Mi
permetto di riprendere una citazione contenuta nell’avvio del capitolo terzo
del recente libro di Marco Revelli “Umano, Inumano, Postumano” (Einaudi
2020). La citazione è da Holderlin: “Là dove c’è il pericolo cresce anche
ciò che salva”. Revelli
aggiunge (trattando il tema della sovranità): “possiamo dire che esattamente
nel pieno di quel disordine cosmico s’incomincia a intravvedere, prima
confusamente poi in modo sempre più chiaro, lo strutturarsi di un nuovo
principio d’ordine, nella formula antica ma ora integralmente ridefinita della
Sovranità”. È
il tema del Leviatano. Nei
secoli della modernità abbiamo visto prendere forma, nella parallela crescita
del pensiero scientifico e di quello politico, lo spostarsi dell’idea di
Sovrano dal taumaturgo “unto del signore” fino a trasformarsi nell’espressione
di un presunto volere delle masse. In questo procedere storico la sovranità ha
però sempre corrisposto ad un potere sorto all’interno della costruzione umana
mostrandone limiti e contraddizioni: quando un qualche fatto di dimensione
apparentemente epocale sembrava mettere tutto in discussione, allora il
pensiero si rivolgeva all’attaccamento a Dio (come espone anche lo stesso
Revelli nel secondo capitolo del testo già citato). A
partire dal Secolo dei Lumi il rivolgersi al trascendente è stato ancora
sostituito almeno parzialmente dal riflettersi “sociale” nell’ideologia
politica. Tutto
questo almeno è avvenuto nella nostra “civiltà” occidentale e nell’altrettanto
“nostro, occidentale” principio dello sviluppo umano. Adesso
siamo di fronte a un frangente inedito rispetto al procedere del tempo di cui
conserviamo memoria. Un
frangente che ha evidentemente sconvolto i nostri consueti canoni. La
sovranità ormai risiede, almeno per un momento la cui durata non siamo in grado
di stabilire, in un “fattore esterno”. La
sovranità, l’ordine “politico” delle cose imposte dalla realtà si colloca,
infatti, dentro a quel male oscuro che il semplice affidarsi alla scienza e
alla tecnica non sembra proprio di permetterci di affrontare. Non
riesce più a fornirci risposte quella forma post-moderna di gestione del potere
realizzata attraverso l’egemonia di una tecnica capace di modellare le nostre
vite e di produrre intelligenza al di fuori di esse. Il
segno del comando risiede ormai da un’altra parte, in un luogo inaccessibile là
dove il male si riproduce e aggredisce nel più totale appiattimento delle
nostre distinzioni convenzionali: non vale lo “status”, non vale la razza, non
vale la religione, è smarrito il confine tra la Polis e il Bios. Eppure
in nome della razza e della religione si continua a distruggere la costruzione
umana. Così
scopriamo l’ennesima dimostrazione che la lezione della storia non vale a restituirci
lo scettro. Sembra essersi determinato un intreccio mortale tra l’idea della
distruzione portata avanti in nome di antichi stilemi e la stessa morte
silenziosa che arriva da un potere esterno alla nostra capacità di dimostrarsi
sovrani. Così
è fallita l’idea di affidarsi esclusivamente alla tecnica avendo proclamato la
“fine della storia” e si è spezzata la relazione tra l’uomo e la macchina. Una
relazione resa impotente di fronte alla “sovranità estranea” che pare annullare
assieme l’individuale e il collettivo, oltrepassando il concetto di alienazione
che non può valere davanti allo spaventevole ignoto. La
vicenda umana ha curvato improvvisamente verso il crollo della materialità ma
soprattutto appare aperto il precipizio verso la distruzione dell’animo. Il
passaggio di Holderlin sembra proprio smentito. Pericolo
e salvezza non crescono più assieme in un’attualità dove il grigio
dell’incertezza sta affermandosi come il colore dominante. Ci
troviamo davvero sul limes di un’era dove la scienza non corrisponde più al
genere umano e il potere di determinare il futuro si è già dislocato altrove,
fuori dalla nostra possibilità di fissarne limiti e confini? La
fine dell’epidemia non corrisponderà a una vittoria del nostro antico modello e
non ne deriverà una risposta all’interrogativo di fondo.