Pagine

mercoledì 11 novembre 2020

PENSIERI OZIOSI DI UN OZIOSO
di Paolo Maria Di Stefano


Elaborazione grafica di Giuseppe Denti

E allora, alle 18 i giochi finiscono. Le saracinesche discendono e, suppongo, chi non ha finito di cenare lascia la tavola del ristorante con quanto ancora da consumare e si precipita fuori. I più pronti infilano in un sacchetto quello che possono sperando di farlo arrivare a casa in condizioni ancora accettabili per finire la cena in santa pace, sempre che si siano ricordati di indossare la mascherina con la cura necessaria a coprire anche il naso.
Un comportamento, questo, che dovrebbe garantire almeno il rallentamento dell’avanzare del virus. Ma che sembra non funzionare più che tanto, almeno fino ad oggi, il che autorizza a pensare che questa seconda ondata sia anche responsabilità di tutti coloro che fingono di ignorare i consigli del legislatore e degli amministratori delle regioni, delle province e dei comuni.
I rimedi all’espandersi del virus proposti si basano soprattutto sui risultati ottenuti nella lotta alla prima ondata, risultati subito vantati se non proprio come una vittoria, certamente come positivi, e certamente tali da consentire la riapertura degli esercizi commerciali e delle strade impegnate nella movida, in questa ultima ipotesi almeno con manifestazioni di gioia da parte dei giovani. A Milano, per esempio, i Navigli e Porta Nuova si sono immediatamente ripopolati, le mascherine sono apparse una rarità e il distanziamento sociale una pretesa con più di qualche stranezza quasi incomprensibile. C‘è chi afferma che si tratti in gran parte di una insopportabile limitazione alla libertà, come se la libertà non fosse quello che realmente è: un sistema di limitazioni personali, e non l’arroganza di comportamenti egoistici.
Con questa nota come seconda ondata - intanto - pare rimasta inalterata la tendenza di più di un medico di famiglia a sublimare divenendo invisibile ed irrintracciabile. Ma in più di un caso, non silenzioso. Alcuni hanno contribuito a comunicare come gli anziani fossero diventati indegni di considerazione, in particolare di quella dei medici impegnati a combattere il coronavirus tra i più giovani, diciamo fino ai cinquantacinquenni, il sistema sanitario non essendo in grado di intervenire per tutti. E soprattutto, non valendo la pena di occuparsi dei più vecchi, ritenuti da più di un imbecille non in grado di operare per lo sviluppo della società, e dunque obsoleti curare i quali sarebbe uno spreco inutile di risorse.
L’idea assunta a motivazione per la non cura è il risultato di un progressivo aumento della ignoranza generale o, se si preferisce, di una progressiva diminuzione della cultura. Almeno da noi.
Una ignoranza forse non ancora generalizzata, dal momento che qualcuno continua a pensare che l’avanzare dell’età abbia il grande vantaggio di una esperienza più o meno intensamente vissuta, come tale utilizzabile per “meglio conoscere la storia recente”, e dunque gli errori commessi, e quindi provare a trovare il come correggerli, a tutto vantaggio del futuro.
Non possiamo dimenticare, a questo proposito, che nella ricerca e individuazione dei mezzi e dei metodi di cura si è sempre proceduto a tentoni e che ancora a tentoni si procede, nella speranza di imbattersi in qualcosa di quasi scientificamente fondato.


