Pagine

martedì 10 novembre 2020

FONDI EUROPEI
di Alfonso Gianni
 


Il possibile raddoppio dell’anticipo del Recovery Fund
 
Il dilagare della pandemia e le cattive previsioni sull’andamento dell’economia, sia per quanto riguarda la fine dell’anno in corso, sia per ciò che concerne le speranze di una ripresa per il 2021, stanno mettendo un po’ di sale sulla coda delle istituzioni europee risvegliandole da un certo torpore che si era ingenerato dopo le famose decisioni del 21 luglio. La notizia più rilevante è che i maggiori gruppi presenti nel Parlamento europeo (S&D, PPE,  Renew e Verdi) hanno trovato un accordo sulla posizione dell'Eurocamera sulle trattative sul budget della UE ed il Recovery Fund.
Il documento dovrà essere oggetto di verifiche in commissione Affari economici e Bilanci il 9 novembre e poi passare in sessione plenaria pochi giorni dopo, prima di dare avvio ai negoziati con il Consiglio europeo. È cosa prudente perciò riservarsi una valutazione definitiva e articolata di quel testo dopo questi passaggi, ma non c’è dubbio che le novità si presentano consistenti e significative.
In primo luogo nel testo, tra le altre cose, si chiede di raddoppiare l'anticipo del Recovery dal 10 al 20%, Un raddoppio che per il nostro paese, che si aspettava come anticipo una ventina di miliardi, li porterebbe a quaranta. La proposta ribadisce che i piani di risanamento debbano rispondere alle sei priorità stabilite dalla UE e previste dal regolamento sul Recovery (cambiamento climatico, digitalizzazione, pilastro sociale, giovani, industria e Pmi, e pubblica amministrazione) e siano "coerenti" con le raccomandazioni del Semestre europeo.
Gli eurodeputati chiedono però una percentuale di risorse più alta da dedicare agli investimenti green (secondo notizie dell’Ansa): almeno del 40% per ogni piano nazionale invece del 30% richiesto dal Consiglio. Inoltre nel documento verrebbe eliminato l'articolo che prevede la possibilità di chiudere i rubinetti dei fondi ai Paesi che non rispettano le regole sul 'fiscal compact' (condizionalità macroeconomica). Quando l'UE riattiverà la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità, l'esecutivo di Ursula von der Leyen "dovrà presentare, entro tre mesi, una proposta di emendamento che colleghi lo strumento" per il recupero ad una 'sana governance economica'", sottolinea il testo.
Quest’ultimo punto è di estrema delicatezza, perché tocca gli aspetti portanti sui quali si è venuta costruendo la governance europea. Per cui la prudenza nel valutarlo non è mai troppa ed è giusto attendere che natura avrà il testo finale se passerà le forche caudine della trattativa con il Consiglio europeo. Tuttavia due aspetti si evidenziano già da subito ed è bene sottolinearli.
In primo luogo tutto ciò è indice del fatto che anche in ambienti mainstream si comincia ad avvertire che le vecchie strumentazioni, regole e parametri su cui si è costruita la UE non reggono di fronte a crisi, prima quella economica del 2008, poi quella pandemica dei giorni nostri, i cui effetti si sommano. Per cui si aprono spiragli finora impensati per una possibilità di mandare in soffitta il Patto di stabilità e crescita ben al di là di una sua sospensione temporale e addirittura per rivedere i famigerati parametri di Maastricht del 3 e del 60%. Spiragli che vanno spalancati prima che le forze dominanti le richiudano entro le pareti di un riciclato neoliberismo.



