I greci dal verbo medio πείθομαι: mi lascio persuadere, mi fido dedussero
πίστις (pistis): promessa,
garanzia, fede. Coniando πίστις, i
greci elaborarono la seguente, ben articolata, perifrasi: il crescere va a
fare il tendere, che genera il legame, causa della graduale
formazione dell’essere. Il pastore greco e quello latino avevano delle certezze
per quanto riguarda il processo formativo dell’essere. Dopo il flusso
gravidico, che è il primo abbozzo di crescita del grembo, avviene il legame tra
madre e creatura, che si forma, divenendo in modo sequenziale (con precisione,
occorre dire: mancando), fino al mancare finale, che è la nascita. L’iniziale
crescita disordinata e confusa, in cui non si viene a capo di nulla, che i
greci definirono caos, porta ad una certezza: la madre non abbandonerà
quel minuscolo essere, lo legherà a sé, lo nutrirà secondo i bisogni, favorendone
la formazione fino alla nascita. Allo
stesso modo dei greci, i latini, dal verbo semideponente fido is, fisus
sum, fidere, dedussero: pongo la fiducia, faccio
assegnamento, mi fido, in quanto ragionò così: quando sono in difficoltà
(quando manco), mi rivolgo a…, che è persona affidabile. Per
indicare la pistis dei greci, da fido dedussero: fid-esfidei: fede, promessa, parola data, garanzia.
Con la radice fid, i latini dissero: va nascere il mancare, che
rappresenta la graduale formazione dell’essere, poiché è avvenuto il legame,
per come stabilito, promesso, garantito. La fede,
che, per il cristiano, precede la speranza e la carità, lo era anche per il
pastore latino. Senza quella veritàdi fede, il contadino non
avrebbe seminato e, poi, sperato. La
fede, quindi, è certezza che, nel bisogno, nelle situazioni più amare, c’è una
persona, cui sono legata, che non verrà mai meno, che è l’ancora di salvezza.
Pertanto, si definisce fidato chi mantiene la parola data, in quanto nel
mondo agro-pastorale il rispetto della parola è dell’uomo perbene e di quello
d’onore. Disattendere un impegno preso, significava perdere l’onore, che era il
valore fra i più preziosi. È fedele
la persona sulla quale posso contare sempre e comunque. Quindi, fede è
anche sinonimo di certezza di mantenimento della parola data. Così si spiega la
denominazione di fede data all’anello, così si spiega, in italiano, il fidanzamento,
che, nel dialetto di Amendolara, è indicato con la perifrasi: dare la parola.
Così si spiega la fede in Dio da parte del cristiano, che è come l’abbandono
del bimbo nelle braccia della mamma e che indica fiducia cieca, piena nella
parola rivelata da Dio, che si è sempre manifestato Provvidente. Dimenticare
i concreti, attraverso cui si esplicita il significato di fede, significa
precludersi la possibilità di coglierne l’essenza. Se la
fede è certezza del mantenimento della parola data, la fiducia, che è
ciò che genera la fede, è la consapevolezza che le prove, anche le più aspre,
si possono superare, non solo fidando negli altri, ma soprattutto in sé stessi.
Senza autostima, ogni difficoltà può travolgerci. D’altra parte, avere fiducia
negli altri facilita e migliora i rapporti interpersonali. C’è da dire che i latini, prima di coniare
l’astratto fid-es, coniarono il concreto fid-us: fido, fidato,
sicuro, che è colui che soccorre nel bisogno, mentre da fides
dedussero fid-elis, che è colui che mantiene la parola data. Per quanto
è rassicurante il fido tanto turba il pensiero di trattare con l’infido,
che, solitamente, è poco affidabile, sleale, ma non è alieno dai tradimenti! Brutta
genia è la categoria dei perfidi, persone che operano in malafede, false
e traditrici, ostinate e pervicaci, contro ogni evidenza, a difendere il loro
scorretto operare. Da fido
i latini dedussero il fidente, il confidente e la
confidenza, il diffidente e la diffidenza. Gli italici
pensarono che, se uno è di fiducia, posso confidargli i segreti o posso affidargli
tutto, mentre se dimostra di non rispettare la parola data, gli impegni presi
lo diffido. Gli
italici da fid dedussero sfida, che è la metafora del duello
(vita o morte), che ingaggia la creatura, nel mancare finale, che è la nascita.
