sosteneva
le loro famiglie: ma quando si manifesta la vanità di questo sperare e la
consapevolezza di un’assenza che sarebbe stata per sempre e non avrebbe mai
trovato rimedio, il senso di vuoto e di disperazione si fa incolmabile e
totale. La morte inghiotte i deportati, e nelle loro famiglie la vita cambia
inesorabilmente.
In
fondo questo libro, manifestando tale assenza irrimediabile e assoluta,
permette di ricucire nella profondità della pagina scritta un rapporto lacerato
per sempre. Dopo questo libro Miuccia e suo padre non saranno Mai più
lontani.
[1] Spinoza, Ethica IV, prop. 73 dem