Quattro
racconti: Andrea Bonomi me li ha mandati uno per uno, appena li ha scritti. Li
ho letti come racconti a sé, ora cerco le connessioni. Motivi autobiografici li
percorrono, e questo già è un collante. Ovvio a tutta prima l’immediato rimando
a Empedocle: i quattro elementi-base, radici di tutte le cose; ma in più i
principi che ne governano la vita: odio e amore, separazione e prossimità, dispersione
e raccoglimento. Mi scrive tuttavia Bonomi: “io avevo in mente piuttosto la
tradizione filosofico-alchemica che vede nelle diverse combinazioni di quei
quattro elementi altrettanti modi di rapportarsi al mondo, anziché elementi
costitutivi del mondo stesso”. Nella lettura mi ha guidato
Waltz for Ruth,
tratto da “Night and the City”, album di Charlie Haden
e Kenny Barron. Un brano che mi ha indicato Bonomi, aggiungendo: “Un aspetto
maniacale della mia personalità: quando scrivo continuo a sentire lo stesso
brano che idealmente mi fa da guida. I quattro raccontini li ho scritti tutti
sullo sfondo di questo brano (ripetuto ossessivamente). É una cosa semplice, ma
mi attrae il senso di ‘leggerezza’ che ispira. Con quel cambio di tempi a 3.16”
che nella sua modestia mi sembra un piccolo capolavoro di leggerezza e
semplicità, appunto”. Così mi ha indicato la “melodia ossessiva” (dovrò
riprendere in mano Philippe Lacoue-Labarthe, e leggere Oliver Sacks) che ha
fatto da sfondo alla sua scrittura; l’ho ascoltata più volte, alla ricerca di
una “tinta” che percorresse il suo libro, di qualcosa che, tornando, lo
rendesse identificabile, riconoscibile. E questo è stato in prima battuta la
leggerezza, l’apparente semplicità, la lievità di tono con cui tocca temi
tutt’altro che semplici.
Acqua:
questa storia, non meno delle altre, non sembra a tutta prima felice: il
racconto si svolge in un ospedale, durante una cura. Il protagonista “era
interessato ai volti diversi che può assumere la malattia e ai modi diversi di
viverla”. Nelle parole di un altro personaggio tuttavia leggiamo: “l’acqua può
essere leggerezza, trasparenza. E può generare allegria […]. O addirittura gioia
di vivere…”; e mitiga l’arsura, indice di ansia, di vita stentata. L’emblema
più forte dell’acqua sono le cascate, Wahkeena Falls: u-na
sen-sa-zio-ne im-pa-ga-bi-le di fre-scu-ra.
Così è scritto, e torna nel finale del racconto (come in altri racconti): una
scansione, un ritmo. Anche il ritmo dell’intera scrittura, della lettura? Leggiamo
anche: “scrivere era la sua passione, e anche i quei giorni difficili aveva
cercato di coltivare un sogno ambizioso: trasformare in una storia i frammenti
di vita che registrava indirizzando lo sguardo verso il mondo della malattia,
dentro e fuori sé stesso”. Passa i tempi di attesa prendendo appunti; un
personaggio parla lentamente, si nota il suo sforzo (che è anche di chi scrive)
“per trovare le parole precise, adeguate all’intensità del ricordo”.
Ariaha per protagonista un insegnante di
scienze che, unico tra gli insegnanti, ha un nome Professor Rodolfo Galimberti.
