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venerdì 23 ottobre 2020

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
 

Antiveduto Gramatica
"Le tre Virtù teologali

Le virtù teologali

I greci dal verbo medio πείθομαι: mi lascio persuadere, mi fido dedussero πίστις (pistis): promessa, garanzia, fede. Coniando πίστις, i greci elaborarono la seguente, ben articolata, perifrasi: il crescere va a fare il tendere, che genera il legame, causa della graduale formazione dell’essere. Il pastore greco e quello latino avevano delle certezze per quanto riguarda il processo formativo dell’essere. Dopo il flusso gravidico, che è il primo abbozzo di crescita del grembo, avviene il legame tra madre e creatura, che si forma, divenendo in modo sequenziale (con precisione, occorre dire: mancando), fino al mancare finale, che è la nascita.
L’iniziale crescita disordinata e confusa, in cui non si viene a capo di nulla, che i greci definirono caos, porta ad una certezza: la madre non abbandonerà quel minuscolo essere, lo legherà a sé, lo nutrirà secondo i bisogni, favorendone la formazione fino alla nascita.
Allo stesso modo dei greci, i latini, dal verbo semideponente fido is, fisus sum, fidere, dedussero: pongo la fiducia, faccio assegnamento, mi fido, in quanto ragionò così: quando sono in difficoltà (quando manco), mi rivolgo a…, che è persona affidabile.
Per indicare la pistis dei greci, da fido dedussero: fid-es fidei: fede, promessa, parola data, garanzia. Con la radice fid, i latini dissero: va nascere il mancare, che rappresenta la graduale formazione dell’essere, poiché è avvenuto il legame, per come stabilito, promesso, garantito.
La fede, che, per il cristiano, precede la speranza e la carità, lo era anche per il pastore latino. Senza quella verità di fede, il contadino non avrebbe seminato e, poi, sperato.
La fede, quindi, è certezza che, nel bisogno, nelle situazioni più amare, c’è una persona, cui sono legata, che non verrà mai meno, che è l’ancora di salvezza. Pertanto, si definisce fidato chi mantiene la parola data, in quanto nel mondo agro-pastorale il rispetto della parola è dell’uomo perbene e di quello d’onore. Disattendere un impegno preso, significava perdere l’onore, che era il valore fra i più preziosi.
È fedele la persona sulla quale posso contare sempre e comunque. Quindi, fede è anche sinonimo di certezza di mantenimento della parola data. Così si spiega la denominazione di fede data all’anello, così si spiega, in italiano, il fidanzamento, che, nel dialetto di Amendolara, è indicato con la perifrasi: dare la parola. Così si spiega la fede in Dio da parte del cristiano, che è come l’abbandono del bimbo nelle braccia della mamma e che indica fiducia cieca, piena nella parola rivelata da Dio, che si è sempre manifestato Provvidente.
Dimenticare i concreti, attraverso cui si esplicita il significato di fede, significa precludersi la possibilità di coglierne l’essenza.
Se la fede è certezza del mantenimento della parola data, la fiducia, che è ciò che genera la fede, è la consapevolezza che le prove, anche le più aspre, si possono superare, non solo fidando negli altri, ma soprattutto in sé stessi. Senza autostima, ogni difficoltà può travolgerci. D’altra parte, avere fiducia negli altri facilita e migliora i rapporti interpersonali.
C’è da dire che i latini, prima di coniare l’astratto fid-es, coniarono il concreto fid-us: fido, fidato, sicuro, che è colui che soccorre nel bisogno, mentre da fides dedussero fid-elis, che è colui che mantiene la parola data. Per quanto è rassicurante il fido tanto turba il pensiero di trattare con l’infido, che, solitamente, è poco affidabile, sleale, ma non è alieno dai tradimenti! Brutta genia è la categoria dei perfidi, persone che operano in malafede, false e traditrici, ostinate e pervicaci, contro ogni evidenza, a difendere il loro scorretto operare.
Da fido i latini dedussero il fidente, il confidente e la confidenza, il diffidente e la diffidenza. Gli italici pensarono che, se uno è di fiducia, posso confidargli i segreti o posso affidargli tutto, mentre se dimostra di non rispettare la parola data, gli impegni presi lo diffido.
