Pagine

martedì 17 novembre 2020

I QUATTRO ELEMENTI
di Gabriele Scaramuzza



Quattro racconti: Andrea Bonomi me li ha mandati uno per uno, appena li ha scritti. Li ho letti come racconti a sé, ora cerco le connessioni. Motivi autobiografici li percorrono, e questo già è un collante. Ovvio a tutta prima l’immediato rimando a Empedocle: i quattro elementi-base, radici di tutte le cose; ma in più i principi che ne governano la vita: odio e amore, separazione e prossimità, dispersione e raccoglimento. Mi scrive tuttavia Bonomi: “io avevo in mente piuttosto la tradizione filosofico-alchemica che vede nelle diverse combinazioni di quei quattro elementi altrettanti modi di rapportarsi al mondo, anziché elementi costitutivi del mondo stesso”.
Nella lettura mi ha guidato Waltz for Ruth, tratto da “Night and the City”, album di Charlie Haden e Kenny Barron. Un brano che mi ha indicato Bonomi, aggiungendo: “Un aspetto maniacale della mia personalità: quando scrivo continuo a sentire lo stesso brano che idealmente mi fa da guida. I quattro raccontini li ho scritti tutti sullo sfondo di questo brano (ripetuto ossessivamente). É una cosa semplice, ma mi attrae il senso di ‘leggerezza’ che ispira. Con quel cambio di tempi a 3.16” che nella sua modestia mi sembra un piccolo capolavoro di leggerezza e semplicità, appunto”. Così mi ha indicato la “melodia ossessiva” (dovrò riprendere in mano Philippe Lacoue-Labarthe, e leggere Oliver Sacks) che ha fatto da sfondo alla sua scrittura; l’ho ascoltata più volte, alla ricerca di una “tinta” che percorresse il suo libro, di qualcosa che, tornando, lo rendesse identificabile, riconoscibile. E questo è stato in prima battuta la leggerezza, l’apparente semplicità, la lievità di tono con cui tocca temi tutt’altro che semplici. 

  


Acqua: questa storia, non meno delle altre, non sembra a tutta prima felice: il racconto si svolge in un ospedale, durante una cura. Il protagonista “era interessato ai volti diversi che può assumere la malattia e ai modi diversi di viverla”. Nelle parole di un altro personaggio tuttavia leggiamo: “l’acqua può essere leggerezza, trasparenza. E può generare allegria […]. O addirittura gioia di vivere…”; e mitiga l’arsura, indice di ansia, di vita stentata. L’emblema più forte dell’acqua sono le cascate, Wahkeena Falls: u-na sen-sa-zio-ne im-pa-ga-bi-le di fre-scu-ra. Così è scritto, e torna nel finale del racconto (come in altri racconti): una scansione, un ritmo. Anche il ritmo dell’intera scrittura, della lettura? Leggiamo anche: “scrivere era la sua passione, e anche i quei giorni difficili aveva cercato di coltivare un sogno ambizioso: trasformare in una storia i frammenti di vita che registrava indirizzando lo sguardo verso il mondo della malattia, dentro e fuori sé stesso”. Passa i tempi di attesa prendendo appunti; un personaggio parla lentamente, si nota il suo sforzo (che è anche di chi scrive) “per trovare le parole precise, adeguate all’intensità del ricordo”. 

  


