Il possibile raddoppio dell’anticipo del Recovery Fund Il dilagare della pandemia e
le cattive previsioni sull’andamento dell’economia, sia per quanto riguarda la
fine dell’anno in corso, sia per ciò che concerne le speranze di una ripresa
per il 2021, stanno mettendo un po’ di sale sulla coda delle istituzioni
europee risvegliandole da un certo torpore che si era ingenerato dopo le famose
decisioni del 21 luglio. La notizia più rilevante è che i maggiori gruppi
presenti nel Parlamento europeo (S&D,
PPE,Renew e Verdi) hanno trovato un
accordo sulla posizione dell'Eurocamera sulle trattative sul budget della UE ed
il Recovery Fund. Il documento dovrà essere
oggetto di verifiche in commissione Affari economici e Bilanci il 9 novembre e
poi passare in sessione plenaria pochi giorni dopo, prima di dare avvio ai
negoziati con il Consiglio europeo. È cosa prudente perciò riservarsi una
valutazione definitiva e articolata di quel testo dopo questi passaggi, ma non
c’è dubbio che le novità si presentano consistenti e significative. In primo luogo nel
testo, tra le altre cose, si chiede di raddoppiare l'anticipo del Recovery dal
10 al 20%, Un raddoppio che per il nostro paese, che si aspettava come anticipo
una ventina di miliardi, li porterebbe a quaranta. La proposta ribadisce che i piani
di risanamento debbano rispondere alle sei priorità stabilite dalla UE e
previste dal regolamento sul Recovery (cambiamento climatico, digitalizzazione,
pilastro sociale, giovani, industria e Pmi, e pubblica amministrazione) e siano
"coerenti" con le raccomandazioni del Semestre europeo. Gli eurodeputati
chiedono però una percentuale di risorse più alta da dedicare agli investimenti
green (secondo notizie dell’Ansa):
almeno del 40% per ogni piano nazionale invece del 30% richiesto dal Consiglio.
Inoltre nel documento verrebbe eliminato l'articolo che prevede la possibilità
di chiudere i rubinetti dei fondi ai Paesi che non rispettano le regole sul
'fiscal compact' (condizionalità macroeconomica). Quando l'UE
riattiverà la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità, l'esecutivo di
Ursula von der Leyen "dovrà presentare, entro tre mesi, una proposta di
emendamento che colleghi lo strumento" per il recupero ad una 'sana governance economica'", sottolinea
il testo. Quest’ultimo punto è di estrema delicatezza, perché tocca
gli aspetti portanti sui quali si è venuta costruendo la governance europea. Per cui la prudenza nel valutarlo non è mai
troppa ed è giusto attendere che natura avrà il testo finale se passerà le
forche caudine della trattativa con il Consiglio europeo. Tuttavia due aspetti
si evidenziano già da subito ed è bene sottolinearli. In primo luogo tutto ciò è indice del fatto che anche in
ambienti mainstream si comincia ad
avvertire che le vecchie strumentazioni, regole e parametri su cui si è
costruita la UE non reggono di fronte a crisi, prima quella economica del 2008,
poi quella pandemica dei giorni nostri, i cui effetti si sommano. Per cui si
aprono spiragli finora impensati per una possibilità di mandare in soffitta il
Patto di stabilità e crescita ben al di là di una sua sospensione temporale e
addirittura per rivedere i famigerati parametri di Maastricht del 3 e del 60%. Spiragli
che vanno spalancati prima che le forze dominanti le richiudano entro le pareti
di un riciclato neoliberismo.