Gli italici da fid dedussero sfida, che è la metafora del duello (vita o morte), che ingaggia la creatura, nel mancare finale, che è la nascita. Infine, sempre, nella civiltà italica, fu coniata fida, che è ciò che si genera dall’andare a nascere il mancare, per cui alcuni indicarono i terreni riservati al pascolo, mentre altri indicarono i terreni coltivati, sottratti al pascolo.
Per il cristiano ci sono le virtù teologali: fede, speranza e carità, parole coniate prima della diffusione del Cristianesimo.
I greci per indicare il seminare si avvalsero di σπείρω (speiro), mentre per indicare spero, il pastore si avvalse del verbo medio λπομαι, che si può tradurre così: quando noto l’abbozzo del segno della gravida, ho per me la speranza. Da λπομαι fu dedotta λπίς λπίδος, che è il tempo dell’attesa perché la creatura nasca.
Nel momento in cui quell’essere minuscolo, sprovvisto di tutto, si lega alla madre, ho motivo di sperare che completerà la sua formazione e che nascerà. Anche i latini si avvalsero della stessa metafora. Essi coniarono prima spes spei e, poi, spero speras. La traduzione di spes potrebbe essere la seguente: il mancare, che è ciò che nascerà, è conseguente al legare. Ciò che desidero si realizzi, di cui sento forte bisogno, perché mi manca, ha superato una prova importante: si è legata alla madre, per cui è possibile che ciò che auspico si realizzi. La speranza è dell’ottimista, che considera che un passaggio non facile è stato superato e non pensa minimamente alle insidie angoscianti del travaglio. Per capire quanto è importante l’energia, la carica vitale che dà la speranza, basta pensare al disperato, che non vede luce per i suoi passi e che una nuova alba possa spuntare.
I latini coniarono la radice car, da scrivere con caratteri greci χαρ, la cui lettura fu molto diversa da quella fatta dai greci, quando, per esempio, coniarono (caris caritos) χάρις χάριτος: grazia, bellezza, gioia. Il tema car si può decodificare: genera lo scorrere il passare, che contestualizza il periodo dell’incubazione, per cui, aggiungendo -us: colui che lego, si ebbe carus: diletto, amato, caro. I latini dissero che la creatura in grembo è cara alla gestante, meglio: alla madre. Dall’aggettivo caro dedussero il sostantivo caritas: predilezione, amore, che è tutt’uno con il significato dato dai cristiani: la madre non solo nutre fisicamente la sua creatura, ma distilla il suo amore. Pertanto, fare la carità è espressione coniata dagli italici, ad indicare che uno degli atti d’amore della madre è dare sé stessa alla propria creatura, nutrendola. Quindi, la creatura in grembo diventa la metafora di tutti i bisognosi, che, senza quel dono, non potrebbero sopravvivere.
Gli italici dedussero da carus il carico e caricare. Quel peso non solo è lieve, per colei che se ne carica, ma se ne incarica, assume quel compito come precipuo, che diventa la sua carica. Sarebbe bello scoprire attraverso quali vie gli inglesi coniarono: i car!
L’omologo di carità, in greco, è elemosina (λεημοςύνη), che, se pur diversa come formulazione, rimanda allo stesso contesto del processo di riproduzione della vita. Il pastore greco, coniando (eleeo) λεέω, derivò: ho pietà, in quanto pensò che, dopo la crescita del flusso gravidico, la creatura non avrebbe avuto futuro. La pietà fece escogitare uno stratagemma risolutivo: il legame con la madre. Quindi, il modo per rendere concreto questo sentimento di pietà fu l’elemosina, che, nella metafora del grembo, così come facendo la carità, è la donazione totale di sé da parte della madre.
La parola, inoltre, recepisce le tradizioni culturali, per cui, ad Amendolara, la sera della Vigilia di Natale, alcune donne, in un passato non lontano, per voto e solo per voto, passavano di casa in casa, ripetendo la formula: a ghimosin’ allu Bammin’ (l’elemosina al Bambin Gesù), ad indicare che, anche se non siamo bisognosi, lo siamo stati. Questa è forte testimonianza del sentimento di solidarietà dei greci e dei latini, che trovò viva concettualizzazione in elemosina e carità.