Ciò che avviene,
secondo i processi di natura, è bene per il pastore, che, riconducendo
alle divinità il processo di formazione della vita, attribuisce anche agli
Esseri Superiori i fenomeni naturali. È fermamente convinto del determinismo
meccanicistico dei processi, che si traducono in bene per gli uomini, in quanto
la Natura è munifica, oltre ogni misura. Quindi, la natura diventa il modello
da seguire da parte dell’uomo. In base a quello che ha osservato, l’uomo può
ottenere ciò che gli manca, inseminando e seminando. Da questi atti si
determina (dal mancare) una crescita smodata e caotica, che si manifesta
come ingravidamento e che, secondo la legge di natura, instaura un passaggio
miracoloso, che è il legare (tra madre e creatura). Il legare non
solo rappresenta il nutrimento per far crescere la creatura, ma implica il fare
(tutte le attività umane) funzionale alla realizzazione. Questo legare
determina la formazione graduale e fenomenica dell’essere animale e
vegetale, in un modo molto particolare, attraverso il mancare, che è la
consapevolezza profonda cui arriva il pastore. In altri termini, in base a
leggi ferree, l’essere diviene, acquisendo, gradualmente, quanto gli manca.
Pertanto, quando nulla gli manca e dopo una lotta (il travaglio) tra la vita e
la morte, nasce. La traduzione di δίκηδίκης (dike): costume,
diritto, giustizia e di ius iuris: diritto, potestà,
giustizia, concettualmente non è simile, per cui δίκη è divenuto sinonimo di giustizia e ius
sinonimo di diritto, in quanto potestà. D’altra parte,
l’omologo di dike è iustitia, che consegue al seguente processo: ius,
iustus, iustitia. Pertanto, giacché ciò che avviene in natura è
giusto, i greci, da questa perifrasi: il mancare (qui, nel senso di sbagliare),
porta al legare, come provvedimento restrittivo,dedussero
il concetto prevalente di giustizia, mentre i latini, dalla perifrasi ius
iuris: va a generare il legare (qui nel senso di duro lavoro)
ciò che nasce,che, per il pastore, è ilmancare,
dedussero il concetto di potestà, nel senso che è mio, mi
spetta, secondo una legge di natura, ciò che ho prodotto, legando,
ed è, pertanto, nella mia diponibilità, nella mia potestà. Dedussero,
inoltre, il Diritto, come insieme di norme che stabiliscono ciò che è
lecito o illecito. Da sottolineare che, per gli italici, il diritto
discende da ciò che horetto, ho governato (da rego
regis) ed è assimilabile a ius iuris, in quanto la perifrasi è la
seguente: è ciò che con la mia fatica ho realizzato, che, nella metafora del
grembo, è il legare che determina la nascita (il mancare). Per i greci la legge divina fu detta θεσμός (thesmòs), in quanto la perifrasi esprime i
passaggi salienti di quanto avviene nel grembo: cresce il flusso gravidico,
poi rimane il legare che genera tutto quello che è necessario (che
manca), mentre i latini definirono fas il diritto divino, con una
perifrasi molto scarna: il mancare è ciò che consente la nascita.
Inoltre, da fas fu dedotto fastus, quindi dies fasti,
giorni in cui era possibile amministrare la Giustizia. La legge umana fu denominata lex
legis, che è la legge del grembo: dal generare lo sciogliere lega colui
che manca (metafora della creatura, che, per nascere, deve restare legata)
e si fa giustizia, restringendo colui che sbaglia. I greci, parimenti,
definirono: νόμος (nòmos): uso, regola,
legge, asserendo che, mentre la creatura resta nel grembo, manca,
ad indicare che si evince anche la disposizione di durata: quanto tempo,
di norma, deve restare.
In latino, per arrivare al concetto di giustizia,
bisogna partire da ius iuris; infatti, è il giusto colui che
genera il diritto, ciò che spetta o non spetta, sulla base di un diritto
di natura; pertanto, chi vive secondo i principi di natura è giusto e da
colui che è giusto nasce la giustizia. Da giustizia si ricavò ingiustizia,
mentre da ius si ebbe prima iniurus: senza legge né fede, oltraggioso
e poi: iniuria: ingiuria, torto, offesa, oltraggio. Sempre da ius (radice iud, in
quanto, in ius,l’originario sigma greco si è assibilato) fu
dedotto iudex iudicis, che è colui che ristabilisce il diritto,
decidendo a chi spetta, quando c’è contrasto nel rivendicare un diritto. Il
giudice giudica sulla base dei diritti comuni, del diritto pubblico, di quello
privato, di quello civile ecc. e, quando manca una precisa normativa, si avvale
della giurisprudenza. Pertanto, il giudice, pur essendo un arbitro, non
giudica mai in modo arbitrario, ma sempre in base ad un codice vigente; in
assenza, in base al diritto degli antenati o ai principi del diritto, che sono
quelli di natura, o a quelli del buon padre di famiglia. Inoltre, il giudice
emette giudizi, nel senso di sentenzefrutto di discernimento. I greci da κρίνω (krino), che ha tanti significati, tra gli
altri: giudico, decido,sulla base di una attenta
disamina, e che contiene molto di quanto è confluito in: cerno cernis, crevi,
cretum, cernere: separo, distinguo, discerno,
vaglio, stabilisco (per cui da chi ha stabilito fu dedotto
decreto), dedussero l’aggettivo verbale (kritòs) κριτός (giudicato, deciso), da cui (crités)
κριτής: giudice, arbitro. Il giudice
dei greci è colui che amministra la giustizia, perché ha la capacità di stare
ai fatti, di attenersi al merito, di valutare e decidere sulla base di criteri:
(criteria) κριτήρια, che, si può presumere,
fossero di natura etica e, quindi, attinenti a ciò che è giusto e ingiusto.
Pertanto, spetta al κριτής essere critico, nel
senso, qui, di avere sviluppate capacità di giudizio. In questo senso è
possibile fare critica valida,che è qualità propria del giudice,
se si hanno competenze su una determinata materia e se ci si avvale di
strumenti sperimentati per poter giudicare.