Infine, sempre, nella civiltà italica, fu coniata fida, che è ciò che
si genera dall’andare a nascere il mancare, per cui alcuni indicarono i
terreni riservati al pascolo, mentre altri indicarono i terreni coltivati,
sottratti al pascolo. Per il
cristiano ci sono le virtù teologali: fede, speranza e carità,
parole coniate prima della diffusione del Cristianesimo. I greci
per indicare il seminare si avvalsero di σπείρω (speiro), mentre per indicare spero, il
pastoresi avvalse del verbo medio ἔλπομαι, che si può tradurre così: quando
noto l’abbozzo del segno della gravida, ho per me la speranza. Da ἔλπομαι fu dedotta ἐλπίςἐλπίδος, che è il tempo dell’attesa perché la
creatura nasca. Nel
momento in cui quell’essere minuscolo, sprovvisto di tutto, si lega alla madre,
ho motivo di sperare che completerà la sua formazione e che nascerà. Anche i
latini si avvalsero della stessa metafora. Essi coniarono prima spes spei e,
poi, spero speras. La traduzione di spes potrebbe essere la
seguente: il mancare, che è ciò che nascerà, è conseguente al legare.
Ciò che desidero si realizzi, di cui sento forte bisogno, perché mi manca, ha
superato una prova importante: si è legata alla madre, per cui è possibile che
ciò che auspico si realizzi. La speranza è dell’ottimista, che considera che un
passaggio non facile è stato superato e non pensa minimamente alle insidie
angoscianti del travaglio. Per capire quanto è importante l’energia, la carica
vitale che dà la speranza, basta pensare al disperato, che non vede luce
per i suoi passi e che una nuova alba possa spuntare. I
latini coniarono la radice car, da scrivere con caratteri greci χαρ, la cui lettura fu molto diversa da
quella fatta dai greci, quando, per esempio, coniarono (caris caritos) χάριςχάριτος: grazia,
bellezza, gioia. Il tema car si può decodificare: genera
lo scorrere il passare, che contestualizza il periodo dell’incubazione, per
cui, aggiungendo -us: colui che lego, si ebbe carus: diletto,
amato, caro. I latini dissero che la creatura in grembo è cara
alla gestante, meglio: alla madre. Dall’aggettivo caro dedussero il
sostantivo caritas: predilezione, amore, che è tutt’uno
con il significato dato dai cristiani: la madre non solo nutre fisicamente la
sua creatura, ma distilla il suo amore. Pertanto, fare la carità è
espressione coniata dagli italici, ad indicare che uno degli atti d’amore della
madre è dare sé stessa alla propria creatura, nutrendola. Quindi, la creatura
in grembo diventa la metafora di tutti i bisognosi, che, senza quel dono, non
potrebbero sopravvivere. Gli italici dedussero da carusil
carico e caricare. Quel peso non solo è lieve, per colei che se ne
carica, ma se ne incarica, assume quel compito come precipuo, che
diventa la sua carica. Sarebbe bello scoprire attraverso quali vie gli
inglesi coniarono: i car! L’omologo
di carità, in greco, è elemosina (ἐλεημοςύνη), che, se pur diversa come formulazione,
rimanda allo stesso contesto del processo di riproduzione della vita. Il
pastore greco, coniando (eleeo) ἐλεέω, derivò: ho pietà, in quanto pensò
che, dopo la crescita del flusso gravidico, la creatura non avrebbe avuto
futuro. La pietà fece escogitare uno stratagemma risolutivo: il legame
con la madre. Quindi, il modo per rendere concreto questo sentimento di pietà
fu l’elemosina, che, nella metafora del grembo, così come facendo la carità, è
la donazione totale di sé da parte della madre. La
parola, inoltre, recepisce le tradizioni culturali, per cui, ad Amendolara, la
sera della Vigilia di Natale, alcune donne, in un passato non lontano, per voto
e solo per voto, passavano di casa in casa, ripetendo la formula: a
ghimosin’allu Bammin’ (l’elemosina al Bambin Gesù), ad indicare
che, anche se non siamo bisognosi, lo siamo stati. Questa è forte testimonianza
del sentimento di solidarietà dei greci e dei latini, che trovò viva
concettualizzazione in elemosina e carità.