Il secondo aspetto, legato agli esiti di questa
trattativa con il Consiglio europeo, è che l’eventuale raddoppio dell’anticipo
del Recovery Fund decongestionerebbe
non poco la polemica sull’utilizzo o meno dei fondi del Mes. La questione fino
a poco fa divideva i due maggiori partiti della maggioranza di governo nel
nostro paese, ma poi si è trasferita anche all’interno dello stesso Pd, cui
Zingaretti ha cercato di porre rimedio ribadendo la scelta favorevole al Mes
nell’ultima riunione della direzione, ma senza incontrare forti convinzioni. Il
tema dovrebbe restare tra gli argomenti principali del vertice di maggioranza
che dovrebbe ridefinire un patto di fine legislatura e che sarebbe previsto
dopo gli stati generali del M5S che dovrebbero a loro volta chiarire quale è la
linea vincente al loro interno. Eppure il nodo non appare affatto così difficile da
sbrogliare, se si guarda alla sostanza delle cose, anche senza attendere che le
novità sull’eventuale raddoppio dell’anticipo del Recovery si concretizzino nel modo migliore. Il Mes è una linea di
credito precauzionale regolata dal Trattato del 2012 che lo creava come una
sorta di banca e dalla normativa europea contenuta nel Two Pack del 2013. Quindi si tratta di un organismo nato in
ambitointergovernativo. Il ricorso ad
esso non farebbe che aggravare l’aspetto più negativo dell’accordo del 21
luglio - ribadendo i poteri del Consiglio europeo formato dai rappresentanti
dei governi - che pure dava vita ad una logica e a una strumentazione derivanti
dagli organi dell’Unione.
Da un punto di vista che guarda alla possibilità di far
fare dei passi in avanti in una direzione federale alla UE, il protagonismo del
Mes sarebbe un netto passo indietro. Ciò che preoccupa non sono le
condizionalità, che non potrebbero non esistere. Se per queste si intendono le finalizzazioni
della spesa in questo caso sarebbero positive, visto che i fondi sarebbero indirizzatialla sanità. Il che garantisce che al Mes
possono accedere anche paesi che non vantano grande solidità nelle finanze
pubbliche. Ma essendo il Mes una banca, questo non solo agisce negli interessi
dei creditori, ma vanta una condizione di creditore privilegiato. Da qui deriva
la “sorveglianza rafforzata” cui il paese debitore rischia di essere sottoposto. È vero che la dichiarazione scritta di Gentiloni e
Dombrovskis sospende l’eventualità che la Commissione intervenga per chiedere
al paese in questione aggiustamenti macroeconomici, ma questa, al di là del suo
valore politico, non impegna per il futuro. A meno che non si cambino le norme contenute
nel Regolamento 472/2013. Il che, e non credo per una svista, non è stato
fatto. Tutto ciò rende più che comprensibile e logica la diffidenza verso il
ricorso al Mes. Non è un caso che nessuno finora lo abbia chiesto, al di
là dei risparmi sugli interessi rispetto ad un approvvigionamento sul mercato
finanziario, peraltro ulteriormente diminuiti. In ogni caso il ricorso al Mes
aumenterebbe il livello di indebitamento, creando probabilmente anche problemi
di natura politico-contabile, essendo già stata approvata dal Parlamento la
Nadef e quindi già fissato il deficit del prossimo anno, la cui modificazione,
qualunque ne sia l’entità, richiederebbe una nuova valutazione sullo
scostamento di Bilancio, oppure la previsione di altri tagli o nuove entrate. È vero che tutto sembra cambiato in Europa. Dove si
predicava l’austerità ora si invita all’indebitamento data la discesa dei
tassi. Ma dopo tanti anni di ottuso rigore, sarebbe strano attendersi una
fiducia spensierata nell’incremento della esposizione debitoria. E infatti
Spagna e Portogallo oltre che evitare il Mes, sono intenzionati anche a
rinunciare alla quota di prestiti del Recovery
Fund, e a farsi bastare le sovvenzioni a fondo perduto. Sia che la proposta del raddoppio dell’anticipo del Recovery Fund vada in porto, sia nel
caso che no o di un suo ridimensionamento, la vera questione su cui
concentrarsi seriamente è come spendere le sovvenzioni e i prestiti che
arriveranno. Serve un’idea di intervento pubblico diretto nell’economia non di tipo
crocerossino, ma proprio di uno Stato innovatore ed imprenditore. Guidato da
una programmazione, concetto desueto quanto valido, basata su un rapporto
dialettico e biunivoco con le parti sociali, partendo dalla difesa del lavoro e
del reddito senza delegare la vita - è il caso di dirlo in questa tempesta
pandemica - delle persone alle logiche aziendali. Privilegiando, nella
destinazione dei fondi, il nostro Sud, porta dell’Europa sul Mediterraneo.
Questa è la vera partita su cui si gioca il nostro futuro.