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mercoledì 18 settembre 2019

LE PIANTE DELLE CILIEGIE
di Nicolino Longo


[Molte parole italiane vengono riportate anche, tra parentesi e in corsivo, nel dialetto locale (ma solo quelle che, con tema e desinenza, più si discostano dalle corrispondenti in lingua madre), affinché se ne conservi la memoria]

I
Ora, di quasi tutti quei ciliegi (cirasi), son rimasti solo i ceppi (i truncuni), le cui fessure ((animate da migliaia di formiche rizzaculo (cuderci) e forfecchie (purficicchj)) son le uniche bocche atteggiate a smagliante e nostalgico sorriso di quei tempi che, lieti, nei sogni, assai spesso, ritornano, con i frutti spiccanti tra il verde delle foglie e quello della nostra ormai lontana e irremeabile giovinezza, e coi rami cascanti ad ombrello, o a mo’ di salici piangenti, sui campi di fieno o di grano, o sulle nostre bocche sdraiati sull’erba.
Ogni anno, a ogni raccolta di ciliegie (cirasi), ci si liberava dei sandali (quando li si aveva, dacché d’estate noi si usava camminare sempre “nus pieds”, tanto da avere a “superficie plantare” più “suola” degli stessi sandali e scarpe) e si saliva, sugli alberi, scalzi. Lo si faceva con due panieri (panari), infilati per i manici alle braccia, che venivano appesi ai rametti più robusti e già secchi, che meglio potessero poi reggerne il peso. Ma, una volta sulle piante, il primo paniere da riempire era sempre lo stomaco, e, non di rado, fino al rigurgito rosso o alla diarrea. Era impossibile non mangiarne, tutte le volte, a sazietà, sia pure con qualche fetta di pane, che ci si portava di proposito in un paniere, per alleviarne o prevenirne le conseguenze di cui detto.


Tre le varietà delle ciliegie: le maggesi ((i (cirasi) palummi)), le durone ((i (cirasi) patierni)) e le marasche ((i (cirasi) cacarieddri)). Gli uccellini, al nostro fianco, beccavano sempre quelle più mature, fino a lasciarcene soltanto gli ossicini appesi ai peduncoli. Le lucertole (i suricchj) e i ramarri (i salavruni) facevano la loro parte su altri rami, a distanza: ma anche le formiche (i furmiculi) espletavano la loro, assieme a cervi volanti (mulinari) e cetonie (zurri zurri). Il vero bottino, però, era quello realizzato, poi, in nostra assenza, dalle “signore” ghiandaie (pichi). Oggi, i pennuti carpofagi, o frugivori qual dir si voglia, sono aumentati con presenza abbondante, sulle poche piante rimastene, di corvi (di cuorivi), taccole (ciaguli) e cornacchie, che se ne nutrono ancor prima che maturino. Una volta saliti sugli alberi (si cominciava, con la raccolta, verso la fine di maggio), un gran pericolo, per noi, non erano i concorrenti -ci si passi il neologismo- “ciliegiofagi” leali di cui detto, ma le vespe e i calabroni ((i vispuni (russi)), con cui s’ingaggiavano spesso furibonde lotte, uscendone, a volte, anche “dolorosamente” sconfitti. 


Fra i cespugli d’attorno, invece, non mancava, quasi mai, la presenza di saettoni o colubri lisci, (“scurzuni janchi”, entrambi); cervoni (sirpintani) o biacchi (scurzuni); bisce dal collare (cegli), od orbettini (linguavoja). E neppure quella delle vipere (di ‘i vipari), al cui sibilo, o soffio, ci si fermava di botto, col cuore in gola, e si aizzava loro contro immantinente il cane che, dopo vari tentativi, riusciva ad acciuffarle, a scuoterle ripetutamente, e a mordicchiarle fino a farle morire: tante volte ne rimaneva morso anche lui, pur se ne usciva sempre indenne, grazie al sollecito intervento di qualcuno che gli punzecchiava, con un grosso aculeo di pungitopo, o con la punta di un compasso scolastico, il muso o la gola fino a fargliene uscire gran parte del veleno.
Vipera

Quando ci s’imbatteva in una vipera, questa doveva essere -in ossequio al motto latino: mors tua vita mea-giocoforza eliminata, altrimenti, prima o poi, avrebbe eliminato noi, dal momento che all’epoca le campagne non erano servite da strade, per cui in nessun caso si sarebbe avuto la possibilità, una volta rimasti vittime del suo morso, di raggiungere, percorrendo decine di chilometri, a piedi, un ospedale. La specie in cui ci s’imbatteva era, ovviamente, la “vipera aspis”, o “vipera comune”, dal color bruno-rossastro, con una serie di barre scure trasversali alternate, o riunite tra loro da una struttura vertebrale. Anche se la “vipera dell’Orsini” (vipera Ursinii) è presente, solo nell’Italia Centrale, una sosia dal color grigio-brunastro, con sul dorso, dalla nuca alla coda, una serie di grandi macchie nere, zigzaganti, a forme romboidali o rettangolari, la s’incontrava spesso anche nelle nostre campagne: sicuramente doveva essere, direbbero gli erpetologi, una variante della nostra vipera comune (dacché tante sono le livree che essa può assumere): variante che noi, qui, in Calabria, chiamiamo, ‘u guardapassu”, col relativo, infausto, proverbio: “ ’u guardapassu adduvi ti muzzica  ddrà ti lassa”= “il guarda passi dove ti morde là ti lascia”). La stessa sorte di soppressione toccava, all’occasione, da parte del cane, anche a tutti gli altri rettili che ci si opponevano con sibili o slanci aggressivi (come i cervoni -che venivano a trangugiarsi anche le uova delle galline- o i biacchi).

