di Nicolino
Longo
[Molte parole italiane vengono riportate
anche, tra parentesi e in corsivo, nel dialetto locale (ma solo quelle che, con
tema e desinenza, più si discostano dalle corrispondenti in lingua madre),
affinché se ne conservi la memoria]
I
Ora, di quasi tutti quei ciliegi (cirasi),
son rimasti solo i ceppi (i truncuni),
le cui fessure ((animate da migliaia di formiche rizzaculo (cuderci) e forfecchie (purficicchj)) son le uniche bocche
atteggiate a smagliante e nostalgico sorriso di quei tempi che, lieti, nei
sogni, assai spesso, ritornano, con i frutti spiccanti tra il verde delle
foglie e quello della nostra ormai lontana e irremeabile giovinezza, e coi rami
cascanti ad ombrello, o a mo’ di salici piangenti, sui campi di fieno o di
grano, o sulle nostre bocche sdraiati sull’erba.
Ogni anno, a ogni raccolta di ciliegie (cirasi), ci si liberava dei sandali
(quando li si aveva, dacché d’estate noi si usava camminare sempre “nus pieds”,
tanto da avere a “superficie plantare” più “suola” degli stessi sandali e
scarpe) e si saliva, sugli alberi, scalzi. Lo si faceva con due panieri (panari), infilati per i manici alle
braccia, che venivano appesi ai rametti più robusti e già secchi, che meglio
potessero poi reggerne il peso. Ma, una volta sulle piante, il primo paniere da
riempire era sempre lo stomaco, e, non di rado, fino al rigurgito rosso o alla
diarrea. Era impossibile non mangiarne, tutte le volte, a sazietà, sia pure con
qualche fetta di pane, che ci si portava di proposito in un paniere, per alleviarne
o prevenirne le conseguenze di cui detto.
Tre le varietà delle ciliegie: le maggesi ((i (cirasi) palummi)), le durone ((i (cirasi) patierni)) e le marasche ((i (cirasi) cacarieddri)). Gli uccellini,
al nostro fianco, beccavano sempre quelle più mature, fino a lasciarcene
soltanto gli ossicini appesi ai peduncoli. Le lucertole (i suricchj) e i ramarri (i
salavruni) facevano la loro parte su altri rami, a distanza: ma anche le
formiche (i furmiculi) espletavano la
loro, assieme a cervi volanti (mulinari)
e cetonie (zurri zurri). Il vero
bottino, però, era quello realizzato, poi, in nostra assenza, dalle “signore”
ghiandaie (pichi). Oggi, i pennuti
carpofagi, o frugivori qual dir si voglia, sono aumentati con presenza
abbondante, sulle poche piante rimastene, di corvi (di cuorivi), taccole (ciaguli) e cornacchie, che se ne nutrono
ancor prima che maturino. Una volta saliti sugli alberi (si cominciava, con la
raccolta, verso la fine di maggio), un gran pericolo, per noi, non erano i
concorrenti -ci si passi il neologismo- “ciliegiofagi” leali di cui detto, ma
le vespe e i calabroni ((i vispuni (russi)),
con cui s’ingaggiavano spesso furibonde lotte, uscendone, a volte, anche
“dolorosamente” sconfitti.
Fra i cespugli d’attorno, invece, non mancava, quasi
mai, la presenza di saettoni o colubri lisci, (“scurzuni janchi”, entrambi); cervoni (sirpintani) o biacchi (scurzuni);
bisce dal collare (cegli), od
orbettini (linguavoja). E neppure
quella delle vipere (di ‘i vipari),
al cui sibilo, o soffio, ci si fermava di botto, col cuore in gola, e si
aizzava loro contro immantinente il cane che, dopo vari tentativi, riusciva ad
acciuffarle, a scuoterle ripetutamente, e a mordicchiarle fino a farle morire:
tante volte ne rimaneva morso anche lui, pur se ne usciva sempre indenne,
grazie al sollecito intervento di qualcuno che gli punzecchiava, con un grosso
aculeo di pungitopo, o con la punta di un compasso scolastico, il muso o la
gola fino a fargliene uscire gran parte del veleno.
Vipera |
Quando ci s’imbatteva in una vipera, questa
doveva essere -in ossequio al motto latino: mors tua vita mea-giocoforza
eliminata, altrimenti, prima o poi, avrebbe eliminato noi, dal momento che
all’epoca le campagne non erano servite da strade, per cui in nessun caso si
sarebbe avuto la possibilità, una volta rimasti vittime del suo morso, di
raggiungere, percorrendo decine di chilometri, a piedi, un ospedale. La specie
in cui ci s’imbatteva era, ovviamente, la “vipera aspis”, o “vipera comune”,
dal color bruno-rossastro, con una serie di barre scure trasversali alternate,
o riunite tra loro da una struttura vertebrale. Anche se la “vipera
dell’Orsini” (vipera Ursinii) è presente, solo nell’Italia Centrale, una sosia
dal color grigio-brunastro, con sul dorso, dalla nuca alla coda, una serie di
grandi macchie nere, zigzaganti, a forme romboidali o rettangolari, la
s’incontrava spesso anche nelle nostre campagne: sicuramente doveva essere,
direbbero gli erpetologi, una variante della nostra vipera comune (dacché tante
sono le livree che essa può assumere): variante che noi, qui, in Calabria,
chiamiamo, ‘u guardapassu”, col relativo, infausto, proverbio: “ ’u guardapassu
adduvi ti muzzica ddrà ti lassa”= “il
guarda passi dove ti morde là ti lascia”). La stessa sorte di soppressione
toccava, all’occasione, da parte del cane, anche a tutti gli altri rettili che
ci si opponevano con sibili o slanci aggressivi (come i cervoni -che venivano a
trangugiarsi anche le uova delle galline- o i biacchi).
