LE
ENCICLICHE E IL LORO SENSO di Mario
Agostinelli
Dalla Laudato
si’ a Fratelli tutti. Una lettura senza pregiudizi.
Dopo cinque anni di esperienza a contatto di
una Associazione che ha preso ispirazione dall’Enciclica Laudato si’,
traggo la convinzione che le resistenze politico-culturali, oltre che ad un
irresponsabile rigetto del monito di Francesco, siano dovute principalmente al
rifiuto di separarsi definitivamente dall’idea dello “sviluppo”. Un
rifiuto che continua ad alimentare un’illusione rivelatasi al fondo un
disastro: che cioè l’aumento della torta da spartire in base alla crescita non
avrebbe trovato limiti nelle risorse della biosfera e non avrebbe fatto i conti
con la rapacità del sistema capitalista nell’appropriarsi delle ricchezze
provenienti dal lavoro e dalla natura. Occorre riconoscere che anche tra le
maglie del progressismo lo sviluppo è stato insignito di un favore largo, nella
convinzione che le nazioni “avanzate” potessero indicare ai paesi ritardatari
la strada da intraprendere per allinearsi e misurare il miglioramento della
loro prestazione economica misurata dal PIL. Dopo aver preso in custodia la
loro economia, la sbalorditiva varietà dei popoli si sarebbe ridotta ad una
classifica basata sul debito contratto e preteso e sulla ricchezza prodotta e
immancabilmente depredata. Almeno dal secondo dopoguerra fino al suo declino
con l’inizio del nuovo secolo, questa riduzione delle differenze culturali,
sociali, naturali, che fanno dell’umanità un punto di osservazione plurale e
cosciente della biosfera entro cui convive, ha tenuto banco, contaminando la
gran parte delle culture politiche. Le merci e il loro consumo si son eretti a
mezzo di comunicazione quando non a scopo dell’esistenza e si è creato uno
spazio sociale transnazionale nel quale il tempo veniva ad essere in continua
accelerazione. Rompere uno schema così potenzialmente inclusivo, eppure
distruttivo, è il compito che Francesco si è dato ed è la misura dell’ostilità
incontrata da un autentico capovolgimento di valori.
Le élite mondiali ed
i media transnazionali si sforzano di dare credibilità ad una loro
rappresentazione della civiltà industriale che garantisca in prospettiva il
livello minimo dei diritti umani e delle condizioni ambientali, assicurando
comunque per l’impresa la massimizzazione dei profitti. Ma non esiste misura
per trovare un equilibrio tra i tre contendenti, se non la pratica di un conflitto
in cui lavoro e natura stanno dalla stessa parte. Un conflitto giunto ad un
punto di rottura che riguarda la messa in discussione radicale del sistema. Sono
i fatti a dimostrare che il ricorso senza limiti al consumo di natura ed i
danni provocati dallo sfruttamento del lavoro tramutano quello che viene
spacciato per sviluppo - un termine ormai privo di significati positivi - nel
lento declino della vita vegetale e animale. Di fatto, si tratta di un pezzo
di archeologia ormai in decomposizione quanto l’antropocentrismo e tanto meno
attrattivo per le nuove generazioni, quanto più logorato dall’ingiustizia
sociale e dal danno alla salute che ne hanno accompagnato la parabola. Non solo
nelle parole del papa, ma nelle stesse preoccupazioni della scienza, esso, da
consunta utopia, cede ormai il passo ad un bisogno di sopravvivenza, che
può sussistere solo in armonia con la natura e come tensione cosciente verso
una storia in comune, fatta di innumerevoli relazioni ed interconnessioni,
visibili o invisibili, di cui “niente ci risulta indifferente”. Siamo, insomma,
ad una svolta storica, ad una scoperta e, dall’altro lato, ad un “necrologio” -
come afferma Wolfgang Sachs - che non a caso non ci è dato di elaborare quanto
prima possibile. Possiamo però chiederci perché e cercare di scorgere quale sia
il passo in avanti compiuto dalla seconda enciclica, che, al di là di ogni
dubbio, tratta esplicitamente di politica e di un soggetto politico da definire
nelle stesse settimane in cui Trump non risulta un semplice incidente, dal
momento che non solo negli USA, ma anche vicino a noi si manifestano
compulsioni che si riflettono in lui come in uno specchio.
