di Petronilla
Pacetti
Peter Norman è il giovane atleta che non ha alzato il pugno |
La forza
della gentilezza
Per molti Peter Norman è
sicuramente un nome sconosciuto, per altri, amanti dello sport, il più grande
velocista australiano di tutti i tempi. Credo, però, che pochi sappiano chi era
davvero quest’uomo che pagò un prezzo altissimo a causa del suo impegno per i
diritti dei neri. Ed era bianco. Fu sul podio con Smith e Carlos nella famosa
premiazione dei 200 metri di Città del Messico del 1968; un’immagine che tutti
hanno sicuramente visto anche se non molti conoscono i retroscena e qualcuno
avrà pensato guardandola che lui era fuori luogo in quella straordinaria protesta
con i pugni neri alzati per manifestare contro la discriminazione dei neri
americani. In realtà non solo fu uno dei protagonisti, ma addirittura fu lui
ad avere l’idea di un guanto per uno
(Carlos aveva dimenticato i suoi), Si fece prestare un distintivo dell’Olympic Project of Human Rights e l’appuntò sul
petto per partecipare al gesto degli altri due, ma con estrema discrezione, per lasciare loro tutto
lo spazio possibile; e solo qualcuno avrà notato quella spilla sul suo torace,
ma qualcuno invece notò ogni cosa e mise in atto un feroce processo di
punizione di quell'esperienza straordinaria, avvenuta non casualmente in un
anno certamente non dimenticabile. Tutti e tre gli atleti, vennero duramente
puniti: non solo le loro carriere sportive furono
stroncate, ma le loro stesse vite diventarono un vero inferno.
Monumento a Peter Norman |
Fu il terzo
uomo sì, ma a differenza del protagonista del film di Orson Welles, è stato un
eroe vero, dentro una tradizione familiare da sempre legata all’Esercito della Salvezza, un sostenitore dei diritti
umani che si batteva per la difesa degli Aborigeni, fortemente contrario alla politica della White Australia. Soprattutto per questo
credo che la sua visibilità in quel momento e in quel modo, nonostante la
modestia che lo contraddistingueva, abbia provocato nei suoi confronti una reazione
tanto dura e spietata visto che era ancora in atto il tentativo di
“civilizzare” i bambini aborigeni, una storia
terribile raccontata nel film “La generazione rubata”, del 2002.
Una tragedia sulla quale soltanto a
metà degli anni Novanta è stata avviata un’inchiesta che l’ha definita come “genocidio”
e “crimine
contro l’umanità” e solo da pochi anni il governo australiano ha
chiesto scusa agli Aborigeni, i veri primi abitanti di quella terra, per tutto
questo. Così come solo nel 2012 il Parlamento
di Canberra approvò un postumo atto di “riabilitazione” e di scuse all’atleta e
all'uomo.
Ora (è morto nel 2005) è presente in una statua che rappresenta quel
podio leggendario nel Museo Afroamericano di Washington, un uomo bianco in un
museo di neri per ricordare la sua impresa, non solo sportiva, ma soprattutto
umana; la sua presenza, riservata e tranquilla, che rese però più potente il
gesto degli altri e la loro protesta.
Il Museo |
Anche l’Australia, che non gli permise di partecipare alle successive
Olimpiadi di Monaco di Baviera benché fosse il più grande velocista australiano
di tutti i tempi, e che ha impiegato “solo” 50 anni a rendergli giustizia in
vari modi, gli ha eretto una statua di bronzo al Lakeside Stadium di Melbourne. Dunque Peter Norman capì che stava accadendo la storia, quel giorno, in quel momento,
in quel posto e volle esserne parte, dare il suo contributo pur sapendo, credo,
quanto sarebbe stato alto il prezzo da pagare.
Penso, comunque, che l’omaggio più importante e il riconoscimento più grande
siano stati quelli di Smith e Carlos, che non solo
furono presenti al suo funerale, ma portarono la sua bara, come segno di
riconoscenza per aver condiviso la loro battaglia e le sue conseguenze,
ricambiando così quella solidarietà che Peter aveva dato loro quel giorno
indimenticabile a Città del Messico: un’immagine entrata nella storia.
Nonostante il grande e grave ritardo, alla fine, il Ministro dello Sport John Eren ebbe finalmente parole di ammirazione per
l’uomo: “Mentre altri stavano guardando, Peter ha combattuto per
quello che era giusto. Merita di rimanere nell’immortalità”. D'altronde, come ha detto Tucidide: "Il male non è
soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non
lo impedisce"
Il funerale |
E, pensando a lui, mi viene sempre
in mente Pietro Mennea, anche lui grande atleta dei 200 m (e non solo nello
sport) e quell'esclamazione di sorpresa, in
California, di Muhammad Ali (Cassius Clay) che
sapendolo tanto veloce, dice: “Ma tu sei bianco!”. E Mennea risponde quella
frase straordinaria: “Sì, ma sono nero dentro”. A Mennea, però, i
suoi meriti sono stati riconosciuti in vita al punto che Pertini lo nominò
Commendatore nonostante non avesse ancora l'età prevista. Peter Norman invece ha dovuto subire ostracismo e ingiustizie dopo quel
gesto; e i riconoscimenti sono arrivati solo dopo la sua morte, troppo tardi.
Personalmente credo che questo eroe quasi invisibile, misconosciuto ai più,
andrebbe invece studiato nei libri di scuola, perché ha fatto parte di un’epoca
forse irripetibile e, nel suo caso senza clamore e con una pacata e ferma
semplicità, ha incarnato un
esempio fuori dall’ordinario cambiando la storia e il modo di vedere la realtà
nel/del mondo. Era lì quando bisognava avere il coraggio di esserci, entrando nella
storia o meglio facendola; come vediamo in una delle foto più emblematiche del
Novecento, il secolo in cui tutto, nel bene e nel male, è avvenuto e in cui
tutto (o quasi) è cambiato, o comunque, dopo il quale nulla potrà più essere
come prima.