Biacco |
II
I fondi con le ciliegie (“U Luocu” e “I Puzzi”, entrambi in alta
collina: il primo, fra zona “Cugni” e località “Scschina”, in San Nicola
Arcella; il secondo (nella C/da Pozzi), in agro di Santa Domenica Talao, ai
piedi “d’ ’a Timpa ’i Puzzi”, ossia
della “Serra La Limpida”: m. 1.119) erano zone frequentate anche da alcuni
pastori che, non avendo zaini, né bisacce, dopo essersene, su nostro invito,
riempito lo stomaco, si toglievano la camicia e ne riempivano anche le maniche,
e ciò dopo averne serrato i polsi con dei fil di ginestra (cu fili ‘i spartu); e con quel ben di Dio rosso a tracolla, poi,
fischiettando e canterellando, sembrava che non più avvertissero la fatica
dell’inerpicarsi sulle “Serre”, assieme alle loro greggi.
In giugno, ogni anno, grande era poi l’afflusso
di parenti ed amici che, nel venirci ad aiutare a mietere il fieno ((fieno, a
quei tempi, non ancor di erba medica, ma di sol moco (olica) e veccia (vizza)),
non mancavano di farsene, ogni giorno, delle grosse scorpacciate (s’intende, di
ciliegie, non di fieno) e portarsene, poi, a sera, grandi quantità per figli,
parenti ed amici a loro volta: il trasporto era prerogativa esclusiva, per chi
non avesse l’asino al seguito, delle donne che, dopo avere adagiato sul proprio
capo il cercine (‘a crona), vi
allogavano, sopra, ognuna, una cesta (‘na
cista) piena di ciliegie, e non poche erano, poi, per la stanchezza, durante
il tragitto di svariati chilometri, le fermate prima di raggiungere casa.
La mietitura delle messi ((avena, orzo (uoriju), mais (migliu), senatore Cappelli (sonaturu
cappellu), carosella (caruseddra),
marzuolo (vatra), abbondanza (vunnanzija), segale (jermanu), ecc.)), invece, aveva inizio
in luglio ((con più o meno gli stessi parenti (“Peppu ‘i zi’ Marija” -Giuseppe De Presbiteris- in testa: un
ragazzone di circa un metro e novanta che riusciva a fare incetta di ciliegie
risparmiandosi quasi sempre di salire sulle piante) gli stessi parenti, dicevo,
ed amici al seguito, ma con la piena delle deliziose bacche rosse ormai
tendente alla magra)), e tutto, ovviamente, avveniva frammezzo a un gran
tripudio di api, farfalle, bombi, libellule, mosconi, cetonie, tafani (tavani), coccinelle (palummeddri, o puddrureddri, russi),maggiolini
e cervi volanti, il cui ronzio, unito al canto
delle cicale (d’ i zicali), e
a quello melodioso delle allodole (che attiravano i nostri sguardi anche per i
particolari battiti alari e il loro volo ondulato, alto nel cielo), era musica
dolce e soave per i nostri timpani. Mietitura e scorpacciate di ciliegie erano
allora, per noi, come una grande, idilliaca, campestre kermesse, che, alla fine
di ogni anno scolastico, in quei mesi (brulicanti di lucciole, alla sera) ci
attendeva e ripagava, giorno dopo giorno, di tutti gli sforzi fatti fra i
banchi.
Alla nostra memoria visiva, olfattiva e
nostalgica è, ormai, oggi, troppo lontano il “biondeggiar” di quelle messi ondeggianti
a ogni refolo o brezza di mare, il
“verde” clorofilliano di quei boschetti di ciliegi, e il “rubino” abbacinante
di quelle loro prelibate e gustose bacche di dolcezza, nonché l’affetto santo e
ineffabile dei nostri cari genitori, e quello dei parenti ed amici, da tempo,
ormai, quasi tutti assurti alla vastità, azzurrità e sacralità dei cieli. Anche
per noi la vita è al capolinea. Il tempo che rimane è, ormai, solo quello per
dire addio a tutto ciò che ci lasceremo alle spalle, e che non vedremo mai più,
per milioni, centillioni (sic) e millillioni (sic) di anni: ossia, per tutta
l’eternità. Un monito epicureo ai giovani: “Vivete appieno la vita, senza
giammai tradirne l’oraziano carpe diem”. Ma anche senza mai permettere
ai rovi (a ‘i spini) di arrampicarsi
sui ciliegi se ne avete, e che siate, invece, sempre voi a farlo, e a
deliziarvi dei loro frutti.