Nonostante non ci fosse
angoscia nelle pagine di una Enciclica premonitrice che invita a “camminare
cantando”, ma una carica avvincente al rinnovamento, non è bastata la sintonia
con l’affermarsi del movimento degli studenti di Greta né il crescente protagonismo
delle donne in ogni regione del mondo, per incrociare un linguaggio o una
pratica che imprimessero correzioni all’agenda dei governanti. Probabilmente lo
stesso Francesco, così ostinatamente coerente ad ogni sua esternazione
pubblica, riconosce che la Laudato si’ peccò di ottimismo e non ci sono
stati gli effetti sperati. Oltretutto, sulla scena globale, se si fa
eccezione per qualche movimento degli “ignudi” nelle campagne o nelle foreste, il
mondo del lavoro nel complesso si è mostrato incerto o poco attivo, mentre nel
disagio sociale la democrazia ha fatto passi indietro, lasciando il campo ad
una politica ostile all’austerità, insensibile ai limiti della natura e orientata
all’economia dello scarto. Così, la nuova leva di leader autoritari e le
corporation globali non hanno affatto desistito nel loro percorso involutivo:
anzi, hanno concordemente intuito che, con la fine dell’era fossile e la
limitazione dell’estrazione delle risorse naturali, la sconfitta inferta negli
ultimi decenni a danno del bene comune e delle classi meno abbienti si sarebbe potuta
arrestare se non addirittura ribaltare. Per il capitalismo globalizzato è parso
giungere il momento per rendere ancora più aspro il conflitto con la
crescente massa dei salariati e più pressante l’alienazione degli ultimi,
sia nei confronti del lavoro sia verso la natura. Nelle strette di un cambio di
passo con la pretesa di una resa dei conti, si è fatta strada - non solo ai
piani alti, ma in molte fasce di popolazione temporaneamente protette - un’interpretazione
del futuro prossimo del tuttoincompatibile con il pensiero del pontefice argentino: non ci sarebbe
stato più spazio per tutti gli scartati sul pianeta; il simulacro del PIL e il
ruolo della finanza avrebbero assicurata la competizione più ostile e avida nei
mercati; perfino l’idea di sviluppo si sarebbe potuta mettere in dubbio, ma avrebbe
resistito all’erosione purché la si colorasse “un poco di verde”.
A ruota, i
media si sono distinti, da un versante, nel negare che fosse necessaria una rottura
per riprogrammare modi e finalità di una produzione che aggredisce salute,
ambiente e vite, da un altro, nel far sparire nel silenzio le domande più
coinvolgenti sulla portata dell’Antropocene e sul ruolo non settario delle
religioni in un mondo dilaniato ed in decomposizione ed in un tempo che sta
tragicamente venendo a mancare (interrogativi consegnati ad una reazione niente
affatto scontata, così ben rimarcati e rappresentati da un riflesso bianco che
avanza nel buio di un Venerdì di pioggia in una piazza San Pietro deserta…). La posta oggi è
alta; forse più di quanto lo fosse cinque anni addietro, perché la pandemia ha
accorciato ancor più i tempi. Ed è pertanto in un contesto aggravato che dobbiamo
valutare il “rilancio” di Bergoglio attraverso la nuova enciclica “Fratelli
Tutti”. Fortunatamente, Landini, i metalmeccanici e il sindacato stanno ribattendo
senza arretramenti all’offensiva di Confindustria in una partita apertissima, il
cui esito sarebbe ancora più incerto se terreni di scontro tra loro disconnessi
si frazionassero ulteriormente. Non arriverei certo qui a sostenere che ci
debba essere un nesso tra due versanti - i contratti e la predicazione - ovviamente
autonomi e indipendenti. Ma come non
riconoscere che il mondo cui si rivolge Francesco abbia necessità di poter
contare anche sulla riconversione della produzione verso valori d’uso
condivisi e sulla dignità del lavoro, affinché si possa aver cura della Terra,
del clima e della giustizia sociale? Basta leggere - e rileggere, se occorre -
il testo firmato il 3 di Ottobre del 2020 nella Basilisca di Assisi. Il papa riprende
sul terreno esplicito dove si sarebbe dovuta collocare la politica - cosa che quest’ultima
non ha fatto - l’intero discorso del cambiamento strutturale antropologico, economico,
finanziario e sociale auspicato, ma platealmente eluso. Ovviamente non si ripete,
ma articola su altri temi e terreni la stessa provocazione di un cambio d’era
evocata un lustro prima. Una boccata d’aria per credenti, non credenti,
movimenti popolari, democrazie, forze sociali, forze politiche impegnate in
cantieri spesso smarriti: un messaggio ed una alleanza da non lasciarsi sfuggire,
anche se risulterà complesso comporre il quadro entro cui superare e
sconfiggere l’involuzione nazionalista, populista e xenofoba, che comprime gli
scarti e le povertà che dilagano nella società mondiale.