Biacco
                          
II

I fondi con le ciliegie (“U Luocu” e I Puzzi,  entrambi in alta collina:  il primo, fra zona “Cugnie località “Scschina”, in San Nicola Arcella; il secondo (nella C/da Pozzi), in agro di Santa Domenica Talao, ai piedi “d’ ’a Timpa ’i Puzzi, ossia della “Serra La Limpida”: m. 1.119) erano zone frequentate anche da alcuni pastori che, non avendo zaini, né bisacce, dopo essersene, su nostro invito, riempito lo stomaco, si toglievano la camicia e ne riempivano anche le maniche, e ciò dopo averne serrato i polsi con dei fil di ginestra (cu fili ‘i spartu); e con quel ben di Dio rosso a tracolla, poi, fischiettando e canterellando, sembrava che non più avvertissero la fatica dell’inerpicarsi sulle “Serre”, assieme alle loro greggi.
In giugno, ogni anno, grande era poi l’afflusso di parenti ed amici che, nel venirci ad aiutare a mietere il fieno ((fieno, a quei tempi, non ancor di erba medica, ma di sol moco (olica) e veccia (vizza)), non mancavano di farsene, ogni giorno, delle grosse scorpacciate (s’intende, di ciliegie, non di fieno) e portarsene, poi, a sera, grandi quantità per figli, parenti ed amici a loro volta: il trasporto era prerogativa esclusiva, per chi non avesse l’asino al seguito, delle donne che, dopo avere adagiato sul proprio capo il cercine (‘a crona), vi allogavano, sopra, ognuna, una cesta (‘na cista) piena di ciliegie, e non poche erano, poi, per la stanchezza, durante il tragitto di svariati chilometri, le fermate prima di raggiungere casa. 

   
La mietitura delle messi ((avena, orzo (uoriju), mais (migliu), senatore Cappelli (sonaturu cappellu), carosella (caruseddra), marzuolo (vatra), abbondanza (vunnanzija), segale (jermanu), ecc.)), invece, aveva inizio in luglio ((con più o meno gli stessi parenti (“Peppu ‘i zi’ Marija” -Giuseppe De Presbiteris- in testa: un ragazzone di circa un metro e novanta che riusciva a fare incetta di ciliegie risparmiandosi quasi sempre di salire sulle piante) gli stessi parenti, dicevo, ed amici al seguito, ma con la piena delle deliziose bacche rosse ormai tendente alla magra)), e tutto, ovviamente, avveniva frammezzo a un gran tripudio di api, farfalle, bombi, libellule, mosconi, cetonie, tafani (tavani), coccinelle (palummeddri, o puddrureddri, russi),maggiolini e cervi volanti, il cui ronzio, unito al canto  delle cicale (d’ i zicali), e a quello melodioso delle allodole (che attiravano i nostri sguardi anche per i particolari battiti alari e il loro volo ondulato, alto nel cielo), era musica dolce e soave per i nostri timpani. Mietitura e scorpacciate di ciliegie erano allora, per noi, come una grande, idilliaca, campestre kermesse, che, alla fine di ogni anno scolastico, in quei mesi (brulicanti di lucciole, alla sera) ci attendeva e ripagava, giorno dopo giorno, di tutti gli sforzi fatti fra i banchi.
Alla nostra memoria visiva, olfattiva e nostalgica è, ormai, oggi, troppo lontano il “biondeggiar” di quelle messi ondeggianti a ogni refolo o brezza di mare,  il “verde” clorofilliano di quei boschetti di ciliegi, e il “rubino” abbacinante di quelle loro prelibate e gustose bacche di dolcezza, nonché l’affetto santo e ineffabile dei nostri cari genitori, e quello dei parenti ed amici, da tempo, ormai, quasi tutti assurti alla vastità, azzurrità e sacralità dei cieli. Anche per noi la vita è al capolinea. Il tempo che rimane è, ormai, solo quello per dire addio a tutto ciò che ci lasceremo alle spalle, e che non vedremo mai più, per milioni, centillioni (sic) e millillioni (sic) di anni: ossia, per tutta l’eternità. Un monito epicureo ai giovani: “Vivete appieno la vita, senza giammai tradirne l’oraziano carpe diem”. Ma anche senza mai permettere ai rovi (a ‘i spini) di arrampicarsi sui ciliegi se ne avete, e che siate, invece, sempre voi a farlo, e a deliziarvi dei loro frutti.