Opera di Vinicio Verzieri

Con il rischio ovvio di sbagliare, ma con la quasi certezza di riuscire, almeno in parte. Naturalmente, questa è una delle cose che chiamano in causa il comunicare in termini di oggetto della comunicazione e di modo di darle vita con la sintesi e la chiarezza opportune. Occorrerebbero seri professionisti, per questo, ma quanto sta accadendo non pare poter aiutare: decreti dai contenuti almeno in penombra e dunque in buona parte criptici e tutti volatili, pronti a cambiare nello spazio di poco più di qualche ora. In più (sempre da noi) elaborati da “legislatori” adusi a “fabbricare” leggi in gran parte incomprensibili, ed a modificarle rendendole se possibile ancora meno chiare.
Noi stiamo cercando di salvare in contemporanea la salute e l’economia, e ognuno dice la sua in quella che, almeno fino ad ora, si è rivelata una inutile “brain masturbation”, perché basata in gran parte su concetti e procedimenti vecchissimi e tutt’altro che innovativi.
Per esempio - siamo nella economia e in particolare nella distribuzione: tutti credono che il risultato possa scaturire dalla applicazione dei principi di uno scambio libero in una economia altrettanto libera.
Risultato, tra i primi: i negozi di alimentari sembra siano stati aperti senza nessun rispetto per le distanze e si sono fatti concorrenza spietata soprattutto basata sulla lotta tra i prezzi, obbligata dalla situazione: tutti cercano di vendere le stesse cose, senza - generalmente - quelle differenze in grado di determinare le preferenze del consumatore e, in un sano regime economico, il livello dei prezzi.
Che sono differenza di qualità, di marca, di formato, di servizio…
Il che mi ricorda, per esempio, il tempo in cui buona parte della fortuna delle farmacie dipendeva dalla distanza tra i negozi, distanza se non erro disposta per legge e, sempre ch’io non ricordi male, oggi abolita in nome di uno strano concetto di concorrenza e di libertà. Non è possibile che l’imbecille che ha voce in capitolo nel settore, giovane abbastanza per non aver vissuto quella esperienza, si sia dimenticato di ascoltare l’opinione dell’anziano che quella esperienza invece ha vissuto? La vecchiaia ha acquisito una funzione se non nuova certamente importante: è divenuta materia di dibattiti destinati soltanto a riempire i così detti media di considerazioni dalla vacuità disarmante.
È di queste ore un provvedimento del sindaco di Volturara Irpina che vieta agli over 70 di uscire di casa! E non sembra che il piccolo paese sia stato dotato, prima del provvedimento, di una organizzazione in grado di soddisfare i bisogni di coloro ai quali è stato impedito di uscire.
Ma torniamo a noi.



L’accenno alla distribuzione alimentare ed alle farmacie mi dice che con buona probabilità il metodo di pensiero può essere utilmente esteso a tutti i settori merceologici, quasi senza eccezione, in pratica subordinando le licenze anche (ma non solo) alla posizione reciproca degli esercizi a seconda delle aree. Invento: i negozi di prodotti alimentari potrebbero dover avere tra di loro la distanza di almeno trecento metri; stessa disciplina per i bar e per i ristoranti (…) e così via: il numero delle imprese diminuirebbe notevolmente e la gestione probabilmente migliorerebbe.
Con il vantaggio, anche, di poter essere meglio valutate in ordine alla bontà della gestione in termini di efficienza e di efficacia soprattutto quando e se necessario in riferimento al profitto ed alla utilità sociale cui hanno dato vita.
Con questo, in più, di stretta attualità: in situazioni quali quella attuale, si potrebbe prendere in considerazione l’andamento nel tempo- basato non sull’ordinato e neppure sul fatturato ma soltanto sull’incassato e quindi sui profitti-  in modo tale da creare una graduatoria che consenta di  aiutare finanziariamente quelle imprese che sono meglio gestite, tralasciando le altre, quelle la cui storia abbia dimostrato una sopravvivenza precaria soprattutto a causa della scarsa professionalità di chi le gestisce, ai quali potrebbe imporsi un serio corso di gestione dello scambio di interesse prima di consentire una eventuale riapertura o nuova apertura di un nuovo negozio, alle condizioni vigenti a quel momento, e prima di riconoscere un eventuale diritto ad un aiuto finanziario, che dovrebbe essere considerato una eccezione, in fondo contraria alla natura stessa dell’impresa che è e resta una attività di rischio che deve rimanere in testa all’imprenditore.
Si tratta di un approccio all’economia ed alla gestione degli scambi probabilmente tale da riuscire a cambiare quella parte dell’economia che ha provocato i danni maggiori e che costituisce oggi un freno alla “ricostruzione” che deve individuare i limiti esistenti e, sopra tutto, quelle opportunità di cambiamento che, forse, potranno riportarci ad una qualità di vita accettabile.
Il tutto, forse, passa anche da un ulteriore cambiamento culturale: non è vero che lo sport in genere e il calcio in particolare sono necessariamente fattori di sviluppo. Forse, lo sarebbero se almeno una parte dei profitti venissero distribuiti ai meno abbienti, ai meno fortunati, a coloro che, oggi più che mai, non dispongono delle risorse necessarie per un vivere dignitoso.
Che potrebbe anche essere la realizzazione di una parte della funzione sociale dello sport.