Parlo di alleanza da
costruire perché abbiamo a che fare più con una pietra angolare che non con un
edificio già strutturato. La diagnosi papale dei mali del mondo è oggettiva ed
esplicita, ma la “pars construens”, anche quando luminosa e circostanziata,
resta debole. Manca un anello: non è un limite di pensiero o di intenti, è un
guasto - forse irreparabile - nell’ordine delle cose: la fraternità e
l’amore universale non hanno ancora la forza che ha animato i movimenti
politici in nome della libertà e dell’uguaglianza. A meno che, con il
capovolgimento che nella Lettera viene concepito come una nuova gerarchia nella
triade libertà-uguaglianza-fraternità si riscopra un primato di sorellanza e
fratellanza tra gli individui ed un rapporto nuovo tra loro e la natura mediato
dal lavoro: un lavoro che, avrebbero detto Marx ed Engels di metà Ottocento, “produce
l’accrescimento della natura umanizzata senza provocare la scomparsa della
primordiale natura amica”, ovvero, un lavoro che si autolimita a creare
valore d’uso in un mondo in cui la sufficienza soppianta l’efficienza e il
profitto cessa di essere identificato col fare impresa. Dopo le sconfitte,
rimangono due certezze: rivalutare la memoria come fonte di valori inalienabili
e dare titolo di rappresentanza al fondo del barile dell’ingiustizia sociale e
ambientale. Non sorprende allora se si dichiara senza mezzi termini che “Il
diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale
secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni
creati”, con un attacco frontale al principio su cui si regge un sistema
capitalistico sempre più raffinato e corroborato dalla tecnocrazia.E non ci si stupisce nemmeno quando viene
ribadita “la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”, riprendendo
così, all’interno delle contraddizioni laceranti tra sistema d’impresa, società
e natura, il contestatissimo art. 41 di una Costituzione di democrazia
sociale come quella della nostra Repubblica. Tanto meno meraviglia il
ricorso ad una “consapevole coltivazione della fraternità”, come
antidoto alla restrizione della libertà quando questa appaga solo per possedere
o godere e come inveramento di una uguaglianza, che, se è definita solo in
astratto, viene in realtà minata dall’individualismo competitivo.
Affermazioni non
proprio ordinarie e difficili da elaborare sui due piedi dai commentatori di
routine, che ne sono usciti spaesati, preferendo parlare di sé, anziché di un
contenuto davvero complesso. Ci hanno provato infatti subito da destra, dando
al papa del comunista, (Marcello Veneziani), dal centro, citando la triade
della Rivoluzione Francese come “ponte” tra Illuminismo e Cattolicesimo e
lamentando una tardiva rivalutazione della tecnica (Massimo Cacciari) ed anche
da sinistra, richiamando la sproporzione tra ricchezza delle denunce e
scarsezza dei rimedi (Pietro Stefani). Pochi, tuttavia, mettono
in risalto un ragionamento sul lavoro che ritengo centrale e che nella
prima enciclica era solo un po' sbiadito di fronte alla preoccupazione per lo
scempio della natura. Qui invece c’è un crescendo di carico sul senso del
lavoro, come agente unitario, solidale, fraterno, alla fin fine globale,
dopo aver constatato che, all’opposto, “il senso sociale è stato fatto proprio
dall’economia e dalla finanza con una cultura che unifica il mondo ma divide le
persone e le nazioni”. Si parte
dall’auspicio che “i movimenti popolari che aggregano disoccupati, lavoratori
precari e informali e tanti altri, crescano dal basso, dal sottosuolo del
pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino”. Poi si passa alla
denuncia dell'ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto
delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si
produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà. Ma, alla
fine, ecco comparire anche quell’organizzazione, quella disciplina e quella
socializzazione del tempo, delle attività e delle vite di masse (e che altro
sono se non i lavori, le opere, le arti, i mestieri, le attività in cui viene
organizzata la società umana?) che, dopo la vittoria della rivoluzione
industriale e dei modi di produzione capitalistici, tra il diciottesimo, il
diciannovesimo e il ventesimo secolo, hanno smembrato intere comunità
con la divisione del lavoro, la meccanizzazione, l’automazione, la
digitalizzazione, la globalizzazione del commercio, fino alla trasformazione
delle merci in mezzi di comunicazione attraverso il loro consumo.