Ama l’aria aperta, per questo abita fuori città; ma anche per altri motivi,
come mi suggerisce Bonomi: le difficoltà finanziarie della famiglia, il suo
forte legame con quella cascina. La bicicletta è il mezzo cui si affida, ne ha
un vero e proprio culto (come è dell’autore del libro peraltro): espone
maggiormente all’aria. Alla fine l’insegnante porterà a termine The
Art of Pedalling, libro cui si dedica
quando si trasferisce all’estero, spinto anche dall’invadenza della città e dal
conseguente inquinarsi dell’atmosfera di casa. L’insegnante dedica
considerazioni generali all’aria come elemento: l’aria non è mai pura, è
pulviscolo che si vede nei fasci di luce che filtrano dalle persiane, da
fessure (da sempre oggetto di fascino anche per me). Godiamo dell’aria
frizzante, fresca, leggera; ma ci toglie il respiro l’aria grassa, sporca,
maleolente. È veicolo non solo degli odori cui il cane, Snuff, che sempre
accompagna l’insegnante, è in modo inarrivabile sensibile; ma anche di
pensieri, emozioni, desideri - delle parole che li portano ad altri. Coinvolge
il mondo del sentire, ma insieme quello morale; nell’aria si diffondono
sguardi, maldicenze, il mondo intero del sentire, del pensare,
dell’interrogare.
Il Fuococompare solo alla fine
del racconto omonimo, ma ne è in certo modo lo sbocco naturale: il rogo che
consuma le memorie più care, la cui intensità vissuta le ha fatte a torto
immaginare come indistruttibili. Protagonisti il vecchio, il suo tic dell’orecchio,
un nipote petulante, l’incontro felice nel parco con un bambino verso cui non
prova il senso di estraneità che gli ispirano tutti gli altri. Un docente
universitario in pensione, chiuso nella sua camera, continua in altro modo il
suo lavoro: cataloga scrupolosamente gli oggetti che ha tenuto attorno a sé:
libri di memorie che predilige, dischi della musica (afroamericana per lo più)
che ha amato, reperti entomologici. Ne redige elenchi che ne preservino il
ricordo, a futura memoria. Ma presto si rende conto che il futuro ha un fiato
breve, tende a contrarsi, a scomparire anzi. Non resta che un passato privo di
slancio; “la sfida alla voracità del tempo” si rivela perdente, le cose
cadranno in un oblio senza riscatto. “Cocciutaggine”, indebita e illusoria
pretesa, pensare che “se qualcosa è accaduto niente potrà far sì che non sia
accaduto”; solo il Dio di Pier Damiani può, si sa. Vista nella “giusta
distanza”, “la tanto celebrata storia dell’umanità apparirà per quello che è:
un’escrescenza insignificante sul groppone del tempo”. E di più: un rogo consumerà
tutto, questa stessa escrescenza, le cose della vita del vecchio, il suo modo
di partecipare alle cose, alla sua stessa morte: tutti gli “dèi” della sua vita
- come nel finale del Ring.
Aggiungo a latere due notazione che mi coinvolgono: “Quando tornò nella propria
stanza il vecchio si sedette sul letto a riflettere. Si guardava in giro e
cercava di immaginare come sarebbe stato quel piccolo angolo di mondo dopo la
sua morte”. E per finire: “contemplare il mondo sottostante dall’alto di un
grattacielo nel cuore della grande città in cui abitava”; cosa che mi ha sempre
attratto e respinto al tempo stesso. Sono significative le
parole di Bonomi sulla mia lettura di Fuoco,
“che effettivamente, come elemento catartico, compare solo alla fine”. Ho
scritto sopra che le storie raccontate non sono felici; devo ricredermi sulla
scorta di quanto mi scrive ora Bonomi: < Ne approfitto per un’osservazione
generale. Non pochi lettori hanno percepito una certa cupezza di fondo in
questi quattro sgorbietti. Non nego che il mio recente vissuto abbia permeato
queste pagine. Ma vorrei sottolineare una cosa che è sfuggita ai più. Tutti e
quattro i racconti hanno per così dire un “lieto fine” (magari venato di ironia). Nel
primo il protagonista-narratore sembra alla fine raggiungere un rapporto
empatico con il vecchio malato innamorato delle cascate, rapporto scandito
(letteralmente) dalla sillabazione. (Qui il mio debito verso Salinger e i suoi
racconti è evidente, e cerco di ripagarlo nell’ultimo racconto con il
riferimento a Esmé). Nel secondo il giovane studioso e il suo cane finiscono
per realizzare il sogno da sempre perseguito. Per quanto riguarda Fuoco,
l’episodio finale lascia pensare che qualcosa il vecchio sia riuscito a
trasmetterlo al ragazzino, sia pure nella forma di un semplice tic) >.