Il secondo aspetto, legato agli esiti di questa trattativa con il Consiglio europeo, è che l’eventuale raddoppio dell’anticipo del Recovery Fund decongestionerebbe non poco la polemica sull’utilizzo o meno dei fondi del Mes. La questione fino a poco fa divideva i due maggiori partiti della maggioranza di governo nel nostro paese, ma poi si è trasferita anche all’interno dello stesso Pd, cui Zingaretti ha cercato di porre rimedio ribadendo la scelta favorevole al Mes nell’ultima riunione della direzione, ma senza incontrare forti convinzioni. Il tema dovrebbe restare tra gli argomenti principali del vertice di maggioranza che dovrebbe ridefinire un patto di fine legislatura e che sarebbe previsto dopo gli stati generali del M5S che dovrebbero a loro volta chiarire quale è la linea vincente al loro interno.
Eppure il nodo non appare affatto così difficile da sbrogliare, se si guarda alla sostanza delle cose, anche senza attendere che le novità sull’eventuale raddoppio dell’anticipo del Recovery si concretizzino nel modo migliore. Il Mes è una linea di credito precauzionale regolata dal Trattato del 2012 che lo creava come una sorta di banca e dalla normativa europea contenuta nel Two Pack del 2013. Quindi si tratta di un organismo nato in ambito  intergovernativo. Il ricorso ad esso non farebbe che aggravare l’aspetto più negativo dell’accordo del 21 luglio - ribadendo i poteri del Consiglio europeo formato dai rappresentanti dei governi - che pure dava vita ad una logica e a una strumentazione derivanti dagli organi dell’Unione.



Da un punto di vista che guarda alla possibilità di far fare dei passi in avanti in una direzione federale alla UE, il protagonismo del Mes sarebbe un netto passo indietro. Ciò che preoccupa non sono le condizionalità, che non potrebbero non esistere. Se per queste si intendono le finalizzazioni della spesa in questo caso sarebbero positive, visto che i fondi sarebbero indirizzati  alla sanità. Il che garantisce che al Mes possono accedere anche paesi che non vantano grande solidità nelle finanze pubbliche. Ma essendo il Mes una banca, questo non solo agisce negli interessi dei creditori, ma vanta una condizione di creditore privilegiato. Da qui deriva la “sorveglianza rafforzata” cui il paese debitore rischia di essere sottoposto.
È vero che la dichiarazione scritta di Gentiloni e Dombrovskis sospende l’eventualità che la Commissione intervenga per chiedere al paese in questione aggiustamenti macroeconomici, ma questa, al di là del suo valore politico, non impegna per il futuro. A meno che non si cambino le norme contenute nel Regolamento 472/2013. Il che, e non credo per una svista, non è stato fatto. Tutto ciò rende più che comprensibile e logica la diffidenza verso il ricorso al Mes.
Non è un caso che nessuno finora lo abbia chiesto, al di là dei risparmi sugli interessi rispetto ad un approvvigionamento sul mercato finanziario, peraltro ulteriormente diminuiti. In ogni caso il ricorso al Mes aumenterebbe il livello di indebitamento, creando probabilmente anche problemi di natura politico-contabile, essendo già stata approvata dal Parlamento la Nadef e quindi già fissato il deficit del prossimo anno, la cui modificazione, qualunque ne sia l’entità, richiederebbe una nuova valutazione sullo scostamento di Bilancio, oppure la previsione di altri tagli o nuove entrate.
È vero che tutto sembra cambiato in Europa. Dove si predicava l’austerità ora si invita all’indebitamento data la discesa dei tassi. Ma dopo tanti anni di ottuso rigore, sarebbe strano attendersi una fiducia spensierata nell’incremento della esposizione debitoria. E infatti Spagna e Portogallo oltre che evitare il Mes, sono intenzionati anche a rinunciare alla quota di prestiti del Recovery Fund, e a farsi bastare le sovvenzioni a fondo perduto.
Sia che la proposta del raddoppio dell’anticipo del Recovery Fund vada in porto, sia nel caso che no o di un suo ridimensionamento, la vera questione su cui concentrarsi seriamente è come spendere le sovvenzioni e i prestiti che arriveranno. Serve un’idea di intervento pubblico diretto nell’economia non di tipo crocerossino, ma proprio di uno Stato innovatore ed imprenditore. Guidato da una programmazione, concetto desueto quanto valido, basata su un rapporto dialettico e biunivoco con le parti sociali, partendo dalla difesa del lavoro e del reddito senza delegare la vita - è il caso di dirlo in questa tempesta pandemica - delle persone alle logiche aziendali. Privilegiando, nella destinazione dei fondi, il nostro Sud, porta dell’Europa sul Mediterraneo. Questa è la vera partita su cui si gioca il nostro futuro.