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lunedì 5 agosto 2019

CELESTINO E DANTE
di Nino Di Paolo

Nino Dipaolo tra i fichi d'India

Si possono scrivere versi dissacranti, al confine della blasfemia, nei confronti del più grande poeta di ogni epoca che, ancora in vita, nel Limbo del suo “Inferno”, poneva sé al pari di Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano, discutendoci amabilmente? Dante era già cosciente di essere ciò che i posteri non avrebbero che potuto riconoscere: il suo primato tra chiunque abbia messo su carta parole, tesi, visioni, giudizi etici. Neppure nelle Sacre Scritture la descrizione dell’aldilà è puntuale come nella sua Commedia.
E lo è al punto tale che, nel nostro immaginario, l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso, per chi ci crede, lo vediamo davvero così.
Proprio riguardo ad uno degli aspetti della sua maggiore opera, quello dei giudizi etici, vorrei proporre una riflessione, partendo dal modo attraverso cui egli parlò, senza citarlo mai per nome, del personaggio di Pietro Angeleri, eremita sul Monte Morrone, divenuto papa con il nome di Celestino V, promulgatore di indulgenze non prezzolate (come d’uso all’epoca) attraverso l’Istituto della Perdonanza, dimessosi dalla carica per ragioni di coscienza e successivamente fatto imprigionare e lasciato morire in carcere dal suo successore, Bonifacio VIII, elevato al rango di Santo (lui, non il successore) con il nome di san Pietro Celestino nel 1313, pochissimi anni dopo la morte.
Ebbene, mentre la Chiesa lo canonizza Dante lo colloca tra gli Ignavi dell’Antinferno, il luogo più spregevole dell’Aldilà, non citandolo mai per nome ma facendone comprendere l’identità senza dubbio alcuno.
Perché?
Dante Alighieri

Pietro Angeleri del Monte Morrone è rappresentante di quel filone pauperistico della religiosità medievale che include sia i Catari che Francesco d’Assisi le cui rispettive ed alterne fortune furono determinate da circostanze anche assai casuali, tragiche nel caso dei primi e provvidenziali nel caso del secondo. Dante è uomo tutt’altro che supino alle prepotenze dei Potenti o dei Furbi e ne paga le conseguenze, così come Celestino.
Non perdona, però, all’inventore della Perdonanza, di non aver utilizzato anche il Potere Temporale per riformare la Chiesa ed il Mondo tutto.
Non che fosse facile.
La Corona francese aveva già messo occhi e ferro sulla penisola e gli eventi già si erano indirizzati verso quell’egemonia d’Oltralpe che, di lì a poco, si sarebbe portata anche il Trono Petrino al di là dello spartiacque alpino, seppure nella Provenza non ancora formalmente sottomessa alla Parigi Capetingia.

Celestino V

Celestino rappresenta totalmente la filosofia della Croce, di chi porge l’altra guancia, a differenza di Dante, che l’egemonia spirituale la interpreta anche come necessità di vittoria “militare”.
Sta probabilmente qui la divaricazione che non consente ad Alighieri di onorare Celestino come lo onoravano i fedeli che avevano percepito la sua santità ma, anzi, a scaraventarlo tra i più spregevoli tra gli spregevoli, degni di una delle pene più disgustose del suo Inferno: essere eternamente divorati da schifosissimi insetti. Per Dante il Cristianesimo deve trionfare, per Celestino Cristo si raggiunge attraverso le vie della mitezza. Di qui queste quartine maliziosamente ammiccanti a ragioni più “interessate” da parte del Sommo nel cacciare Pietro Celestino “innominato” tra quei ripugnanti tormenti. Con tutto l’affetto, la riconoscenza e la gratitudine che sento di avere sia verso Celestino che verso Dante. Benché parteggi apertamente per il primo, come già si sarà notato.

Un gruppo di naviganti di Odissea in Franciacorta
Nino Dipaolo è il primo a sinistra

Se n’è guardato ben’il sommo Dante
a citare san Pietro Celestino
nella su’ Commedia itinerante
nei Regni dell’uman futur destino.

Lascia al lettore il decifrare verso
e dare faccia a chi quel “gran rifiuto”
avrebbe pronunciato o se, diverso,
personaggio di nome sconosciuto.

Non son degni per lui l’omin’ignavi
d’esser neppur per sbaglio là citati
ed esser visti molto più che pravi
messi nel bordo-Inferno, disgraziati.

E Celestin, già morto nel Trecento,
non troviamo nel resto dei dannati,
e né a purgar sul Monte a viso spento
e né tra i ciel di luce incastonati.

Allor l’è proprio lui l’indegno lordo
che venga dagl’insetti martoriato?
Dantesco cuor, ad occorrenza sordo,
lo mette tra la feccia del Creato?

Su Dante un dubbio ci teniamo allora
per non doverci poscia metter lui
in un nuovo giron della malora:
chi spara sopr’ai mit’in versi bui.

Colpire la mitezza del Morrone,
‘ché la spada lui non volle usare,
è cacciare la man nella questione
in cui scegliere da che parte stare.

Altra motivazione di malizia
ci dice che lo suo biliar rancore
cagionato sia stato da tristizia
d’esilio decretato con livore

da quella parte de’ li fiorentini
che da lo successor di Celestino,
quel Bonifacio da li calcol fini,
tenuti fur in modo sopraffino.

è per questo che, forse, l’Alighieri
a me, tapin, lo stesso m’è restato
indigesto, benché critici seri
ed il mondo ha sempr’entusiasmato.