La Terra infine, che prima
o poi si riprende tutto: pietra tombale che coprirà
ogni cosa - posto che essa stessa sopravviva. Il personaggio principale è
Matteo, da poco laureato. Ma non meno protagonista è un docente con cui avrebbe
voluto laurearsi e non l’ha fatto, con grande rammarico del docente oltre che
di Matteo. Docente “lontano dall’ufficialità accademica”, di cui viene
tratteggiata l’esemplarità nella didattica, nella ricerca non meno che nella
figura umana: nell’ironia, nel modo di essere verso la morte. La nostalgia,
l’attaccamento che verso di lui conserva Matteo restano pure esemplari. Il suo
ultimo lavoro è dedicato alla memoria, e al suo ruolo nella genesi di
sentimenti quali il rimorso, la vergogna, il pentimento, il rimpianto. Matteo
lo legge alla fine, con estrema partecipazione. Ma possiamo dire che in esso è raccolta
una summa dei motivi che guidano l’intero libro di Bonomi. Come a Matteo, anche a me
sono sempre stati cari i piccoli cimiteri di campagna, il loro “fascino
misterioso”. Da uno di essi il racconto prende l’avvio, e alla fine ritorna: un
suo vero leitmotiv. È un “deposito di memorie”, di storie. Ma alla fine viene
del tutto abbandonato agli sterpi; non sono solo i ricordi a scomparire, ma
anche il luogo in cui vengono mantenuti come tali. Quasi emblema di una
dimenticanza che dimentica anche di esser tale: a scomparire è l’intera dimensione
dell’oblio stesso. Del “ferroviere” restano reperti che Matteo cerca invano di
interrogare, nel tentativo di ricostruire una storia e, con ciò, “di sfidare
per un attimo la dimensione dell’oblio cui siamo destinati, di prendersi una
piccola rivincita su quella bestia onnivora che è il tempo”. Destinata a
sparire non è solo una traccia, ma con essa anche l’anelito di contrastarne la
scomparsa. Così si perderà il rammarico (“quella particolare percezione del
tempo che si esprime nel rammarico”, sono parole di Bonomi) di non aver potuto
inseguire ogni malinconia, la preziosa ironia del docente, le nostre passioni,
il diritto alla memoria, ma anche il rimorso, il pentimento, la vergogna, il
rimpianto. La situazione di degrado in cui il cimitero (luogo delle memorie
appunto) alla fine versa “ci induce a riflettere sulla fragilità della memoria,
sull’idea che, se allunghiamo abbastanza lo sguardo, troveremo un punto nel
quale non ci sarà più traccia delle nostre esistenze”; e le parole finali del
libro: “nella speranza illusoria che la memoria preservi per sempre, come se la
Terra che ci ospita dovesse durare in eterno”. Per chi abbia sia pur
sommariamente presente l’ambiente in cui Bonomi ha operato è ovvio cercare di
scoprire di che docente si tratta. Personalmente (ma da esterno) non trovo nessuno
cui si adattino i tratti descritti da Bonomi. Mi torna però in mente il docente
con cui avrei potuto e dovuto laurearmi, in tutt’altro contesto; e con cui con
grande rammarico non mi sono laureato. Per un intrico di motivi in cui mi perdo,
ma tra cui non mancano contingenze quali le inerzie e gli opportunismi tipici
del mondo accademico. Vorrei concludere con notazioni sparse. Genericamente
“il male” è al centro dei racconti di Bonomi: è un aspetto della sua vita (e
della nostra), fattosi più pronunciato negli anni della malattia. Un aspetto che
tuttavia non è tutto; c’è altro e in quest’altro c’è anche lo scrivere. Che può
avere molti sensi, svariati toni - non è detto sempre produttivi, non sempre
felici; in ogni caso da tener presenti. Opponendosi alla cupa Elettra (decisa a
sacrificare ogni positività di vita) afferma Crisotemide nel noto testo
