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domenica 22 dicembre 2019

RIDUZIONE DEL NUMERO DEI PARLAMENTARI:
ARGOMENTI PER IL REFERENDUM
di Franco Astengo


In Parlamento è stato raggiunto il numero di firme necessario perché si addivenga alla celebrazione del referendum popolare abrogativo della legge che stabilisce la riduzione nel numero dei parlamentari portandolo a 400 per i deputati e a 200 per i senatori in luogo rispettivamente di 630 e 315.
Sarà indispensabile che nel confronto elettorale sia presente una “sinistra costituzionale” in grado di proporre una riflessione sulla centralità del parlamento come delineata dalla Carta e sull’esigenza che questa centralità sia sostenuta da un adeguato livello di rappresentanza politica e territoriale.
Da questo punto di vista bisognerà far notare come il livello dello scontro sarà della stessa qualità di quello sostenuto avverso il disegno di deforma costituzionale del 2016.
Naturalmente rimane tutto da vedere se si svolgerà davvero il confronto nelle urne: sono diverse le variabili possibili prima fra tutte quella di chi potrebbe avere interesse ad anticipare le elezioni per aver ancora a disposizione un numero maggiore di seggi da mettere in palio consentendo ai partiti margini di manovra più ampi sui termini delicati della composizione delle liste.
Si ricorda comunque che lo svolgimento delle elezioni legislative generali e del referendum confermativo è compatibile nello stesso anno, come accadde nel 2006 (in quell’anno si elesse anche il nuovo Presidente della Repubblica).
In caso affermativo il voto dovrebbe effettuarsi in primavera e sarà una campagna elettorale molto difficile per chi intendesse di sostenere il mantenimento dei numeri attuali.


È facile, infatti, individuare come rimanga molto forte, comunque, nell’opinione pubblica il vento dell’antipolitica alimentato dall’idea della “riduzione dei costi”, vero e proprio punto terminale di una sorta di “furia iconoclasta” ormai in corso da molto tempo e rivolta verso il Parlamento e i suoi membri. Tutto questo avviene, del resto, in un Paese dove il 48% delle cittadine e dei cittadini auspica un “uomo solo al comando” dotato di poteri non intralciabili da elezioni e parlamento: un grido che, del resto, si levò molto forte da tutte le spiagge nell’indimenticabile estate del 2019.
Chi intendesse sviluppare una campagna elettorale favorevole all’abrogazione della legge di riduzione si troverebbe quindi sottoposto al rischio di ondate di forte impopolarità, come avvenne del resto a coloro che nel 1993 difesero l’impianto proporzionale dalla ventata maggioritaria (referendum del 18 aprile di quell’anno con l’82% favorevole al maggioritario: i risultati di quella vera e propria “ubriacatura collettiva” sono stati quelli che abbiamo sotto gli occhi: difficile ingovernabilità, crescita numerica dei gruppi parlamentari, estrema fragilità del sistema politico e sfibramento nel rapporto di credibilità delle istituzioni rispetto all’opinione pubblica).
È comunque il caso di aprire un ragionamento di merito.
Principiamo dal tema più delicato: quello riguardante i costi del Parlamento e l’auspicato contenimento. Una riduzione che farebbe, appunto, leva su di un minor numero di persone presenti nelle aule anziché sulla riduzione dei loro emolumenti e su di una revisione complessiva del tema del finanziamento della politica affrontato anch’esso nel corso degli anni con un pressapochismo derivante direttamente dall’inseguimento acritico di ventate populiste.
In realtà la questione del numero dei parlamentari non dovrebbe riguardare il tema dei costi della politica, come invece agitato dalle mode propagandistiche di questi tempi.



Vale la pena ricordare alcune banalità: il numero dei parlamentari dovrebbe, infatti, essere legato a due questioni assolutamente decisive per il funzionamento di una democrazia complessa come dovrebbe essere quella italiana, quella della presenza politica e quella della presenza territoriale.
Al riguardo di questi temi, è bene ricordarlo, sono in essere tendenze fortemente semplificatorie al punto da far pensare una situazione già collocata pericolosamente “oltre” quelle tensioni presidenzialiste che pure erano affiorate nel recente passato con l’inasprirsi del peso della personalizzazione della politica, fenomeno veicolato da un uso esasperato della comunicazione mediatica in maniera del tutto distorcente il messaggio generale del dibattito pubblico.
Il riferimento della pericolosità della situazione sul piano della tenuta democratica è dovuto insieme, alle tensioni populiste nate dalla cosiddetta “antipolitica” e rivelatesi sicuramente egemoni assieme alle tentazioni sovraniste seguite: All’arresto del processo di globalizzazione seguito alla crisi dei subprime del 2007; all’andamento e all’esito delle guerre mediorientali e nel Nord Africa. Guerre segnate dal fallimento della linea dell’esportazione forzata dal modello liberaldemocratico.
L’insorgere di un’articolazione di confronto tra le grandi potenze seguente la fase contrassegnata dagli “USA soli gendarmi del mondo” nel post caduta del muro di Berlino e dalla teoria (sbagliata e ripudiata dallo stesso autore) della “fine della storia”.