Aria ha per protagonista un insegnante di scienze che, unico tra gli insegnanti, ha un nome Professor Rodolfo Galimberti. Ama l’aria aperta, per questo abita fuori città; ma anche per altri motivi, come mi suggerisce Bonomi: le difficoltà finanziarie della famiglia, il suo forte legame con quella cascina. La bicicletta è il mezzo cui si affida, ne ha un vero e proprio culto (come è dell’autore del libro peraltro): espone maggiormente all’aria. Alla fine l’insegnante porterà a termine The Art of Pedalling, libro cui si dedica quando si trasferisce all’estero, spinto anche dall’invadenza della città e dal conseguente inquinarsi dell’atmosfera di casa. L’insegnante dedica considerazioni generali all’aria come elemento: l’aria non è mai pura, è pulviscolo che si vede nei fasci di luce che filtrano dalle persiane, da fessure (da sempre oggetto di fascino anche per me). Godiamo dell’aria frizzante, fresca, leggera; ma ci toglie il respiro l’aria grassa, sporca, maleolente. È veicolo non solo degli odori cui il cane, Snuff, che sempre accompagna l’insegnante, è in modo inarrivabile sensibile; ma anche di pensieri, emozioni, desideri - delle parole che li portano ad altri. Coinvolge il mondo del sentire, ma insieme quello morale; nell’aria si diffondono sguardi, maldicenze, il mondo intero del sentire, del pensare, dell’interrogare.  


Il Fuoco compare solo alla fine del racconto omonimo, ma ne è in certo modo lo sbocco naturale: il rogo che consuma le memorie più care, la cui intensità vissuta le ha fatte a torto immaginare come indistruttibili. Protagonisti il vecchio, il suo tic dell’orecchio, un nipote petulante, l’incontro felice nel parco con un bambino verso cui non prova il senso di estraneità che gli ispirano tutti gli altri. Un docente universitario in pensione, chiuso nella sua camera, continua in altro modo il suo lavoro: cataloga scrupolosamente gli oggetti che ha tenuto attorno a sé: libri di memorie che predilige, dischi della musica (afroamericana per lo più) che ha amato, reperti entomologici. Ne redige elenchi che ne preservino il ricordo, a futura memoria. Ma presto si rende conto che il futuro ha un fiato breve, tende a contrarsi, a scomparire anzi. Non resta che un passato privo di slancio; “la sfida alla voracità del tempo” si rivela perdente, le cose cadranno in un oblio senza riscatto. “Cocciutaggine”, indebita e illusoria pretesa, pensare che “se qualcosa è accaduto niente potrà far sì che non sia accaduto”; solo il Dio di Pier Damiani può, si sa. Vista nella “giusta distanza”, “la tanto celebrata storia dell’umanità apparirà per quello che è: un’escrescenza insignificante sul groppone del tempo”. E di più: un rogo consumerà tutto, questa stessa escrescenza, le cose della vita del vecchio, il suo modo di partecipare alle cose, alla sua stessa morte: tutti gli “dèi” della sua vita - come nel finale del Ring. Aggiungo a latere due notazione che mi coinvolgono: “Quando tornò nella propria stanza il vecchio si sedette sul letto a riflettere. Si guardava in giro e cercava di immaginare come sarebbe stato quel piccolo angolo di mondo dopo la sua morte”. E per finire: “contemplare il mondo sottostante dall’alto di un grattacielo nel cuore della grande città in cui abitava”; cosa che mi ha sempre attratto e respinto al tempo stesso.
Sono significative le parole di Bonomi sulla mia lettura di Fuoco, “che effettivamente, come elemento catartico, compare solo alla fine”. Ho scritto sopra che le storie raccontate non sono felici; devo ricredermi sulla scorta di quanto mi scrive ora Bonomi: < Ne approfitto per un’osservazione generale. Non pochi lettori hanno percepito una certa cupezza di fondo in questi quattro sgorbietti. Non nego che il mio recente vissuto abbia permeato queste pagine. Ma vorrei sottolineare una cosa che è sfuggita ai più. Tutti e quattro i racconti hanno per così dire un “lieto fine” (magari venato di ironia). Nel primo il protagonista-narratore sembra alla fine raggiungere un rapporto empatico con il vecchio malato innamorato delle cascate, rapporto scandito (letteralmente) dalla sillabazione. (Qui il mio debito verso Salinger e i suoi racconti è evidente, e cerco di ripagarlo nell’ultimo racconto con il riferimento a Esmé). Nel secondo il giovane studioso e il suo cane finiscono per realizzare il sogno da sempre perseguito. Per quanto riguarda Fuoco, l’episodio finale lascia pensare che qualcosa il vecchio sia riuscito a trasmetterlo al ragazzino, sia pure nella forma di un semplice tic) >.


