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giovedì 10 dicembre 2020

ARTE E POESIA
di Francesco Curto


Francesco Curto
in un ritratto del pittore
De Vincenti del 1998
                                              
Incontro con l’arte di Giuseppe De Vincenti.
Un viaggio nelle memoria.
 
In questo tempo sospeso, mi succede spesso, stando a casa, di fare un viaggio all’interno dell’appartamento “autour de ma chambre”, e di ritrovarmi tra le tante opere dei miei amici pittori, appese alle pareti. Oggi mi soffermo sulle opere di Giuseppe De Vincenti (Acri 1954) che attualmente vive e opera a Brescia. I suoi quadri mi rimandano alle copertine dei miei libri e alle tavole all’interno delle raccolte di poesie. Conservo però anche i primi lavori, quando ancora disegnava in bianco e nero con china o acquerelli:  penso ai vecchi al sole, a le nostre donne, alle partenze di uomini con la classica valigia di cartone per emigrare e a uomni e bestie che vanno al lavoro. Ricordo però anche l’opera (che fine avrà fatto?) a colori della piazza dei frutti, che mi riportava a Guttuso. Con Giuseppe eravamo vicini di casa e ci frequentavamo perché lui era amico, quasi allievo, di Giacinto Ferraro, architetto e grande artista. Ci frequentiamo ancora oggi, però, se pure a distanza, io a Perugia e lui a Brescia. Poi la forza creativa e di maturità di De Vincenti e il salto di qualità, un artista che spazia tra terra e cielo, con una produzione che definire notevole è certamente forse troppo riduttiva. 


Una delle tante copertine
realizzate da De Vincenti
per il poeta Curto


De Vincenti è presente con le sue opere in alcuni miei libri ma soprattutto è l’autore ed editore di poche copie (8) della prima antologia Prendo il largo, la cui copertina rappresenta  le Colline del Mucone (titolo dell’opera). C’è una sintonia con la sua opera perché c’è comunanza di vita vissuta. Non meno suggestiva l’opera L’ombra sul muro della stessa antologia, edita da L’Obliquo. Un’altra sua opera sul Mucone è la copertina del saggio di Allegrini sulla mia poesia, Eros, Simbolismo e Ideologia. L’arte di De Vincenti è anch’essa una poesia di policromie dentro un paesaggio che toglie il respiro. Le linee architettoniche di case e vicoli, di casolari e vigne, di campi di grano e soprattutto di alberi, sono nelle sue opere la parola del tempo. L’ombra diviene quasi protagonista e presenza inquietante, quasi la voce della coscienza dell’uomo, sempre assente nelle sue opere. Testimoni, a volte, sono il palo della luce che allude a messaggi da consegnare o luce  per le tenebre, o un guard rail che osserva mute campiture che si perdono in un leopardiano infinito. Il taglio di luce del sole di giorno o nei notturni attraversa l’opera nel silenzio di un rumore intimo che coincide con il battito del cuore. 


G. De Vincenti
La Basilica dei Cappuccini
di Acri, terra dei due artisti

De Vincenti, con la sua opera, ci consegna la menoria dei luoghi, di un passato radicato nel sangue e nella mente. Linee che si dilatano dentro e fuori di noi che lasciano segni indelebili, scovando anche nostalgie e rimpianti che attanagliano il nostro vivere quotidiano. Il percorso artistico tracciato di GDV è ricco di sentimento e di  religiosità laica e si offre all’osservatore come dono di quel bene comune da salvaguardare, da difendere e custodine per le nuove generazioni. La pittura di De Vincenti è un patrimonio di quel vussuto in una povertà ricca di emozioni e di quella forza per un riscatto che non può che produrre amore per uomini e cose, per la natura e per la sopravvivenza stessa della terra. 


Una recentissima suggestiva veduta
del colle di Padia ad Acri
tante volte dipinto e descritto da entrambi
(Foto: Archivio Odissea)

Un bel viaggio il mio, oggi, con l’incontro con Giuseppe. Un dialogo felice tra noi che  dà senso alla nostra esistenza, lontani da Acri, ma ricchi di quella infanzia, e perché no, di quelle battaglie intraprese, combattute e qualcuna anche vinta. Grazie Giuseppe. In questo tempo rotto dal Covid-19, che limita gli spostamenti fisici. Il viaggio nella memoria con i ricordi ci offre la possibilità di spaziare nel tempo che facciamo nostro, senza sottostare alle rigide regole che costringono  la ragione a tenere separati  passato presente e futuro.