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mercoledì 18 settembre 2019

BENEDETTO CROCE: PRO MEMORIA
di Fulvio Papi
 
Benedetto Croce

Per una trasmissione televisiva della sua “storia” è ricomparsa la figura di Benedetto Croce. Dico “ricomparsa” perché del filosofo non se ne parla quasi più: esistono libri di notevole interesse, ma ormai fanno parte di quell’archivio della cultura, gradino di cultura degli specialisti, ma non occasione per una divulgazione più ampia nello stesso ceto colto. In una trasmissione televisiva è ovvio che si proceda per analisi molto generali che rischiano di ripetere consolidati luoghi comuni, e quindi forse vale la pena di tornare sull’argomento soprattutto per ricordare il rapporto che il filosofo ebbe con il fascismo e con le sue differenze interne, dove era rilevante la distanza teorica e politica con il suo ex - sodale Giovanni Gentile.
Non si tratta di mostrare, a distanza di decenni, che l’antifascismo di Croce prese la forma di una testimonianza oggettiva solo dopo, ma immediatamente dopo, il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, quando questi si assunse ogni responsabilità morale e politica di quello che era stata la pratica politica del fascismo dal primo incendio dell’Avanti! nel 1919, all’uccisione di Giacomo Matteotti nell’estate del 1924, quanto di tentare un profilo politico di Croce che, pur nelle differenze contingenti, mi pare mostri una sua contrarietà teorica e pratica che potrebbe essere una identificazione storica che, senza cadere in semplificazioni arbitrarie, può mostrare una coerenza, che ha il suo posto nella storia italiana e soprattutto nei suoi effetti diffusi.
Ancora alla vigilia del celebre discorso di Mussolini, cioè nel settembre del ’24, Croce scriveva all’ottimo amico milanese, Casati, prossimo alla sua cultura e alla sua sensibilità morale, che egli si trovava in una equidistanza tra l’amicizia e l’inimicizia nei confronti del fascismo.
Non ho nessuna intenzione di evocare risentimenti aggressivi, ma piuttosto di interrogarmi su quale poteva essere la condizione storica e politica di Croce, per poi precipitare qualche settimana dopo in una opposizione che aveva al suo centro la difesa della libertà individuale e collettiva e voleva andare al di là del criterio tradizionale dei suoi seguaci. Per mancanza di altre prove, è piuttosto ovvio ritenere che lo sviluppo del potere fascista aveva ormai varcato quel limite nel quale i conservatori pensavano di poterne usare la forza contro i socialisti (sugli errori della politica massimalista sarebbe facilissimo fare un’antologia). Croce ormai prende le distanze dal suo “machiavellico” opportunismo, dato che il 4 gennaio già scrive a Casati di abbandonare il Senato. Il precipitare della svolta di Croce è facilmente visibile solo se si ricorda che il suo rapporto con il regime dopo l’assassinio Matteotti non è nemmeno all’altezza della protesta di un intellettuale riservato e “privato” come Clemente Rebora, per come la organizza nella scuola privata dove insegnava. Ancora nel ’24 Croce sosteneva che il fascismo era una esperienza storica “di passaggio” che avrebbe consentito, dopo gli eccessi del “biennio rosso”, di restaurare la forma politica e statuale che, prima della guerra, era propria dello stile liberal-conservatore, il quale nel parlamento formava un’intesa di notabili, più che la struttura di un partito politico. Il che non pare particolarmente sottile, a meno che non si creda nel processo storico esista una forza ideale invincibile, simile, nell’immanenza a una provvidenza divina. 

