IL CIVISMO
di Nicola Santagada
Nel mondo pastorale il legare, così come il mancare, ha più
significati. Il legame tra madre e figlio è auspicabile perché proficuo, ma il
legare, come in una morsa, la creatura prima della nascita, è estremamente
pericoloso. C’è, ancora, il legare che indica la realizzazione della
creatura e c’è il legare, nel senso di non dimenticare i torti subiti,
che porta all’odio e alla vendetta. I greci, nel dire πόλις πόλεως (polis), si avvalsero della stessa radice,
che dette luogo a πολύς (polùs),
πολλή πολύ: molto, numeroso e, comunque,
usando la metafora del grembo materno, dissero che la dispersione (il flusso
gravidico, come crescita disordinata) genera il legare dei tanti, per la
realizzazione di ciò che manca, che, qui, indica quello di cui si ha bisogno;
quindi è l’unione solidale dei cittadini, che determina la creazione e la
realizzazione di tutto ciò che serve nella vita. Pertanto, il soddisfacimento
dei bisogni (quello che manca) si consegue con il legame, che rappresenta il
fare, come capacità inventiva e realizzativa, oltre che di pastori e
contadini, di artisti e artigiani. Allora, la differenziazione di ruoli e di
funzioni, come anche l’affiorare del sentimento di solidarietà, così come lo scambio
di attività e prestazioni, costituirono le basi del processo di formazione
delle città. Aristotele riconosceva
all’animale-uomo tre qualità esclusive: vivere in comunità, avvalersi
della ragione e della parola, saper distinguere il giusto dall’ingiusto
e, quindi, il bene dal male. C’è
da rilevare che i greci coniarono prima polis e, poi, πολιτής (polités), che è colui che la città mette al
mondo e che i tanti πολιτάι sono il
collante della polis. Da polis furono dedotti la πολιτεία (politéia): la forma di governo, ma,
soprattutto, il πολιτικός (politicòs),
che è anche chi fa politica, ma è, al primo posto, il cittadino che si lega
agli altri cittadini, diventando un essere civile e determinando un
rapporto di solidarietà. I latini
per indicare città coniarono urbs urbis, che indica che il
bisogno ha determinato la vita associata, contrapposta a rus ruris, che
indica che la laboriosità consente di provvedere al soddisfacimento dei
bisogni. Da urbe furono dedotti il particolare modo di vivere (urbano),
urbanizzare e, in epoca moderna: urbanesimo. Mentre da rus/rur
si formarono rurale, che è ciò che è proprio di chi vive nei campi, rustico,
che non solo esprime rudezza ma anche semplicità e genuinità di vita, e,
infine, rusticano. I latini avevano coniato cibus,
ad indicare ciò che è indispensabile alla creatura in divenire. Poi, dalla
radice cib, o similare, da scrivere con grafia greca: χιβ (la cui traduzione è: va a generare il passare,
che indica il periodo della gestazione) coniarono civis civis, che è
colui che nel processo formativo lega, determinando la creazione
di quanto necessita alla creatura in formazione. Nel concetto di civis
civis, il pastore latino esprime il superamento dell’individualismo
esasperato ed egoistico dell’uomo di natura, in quanto il cittadino è colui
che, legando, determina un modo di vivere solidale per
vincere il bisogno. Allora, il cittadino è colui che, avendo
superato la condizione dell’essere che vive secondo natura: homo homini
lupus, può diventare: homo homini deus. Questo sentimento si
estrinseca meglio in: civico, che è il modo di essere del cittadino, che
riguarda il modo di rapportarsi dei cittadini, in civile, che
rappresenta la semplicità, la moderazione, la gentilezza, l’affabilità, la
socievolezza del cittadino, che sono i valori di cui si sostanzia la civiltà.
I moderni da civico hanno dedotto civismo, in cui l’utile e
l’interesse della comunità prevale sull’utile e l’interesse personali. C’è anche
una guerra civile, molto deprecabile ed assurda, tra cittadini, come in
contrapposizione allo ius naturale c’è lo ius civile. Poi, non
è da sottacere che da civis fu dedotta civitas, che, oltre ad
indicare ciò che generano i cittadini, rappresentò i diritti di cittadinanza
di cui gode il civis romanus. Gli italici coniarono paese,
per indicare essenzialmente il luogo di nascita, in cui si dispiega la propria
attività e a cui si è affettivamente legati. La perifrasi di παίς παιδός servì, invece, ai greci per indicare la
creatura che, nascendo, resta legata alla madre per poter crescere felice,
giocando e godendo degli affetti. I latini,
poi, che avevano la mentalità dei militari, tradussero burgus: piazzaforte,
che rappresenta il grembo inviolabile, impenetrabile, in quanto tutto chiuso,
che si erge come una rupe o come la rocca (arx) del
Campidoglio. La traduzione letterale di borgo è: il luogo dove
trascorro il periodo del venir meno, che, come ho già detto, per i latini
fu il castello, mentre, per gli italici, il borgo rappresentò come una
sorta di opificio, in quanto il grembo è il luogo del fare, il luogo, dove, per
realizzare la creatura, occorrono tutte le arti, anche come tecniche
operative, e tutti i mestieri. Da borgo,
divenuto, nel Medioevo, una sorta di appendice della città, furono dedotti borghese,
colui che si dedica al secondario e al terziario, e la borghesia come
classe sociale, mentre, in un secondo momento, indicò i valori di vita di
una determinata classe sociale.