Ritengo che qui
il papa - a contatto ormai giornaliero col resto del mondo intero - abbia
rifatto i conti con una visione più generale e complessa della organizzazione
della produzione e del consumo, che dall’esperienza argentina non aveva ancora potuto
derivare appieno quando scrisse la Laudato. Ne viene
un’attenzione ineliminabile per l’obbiettivo della piena occupazione (o,
addirittura, il timore che la tecnologia porti ad una nuova forma di alienazione
come nel caso di una inoccupazione strutturale dovuta all’incorporazione
dell’uomo nel macchinario o rete intelligente che sia) e per l’universalità
dei diritti del lavoro al fine di assicurarne la funzione come atto creativo
e non distruttore della natura. Va annotato come trattare di "piena
occupazione" possa rimanere un espediente finché non si capiscono i
meccanismi e i poteri che regolano la distribuzione del lavoro. C’è materia di
cui discutere più in concreto, così come del limite dello stesso valore sociale
del lavoro, che, in quanto capacità trasformativa resa eccessiva dalla
massimizzazione del profitto (ridurre l’orario!), finisce col nuocere sia alla
realizzazione della donna e dell’uomo sia alla sopravvivenza della biosfera.
Concludo con
alcune considerazioni, dedotte dalla lettura dei testi, da prendere con
“levità” come indicazioni per ulteriori approfondimenti. Forse nella “Fratelli
Tutti” c’è un ripensamento rispetto alla Laudato, quando si parla di “diritto
naturale”, come se esistesse l’uomo naturale, anziché la natura fattasi storia,
da cui gli uomini e le donne prendono vita e con cui paritariamente convivono. Occorre che una
ricchezza così densa di stimoli e suggestioni entri nell’agenda di un dibattito
il più ampio, popolare ed unitario, che tocchi nel profondo tutto quanto è
sociale e arrivi alla politica per trasformarla. Gli stessi luoghi
di lavoro devono essere sedi attrezzate per una più intensa partecipazione dei
lavoratori, dei tecnici, dei ricercatori nella gestione delle filiere che promuovono,
reggono e gestiscono la conversione ecologica. Cito cinque
passaggi indicativi di una disposizione concettuale molto aperta verso le nuove
scienze, aspetto anch’esso innovativo di questo papato: “Il tempo e lo spazio
non sono tra loro indipendenti e neppure gli atomi o le particelle subatomiche
si possono considerare separatamente”; “Il Big-Bang, oggi si pone all'origine
del mondo”; “Il tempo è superiore allo spazio”; “L’unità prevale sul
conflitto”; “La realtà è più importante dell’idea”; “Il tutto è superiore alla
parte”. Accantonato l’antropocentrismo
e superato l’equivoco dello sviluppo è possibile alfine che gli uomini
tornino a dare priorità e a vivere all’interno della sfera naturale e dei
valori d’uso, nel rispetto della natura come della salute e dell’ambiente,
dell’aria, dell’acqua e della terra, nell’ambito di quella ecologia
integrale che andrà a sostegno della decolonizzazione dai poteri dominanti
sui territori, finalmente valorizzati nelle loro diversità e “terrestritorietà”.