Nicola Abbagnano

Il giudizio che Abbagnano affida ai suoi “Ricordi” del 1990 è molto più severo: “non intendo dubitare del suo successivo (dopo il 3 gennaio) antifascismo, nel quale dovette peraltro entrare qualche dose di risentimento da “prima donna” contro Gentile che con il suo “Manifesto” era diventato per il fascismo il filosofo di corte. Per don Benedetto agiva talvolta una prepotente forma di “guapperia” napoletana, specie nelle faccende che riguardavano il suo primato in tale “guapperia” partenopea, sia pure dal tratto spagnolesco e all’insegna di un alto livello culturale, è inscrivibile allo stesso bisogno di avere una corte”. Occorre lasciare del tutto ad Abbagnano quello che è suo: si può notare che il giudizio secco e psicologico è molto più “duro” rispetto a quello ben noto di Gramsci sul “papa laico”, dove nella parola “papa” c’è il concetto stesso di egemonia.
Non dimenticherei la censura dell’opera “La storia come pensiero e come azione” del 1938, poi rientrata. Bisogna anche dire che nello sviluppo delle vicende storiche dopo il crollo del 1943, l’eco della parola “libertà” del “manifesto” di Croce andava ben oltre, la contingenza più o meno personale del documento stesso. Tant’è che io trovavo questa parola come dominante nel foglio della formazione partigiana che seguivo più direttamente con una adolescenziale emotività.
Quanto alla posizione personale di Croce, dopo una aggressione nel ’26 nella sua casa da parte di una banda teppistico-fascista, non subì altre violenze. Nella testa “magistrale” di Mussolini entrarono in corto circuito gli elementi di superficie dell’atmosfera culturale del tempo (dai futuristi, ai guerreschi vociani, a un Nietzsche grossolano da trattoria di paese, alle varie forme di vitalismo filosofico tedesco e francese) non sfuggiva per niente, da abile manovratore politico, che quello che contava era ormai una rapida e violenta fascistizzazione del paese in tutti i suoi organismi e nelle forme rilevanti della vita pubblica molto più di un lessico che, nelle sue sfumature, aveva comunque una circolazione molto limitata e in ambienti sociali ristretti. La vendetta nei confronti degli intellettuali non allineati (i filosofi, per esempio, del famoso Congresso di Milano sospeso dal rettore fascista) ebbe luogo nel 1931 con l’obbligo del giuramento di fedeltà al regime per mantenere la cattedra universitaria. La più completa fascistizzazione della scuola di ogni ordine venne poi nel ’37.
A. Labriola

È un’ovvietà ripetere, per quanto riguarda il giudizio politico su Croce, che egli era allineato per posizione sociale, gusto idealistico della cultura, per stile personale a quel liberalismo conservatore che nel ’22, assieme ai popolani ispirati dal Vaticano, votò il governo Mussolini come rivalsa del “biennio rosso”. Tuttavia per capire bene questa vicenda politica è più utile iniziare, quando l’ottantenne Croce si trovò in una situazione post-bellica che non aveva (nel quadro politico) da decenni più alcuna somiglianza con il suo esordio socialista all’ombra della lezione di Labriola, corrispondente con Engels. Il giovane aveva presto ritrovato la sua appartenenza alla cultura economica della rendita fondiaria e dello stile etico che la contraddistingueva anche nei gradi più alti dello spirito. Il marxismo poteva essere un modo intellettuale per comprendere la storia, non una teoria economica. Il marginalismo economico poneva la teorizzazione della realtà economica (sono molto lontani i temi del “vitale”) molto più valida del rapporto marxiano tra tempo, lavoro e valore, che poteva essere solo l’ottica ideologica del proletariato.
Avevo detto che cominciavo dalla fine. Ebbene il Croce del secondo dopoguerra ha in odio particolare i suoi stessi “allievi” che coniugavano la libertà con una giustizia dal timbro certamente filo-socialista. Era il sogno del Partito d’Azione. Ma per Croce questo era un inquinamento pragmatico intellettuale: la libertà è il senso della storia, e quindi la costruzione esistenziale di una politica che non deve integrarsi con altre pratiche ideologiche, proprio come Croce giudicava la storia europea. Del resto gli erano intollerabili le stesse contingenti strategie politiche del partito liberale, come, ad esempio, fu sul problema della scuola pubblica.
Croce, che in un tempo ormai lontano, era un po’ diventato un’icona della libertà, e quindi il simbolo dell’antifascismo, adesso come allora, mostrava una concezione “metafisica” della politica, un gioco privilegiato e sapiente di intellettuali che ritenevano per il loro campo, di essere gli interpreti dell’azione (oltre che del pensiero). La nazionalizzazione delle masse era una riflessione estranea e irraggiungibile del vecchio Croce.
In due parole: Croce era sempre Croce, così come il valore etico della libertà rimaneva la finalità della storia. C’era tutta la concretezza di un Croce, filosofo idealista della cultura, che rimaneva una identità di valore, e nella sua identità attraversava tempi diversi senza “valorizzare” l’impegno della loro contingenza. L’inizio è simile alla fine, la mitologia quanto all’autore, alla sua storia, al suo grande lavoro, appartengono al tempo di un nostro desiderio di identità positiva o negativa, che è passata come stiamo passando noi stessi.