hofmannsthaliano: “Vivere voglio prima di morire!”. In questo spazio di attesa
della morte per Crisotemide si situa il suo intero destino di donna; per noi si
situano anche la riflessione, lo studio, la scrittura - che sono “vita”, e non
in senso di second’ordine. “I
sentimenti non sono fatti per essere esibiti”, “vanno solo coltivati”,
leggiamo; non vale questo anche per la scrittura? Che può sopravvivere anche
nella malattia, nel presentimento della morte. “Sì, la sua vera passione erano
i racconti, che secondo lui si ispirano a quei criteri di essenzialità che dovrebbero
valere anche nel nostro ambito di lavoro. Un racconto ben scritto, diceva,
ricorda quella che, per quanto vi riguarda, chiamereste un’argomentazione ben
costruita, e aggiungeva che gli sarebbe piaciuto misurarsi con l’arte di
scrivere”. Matteo “conosceva il modo di lavorare” del suo maestro, “il suo
perfezionismo, che prevedeva una progressiva depurazione del linguaggio sino a
renderlo perfettamente aderente al pensiero sottostante”; già evidente
nell’insegnare, nella sua tensione a ricondurre alla loro essenza i problemi su
cui teneva le lezioni. Cerchiamo di scrivere,
resta una delle nostre armi: perché? per chi? e che effetti produce? nel suo
autore, in noi che leggiamo. Come i sentimenti la scrittura non è fatta per
essere “esibita”, ma per essere “praticata” appunto. Speriamo di esser letti,
che ci si risponda; è un modo di esser con gli altri, di dialogare. “Se
riuscissi a tornare a scrivere ne trarrei giovamento. Chissà se ce la farò…”,
mi scrive Bonomi in un momento precario. “Ossessivi” i racconti di
Bonomi? Malinconici? Non direi, egli stesso, s’è visto, dice di un loro quasi
“lieto fine”. Certo è che non inducono alcuna forma di depressione, almeno
questo. La “tinta” di uno scritto, è noto, non si arresta al tono che pervade
le vicende narrate; include anche il gesto di narrarle, la felicità o l’ansia della
scrittura - “saper scrivere è un dono”. Circola tanta infelicità nei racconti
di Bonomi (e in innumerevoli altri scritti non solo suoi, opere letterarie,
musicali…), ma qui proprio non emerge in primo piano. La musica che accompagna il
gesto di scrivere ha una “semplicità”, una “leggerezza” che si riflettono nella
scrittura, a loro modo ne dicono le motivazioni, il senso. Certo, a prima vista
ci sono le cose raccontate, ma colpisce anche il fatto che vengano raccontate;
non è da tutti, e non di rado è trascurato. Perdersi nella ripresa del
passato come nella prefigurazione del futuro non è indice di insufficienza del
presente, di insoddisfazione, di vita mancata? La scrittura, il tono in cui è
vissuta, resta tra le testimonianze di presa, più o meno felice, sul presente. Erano
passati “milioni e milioni di anni da quando quella creatura [una libellula]
aveva cessato esistere in un angolo remoto del pianeta. Eppure qualcosa di lei
era ancora lì, nel chiarore della teca: qualcosa che si poteva guardare e
toccare”. Perché disperderne la presenza viva nell’infinità di un tempo che ne
decreta la fine, l’insignificanza? Nulla toglie quanto pur “c’è stato”, ne duri
o meno la memoria. Resiste la sua significanza nel presente per chi vede, e può
toccare, qualsiasi “reperto”, avvertirne un odore, ascoltarlo. Il presente di
una scrittura in nessun modo va privato del suo rilievo, della sua gioia
magari, della sia pur ambigua soddisfazione che produce nell’adesso. Della
presenza in essa, in questo caso, di una “tinta” significante felice, animata
da una musica.
[Immagini pittoriche di Vinicio Verzieri]
Andrea
Bonomi Acqua,
Aria, Fuoco, Terra. Quattro
racconti Amazon,
2020, pp. 86.