La Terra infine, che prima o poi si riprende tutto: pietra tombale che coprirà ogni cosa - posto che essa stessa sopravviva. Il personaggio principale è Matteo, da poco laureato. Ma non meno protagonista è un docente con cui avrebbe voluto laurearsi e non l’ha fatto, con grande rammarico del docente oltre che di Matteo. Docente “lontano dall’ufficialità accademica”, di cui viene tratteggiata l’esemplarità nella didattica, nella ricerca non meno che nella figura umana: nell’ironia, nel modo di essere verso la morte. La nostalgia, l’attaccamento che verso di lui conserva Matteo restano pure esemplari. Il suo ultimo lavoro è dedicato alla memoria, e al suo ruolo nella genesi di sentimenti quali il rimorso, la vergogna, il pentimento, il rimpianto. Matteo lo legge alla fine, con estrema partecipazione. Ma possiamo dire che in esso è raccolta una summa dei motivi che guidano l’intero libro di Bonomi.  
Come a Matteo, anche a me sono sempre stati cari i piccoli cimiteri di campagna, il loro “fascino misterioso”. Da uno di essi il racconto prende l’avvio, e alla fine ritorna: un suo vero leitmotiv. È un “deposito di memorie”, di storie. Ma alla fine viene del tutto abbandonato agli sterpi; non sono solo i ricordi a scomparire, ma anche il luogo in cui vengono mantenuti come tali. Quasi emblema di una dimenticanza che dimentica anche di esser tale: a scomparire è l’intera dimensione dell’oblio stesso. Del “ferroviere” restano reperti che Matteo cerca invano di interrogare, nel tentativo di ricostruire una storia e, con ciò, “di sfidare per un attimo la dimensione dell’oblio cui siamo destinati, di prendersi una piccola rivincita su quella bestia onnivora che è il tempo”. Destinata a sparire non è solo una traccia, ma con essa anche l’anelito di contrastarne la scomparsa. Così si perderà il rammarico (“quella particolare percezione del tempo che si esprime nel rammarico”, sono parole di Bonomi) di non aver potuto inseguire ogni malinconia, la preziosa ironia del docente, le nostre passioni, il diritto alla memoria, ma anche il rimorso, il pentimento, la vergogna, il rimpianto. La situazione di degrado in cui il cimitero (luogo delle memorie appunto) alla fine versa “ci induce a riflettere sulla fragilità della memoria, sull’idea che, se allunghiamo abbastanza lo sguardo, troveremo un punto nel quale non ci sarà più traccia delle nostre esistenze”; e le parole finali del libro: “nella speranza illusoria che la memoria preservi per sempre, come se la Terra che ci ospita dovesse durare in eterno”.  
Per chi abbia sia pur sommariamente presente l’ambiente in cui Bonomi ha operato è ovvio cercare di scoprire di che docente si tratta. Personalmente (ma da esterno) non trovo nessuno cui si adattino i tratti descritti da Bonomi. Mi torna però in mente il docente con cui avrei potuto e dovuto laurearmi, in tutt’altro contesto; e con cui con grande rammarico non mi sono laureato. Per un intrico di motivi in cui mi perdo, ma tra cui non mancano contingenze quali le inerzie e gli opportunismi tipici del mondo accademico.                      
 Vorrei concludere con notazioni sparse. Genericamente “il male” è al centro dei racconti di Bonomi: è un aspetto della sua vita (e della nostra), fattosi più pronunciato negli anni della malattia. Un aspetto che tuttavia non è tutto; c’è altro e in quest’altro c’è anche lo scrivere. Che può avere molti sensi, svariati toni - non è detto sempre produttivi, non sempre felici; in ogni caso da tener presenti. Opponendosi alla cupa Elettra (decisa a sacrificare ogni positività di vita) afferma Crisotemide nel noto testo hofmannsthaliano: “Vivere voglio prima di morire!”. In questo spazio di attesa della morte per Crisotemide si situa il suo intero destino di donna; per noi si situano anche la riflessione, lo studio, la scrittura - che sono “vita”, e non in senso di second’ordine.
