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sabato 19 dicembre 2020

RILEGGENDO FUGHE
di Massimo Parizzi

Massimo Parizzi

Caro Velio,
leggere le tue Fughe, come ti ho già scritto, mi ha fatto piacere, anzi, mi ha fatto bene. Più di una volta, durante la lettura, mi sono ritrovato a dire a me stesso: finalmente! E ad avere l’impressione di respirare meglio. Può sembrare strano, considerata la parte importante che, in tutte le prose, anche se in misura maggiore o minore, svolge il duolo. Per lo stesso motivo può sembrare strano accorgersi, al termine della lettura, che i personaggi di questo “romanzo”, persone, natura, arte, sono tutti personaggi positivi, o che rende positivi l’amorevolezza con cui ne scrivi (amorevolezza che arriva all’identificazione, come dire “tu potresti essere me e io potrei essere te”, o meglio, “tu sei me e io sono te: “Una minuscola manciata di decenni addietro eravamo il medesimo bambino”, Ĉigoĉ). Ecco i “buoni”: uomini e donne, natura, arte. E i cattivi? Non ci sono. Cioè: c’è, fin dalle prime pagine, il capitalismo, nei vari nomi, forme ed effetti che lo individuano. Però non è un “personaggio”, è uno sfondo che, tuttavia, non sta in fondo, ma davanti, a sinistra, a destra, e soprattutto sopra i personaggi, a premerli, schiacciarli. Ma, loro, restano positivi: i buoni. Ecco cosa fa da contrappunto, e contrasto, al duolo.
Poi, ho ritrovato in questi pezzi un’amica/nemica con cui avevo già cercato di fare i conti leggendo Domani, la difficoltà della tua narrativa, che viene tutta da omissioni. Non c’è regola delle cinque W che non violi: who sono “quelli che per un attimo avevamo pensato di raggiungere, spalla a spalla” e che “erano d’un tratto sbalzati via, per sempre imprendibili”? Why la “consuetudine” del prendere appunti in un “minuscolo taccuino” è “a volte temibile”? What “chiudemmo in onore dell’ospite”? Ma perché in realtà io, come lettore, vorrei sapere queste cose, se tu non vuoi dirmele? È chiaro, per avere tutto sotto controllo, chiudere il libro, spegnere la luce e addormentarmi tranquillo. E tu non vuoi che m’addormenti tranquillo. Le omissioni più “gravi” riguardano però lo when e lo where. Come in Domani, anche se qui molto meno, salti allegramente (o dolentemente) da un luogo all’altro, da un tempo all’altro.
A me sembra che il tasso di omissioni potrebbe essere minore. Ma, comunque, che senso hanno? M’è parso di capirlo: è questo, mi sembra, un caso esemplare di testo che non “dice”, ma “fa”, com’è pregio di tutte le opere letterarie vere. Il lettore, leggendo, non si limita ad ascoltare, ma fa un’esperienza, quella che il testo gli impone (come d’altronde dici benissimo tu stesso in Lorenzo). E che cosa gli impongono quelle omissioni? Be’, la rinuncia alla pretesa “reazionaria” dell’“immediatezza” (di cui parli in La cartella) e alla “strumentalità immediata” (Lettere), certo, e anche di “piegare il piacere letterario alla funzione d’inciampo al già saputo” (Marusca). Ma soprattutto, secondo me, gli impongono un movimento omologo a quello necessario per individuare, e riconoscere, “un bisogno antropologico che da qualche parte attende ancora di diventare realtà” (Congedo). Come se quelle “menomazioni” del testo, quello che nel testo “non c’è”, “ci sfugge”, “ci è sottratto”, addestrassero le stesse capacità dello spirito che occorre mobilitare per cercare «ciò che non c’è, che ci sfugge, che ci è sottratto” e che “si cerca perché è una nostra menomazione” (Sulle domande del lettore). “Un bisogno antropologico”: sì.



Un altro punto: la tua scrittura. È alta, e qualche volta m’è sembrato che scivolasse nel “letterario”, non nel senso migliore del termine: quanti “stradelli”! E il gallo “sorvegliatico” (i potenti mezzi, Google insomma, mi dicono che condividi questa parola con Carlo Invernizzi, poeta milanese, e nessun altro), la tavola “imporrita”, i rami “trascorsi”… Ma, certo, in qualche modo è necessario prendere nette distanze dalla “chiacchiera imbonitoria” (Diari). E soprattutto è necessario creare una cadenza, perché, come scrivi con parole che corrispondono anche alla mia esperienza e condivido in pieno: “Basta accompagnare una cadenza, per sentirne il valore, ben prima di comprenderla. È proprio quella promessa, anzi caparra che chiede la fatica dell’ascolto, sempre” (Marusca). La tua scrittura la crea, una cadenza. Come t’ho scritto, ho riletto qualcuna delle prose, e credo che le rileggerò tutte, ma non soltanto per capire meglio: perché non ho voglia di separarmi troppo presto da quella voce, è una buona compagnia
Un altro carattere di Fughe che m’ha fatto pensare “finalmente!”, e respirare meglio, è il coraggio con cui miscela narrativo e saggistico: c’è stato un tempo, lo sai, in cui in nome dell’unità dell’essere umano anche la separazione fra i generi letterari è parsa dubbia (com’era parsa dubbia a generazioni più antiche, ma in nome d’altro). Ora ovviamente quel dubbio, se qualcuno mai vi accennasse, verrebbe chiamato “ingenuità”. E tuttavia è esattamente il contrario: è la consapevolezza che, se la divisione in generi è comoda e ha una lunghissima storia, è anche ingannevole; presume e quindi crea o fortifica all’interno del lettore e all’interno della scrittura divisioni che, almeno nel profondo di entrambi, non ci sono. Secondo me si può legittimamente (anche se un po’ provocatoriamente) considerare Kant un grande narratore e Proust un grande saggista: “In ogni atto di parola palpita la vita”.
Ma non voglio concludere queste minime osservazioni senza elencare, soltanto elencare, qualcun’altra delle tue parole che hanno suscitato in me un sentimento di adesione piena: certo, “mai lo scacco può annullare la verità che a una generazione sia capitato di additare”; “l’opera costruisce e quindi sceglie il proprio lettore”: è verissimo e fondamentale; “sempre, nella mia vita, mi ha accompagnato un istinto di lontananza da quello che i cristiani chiamano ‘mondo’”: questo potrei davvero scriverlo anch’io; “le classi subalterne sono tornate plebe”: sì, ahinoi; “la logica economico-sociale che ha svalutato l’istruzione… è la medesima che ha travolto la distinzione tra cultura alta e cultura bassa”, nonostante che non siano pochi i nostri “compagni” che, in nome di una democrazia a mio parere male intesa, plaudono alla fine di questa distinzione.
Infine, un aneddoto: la storia della quindicenne che, in Sismografi 2, sogna “i milioni” mi ha ricordato una mia esperienza. Non ho mai insegnato, ma da qualche anno collaboro da volontario a un doposcuola per bambini delle elementari, in stragrande maggioranza di famiglie non italiane. Sei anni fa “avevo” un gruppetto di bambini di quinta elementare e, alla fine dell’anno, congedandoli, ho detto: “Voglio farvi un augurio. Vi auguro di non diventare ricchi…”. Puoi immaginarti il putiferio (che d’altronde volevo): “Ah… che bell’augurio ci fai!”, “e i tuoi occhiali come li hai comprati?” eccetera eccetera.
Un abbraccio, Massimo.