Torniamo però al centro del nostro discorso.
Come è già stato fatto rilevare non sarà semplice, e all’apparenza sicuramente impopolare, sostenere il mantenimento degli attuali numeri di composizione delle Camere rimanendo anche vigente il bicameralismo paritario.
Pur tuttavia è necessario farlo precisando da subito alcuni dati che ignorati potrebbero far passare per verità dei semplici luoghi comuni.
Prima di tutto con questa riforma l’Italia passerebbe, infatti, a uno degli ultimi posti in Europa sul piano della rappresentanza politica in rapporto alla popolazione. La riduzione del numero dei parlamentari così come prevista dalla legge oggi eventualmente sottoposta al vaglio referendario, porterebbe, infatti, il rapporto tra il singolo parlamentare e la popolazione di riferimento a 1 su 151.000. Nel Regno Unito il rapporto è 1 su 101.000; in Olanda 1 su 114.000; in Francia 1 su 116.000; Germania 1 su 116.000; Spagna 1 su133.000.
Sono stati citati Paesi di consolidato assetto democratico con una presenza abbastanza ampia sul piano del pluralismo parlamentare. Paesi che utilizzano diverse formule elettorali, dalla proporzionale pura dell’Olanda, alla proporzionale con sbarramento al 5% in Germania, ai relativamente piccoli collegi della Spagna dove non si recuperano i resti utilizzando il d’Hondt, al doppio turno francese.
Occorre allora chiarire che affrontare il tema del numero dei parlamentari non dovrebbe essere possibile in assenza di una valutazione complessiva circa il rapporto di popolazione esistente all’interno del collegio e/o circoscrizione; del metodo di elezione (lista bloccata “corta”, uninominale o lista lunga con preferenze, esprimibili in vario modo) e la realtà del sistema politico dal punto di vista della sua capacità di rappresentanza delle diverse “sensibilità politiche” (usando un termine togliattiano) presenti in una dimensione consistente nel territorio nazionale, garantendo anche la presenza delle minoranze linguistiche ed etniche.




La questione deve quindi essere intesa come afferente il sistema elettorale nel suo complesso (che non riveste rango costituzionale) e non soltanto vista sotto l’aspetto della formula di traduzione dei voti in seggi.
In questo senso appare dunque fondamentale il disegno dei collegi: un punto sul quale, in passato, si erano già sviluppate criticità che portarono a rappresentare elementi dirimenti per il giudizio negativo espresso dalla Corte Costituzionale al riguardo dei ben due leggi elettorali, entrambe bocciate dalla stessa Alta Corte. Disegno dei collegi che non è stato ancora eseguito.
Si ricorda, infine, come la Costituzione preveda un sistema politico fondato sulla “centralità” del Parlamento, cui il governo è obbligato da un voto di fiducia espresso da entrambi i rami (come confermato dall’esito del referendum del 2016) mentre tocca al Presidente della Repubblica incaricare il Presidente del Consiglio e a controfirmare la lista dei ministri.
Corre dunque il rischio di una dichiarazione di incostituzionalità una composizione delle Camere insufficiente dal punto di vista dei riferimenti di espressione geografica, e di presenza politica.
Rami del Parlamento magari eletti con l’adozione di una formula elettorale di tipo maggioritario che finirebbe con lo schiacciare ancor di più il lavoro dell’aula nel senso di una forzatura governativista (senza dimenticare che esiste anche un problema di regolamenti d’aula e di soglie di garanzia per la presenza delle minoranze).
La questione quindi non è quella dei costi ma di ordinamento delle massime istituzioni rappresentative dello Stato nell’ambito del dettato della Costituzione Repubblicana. Si presentano evidenti riflessi sulla capacità di rappresentanza delle Camere sia sul piano politico, sia territoriale.
Di conseguenza il referendum riguarda il mantenimento del ruolo centrale del Parlamento come previsto dalla Costituzione: in sostanza lo stesso “oggetto del contendere” del referendum che si svolse nel dicembre 2016 attorno al progetto fatto votare (con la fiducia) dal governo Renzi.
In quel frangente all’interno di un coacervo di opzioni politiche anche contraddittorie si espresse anche con chiarezza una sinistra costituzionale che contribuì in misura non secondaria al successo del “NO”.
Oggi sarebbe ancora il caso che l’area politico-culturale rappresentativa della sinistra costituzionale si esprimesse di nuovo con la stessa chiarezza con un “NO” a difesa dell’ordinamento repubblicano messo di nuovo in pericolo da improvvisazioni e facilonerie demagogiche.