“I sentimenti non sono fatti per essere esibiti”, “vanno solo coltivati”, leggiamo; non vale questo anche per la scrittura? Che può sopravvivere anche nella malattia, nel presentimento della morte. “Sì, la sua vera passione erano i racconti, che secondo lui si ispirano a quei criteri di essenzialità che dovrebbero valere anche nel nostro ambito di lavoro. Un racconto ben scritto, diceva, ricorda quella che, per quanto vi riguarda, chiamereste un’argomentazione ben costruita, e aggiungeva che gli sarebbe piaciuto misurarsi con l’arte di scrivere”. Matteo “conosceva il modo di lavorare” del suo maestro, “il suo perfezionismo, che prevedeva una progressiva depurazione del linguaggio sino a renderlo perfettamente aderente al pensiero sottostante”; già evidente nell’insegnare, nella sua tensione a ricondurre alla loro essenza i problemi su cui teneva le lezioni.    
Cerchiamo di scrivere, resta una delle nostre armi: perché? per chi? e che effetti produce? nel suo autore, in noi che leggiamo. Come i sentimenti la scrittura non è fatta per essere “esibita”, ma per essere “praticata” appunto. Speriamo di esser letti, che ci si risponda; è un modo di esser con gli altri, di dialogare. “Se riuscissi a tornare a scrivere ne trarrei giovamento. Chissà se ce la farò…”, mi scrive Bonomi in un momento precario.    
“Ossessivi” i racconti di Bonomi? Malinconici? Non direi, egli stesso, s’è visto, dice di un loro quasi “lieto fine”. Certo è che non inducono alcuna forma di depressione, almeno questo. La “tinta” di uno scritto, è noto, non si arresta al tono che pervade le vicende narrate; include anche il gesto di narrarle, la felicità o l’ansia della scrittura - “saper scrivere è un dono”. Circola tanta infelicità nei racconti di Bonomi (e in innumerevoli altri scritti non solo suoi, opere letterarie, musicali…), ma qui proprio non emerge in primo piano. La musica che accompagna il gesto di scrivere ha una “semplicità”, una “leggerezza” che si riflettono nella scrittura, a loro modo ne dicono le motivazioni, il senso. Certo, a prima vista ci sono le cose raccontate, ma colpisce anche il fatto che vengano raccontate; non è da tutti, e non di rado è trascurato.
Perdersi nella ripresa del passato come nella prefigurazione del futuro non è indice di insufficienza del presente, di insoddisfazione, di vita mancata? La scrittura, il tono in cui è vissuta, resta tra le testimonianze di presa, più o meno felice, sul presente. Erano passati “milioni e milioni di anni da quando quella creatura [una libellula] aveva cessato esistere in un angolo remoto del pianeta. Eppure qualcosa di lei era ancora lì, nel chiarore della teca: qualcosa che si poteva guardare e toccare”. Perché disperderne la presenza viva nell’infinità di un tempo che ne decreta la fine, l’insignificanza? Nulla toglie quanto pur “c’è stato”, ne duri o meno la memoria. Resiste la sua significanza nel presente per chi vede, e può toccare, qualsiasi “reperto”, avvertirne un odore, ascoltarlo. Il presente di una scrittura in nessun modo va privato del suo rilievo, della sua gioia magari, della sia pur ambigua soddisfazione che produce nell’adesso. Della presenza in essa, in questo caso, di una “tinta” significante felice, animata da una musica.

[Immagini pittoriche di Vinicio Verzieri]

Andrea Bonomi
Acqua, Aria, Fuoco, Terra.
Quattro racconti
Amazon, 2020, pp. 86.