Caro Velio, leggere le tue Fughe, come ti ho già
scritto, mi ha fatto piacere, anzi, mi ha fatto bene. Più di una volta, durante
la lettura, mi sono ritrovato a dire a me stesso: finalmente! E ad avere
l’impressione di respirare meglio. Può sembrare strano, considerata la parte
importante che, in tutte le prose, anche se in misura maggiore o minore, svolge
il duolo. Per lo stesso motivo può sembrare strano accorgersi, al termine della
lettura, che i personaggi di questo “romanzo”, persone, natura, arte, sono
tutti personaggi positivi, o che rende positivi l’amorevolezza con cui ne
scrivi (amorevolezza che arriva all’identificazione, come dire “tu potresti
essere me e io potrei essere te”, o meglio, “tu sei me e io sono
te: “Una minuscola manciata di decenni addietro eravamo il medesimo bambino”, Ĉigoĉ).
Ecco i “buoni”: uomini e donne, natura, arte. E i cattivi? Non ci sono. Cioè:
c’è, fin dalle prime pagine, il capitalismo, nei vari nomi, forme ed effetti
che lo individuano. Però non è un “personaggio”, è uno sfondo che, tuttavia,
non sta in fondo, ma davanti, a sinistra, a destra, e soprattutto sopra i
personaggi, a premerli, schiacciarli. Ma, loro, restano positivi: i buoni. Ecco
cosa fa da contrappunto, e contrasto, al duolo. Poi, ho ritrovato in questi pezzi
un’amica/nemica con cui avevo già cercato di fare i conti leggendo Domani,
la difficoltà della tua narrativa, che viene tutta da omissioni. Non c’è regola
delle cinque W che non violi: who sono “quelli che per un attimo avevamo
pensato di raggiungere, spalla a spalla” e che “erano d’un tratto sbalzati via,
per sempre imprendibili”? Why la “consuetudine” del prendere appunti in
un “minuscolo taccuino” è “a volte temibile”? What “chiudemmo in onore
dell’ospite”? Ma perché in realtà io, come lettore, vorrei sapere queste cose,
se tu non vuoi dirmele? È chiaro, per avere tutto sotto controllo, chiudere il
libro, spegnere la luce e addormentarmi tranquillo. E tu non vuoi che
m’addormenti tranquillo. Le omissioni più “gravi” riguardano però lo when
e lo where. Come in Domani, anche se quimolto meno, salti
allegramente (o dolentemente) da un luogo all’altro, da un tempo all’altro. A me sembra che il tasso di omissioni
potrebbe essere minore. Ma, comunque, che senso hanno? M’è parso di capirlo: è
questo, mi sembra, un caso esemplare di testo che non “dice”, ma “fa”, com’è
pregio di tutte le opere letterarie vere. Il lettore, leggendo, non si limita
ad ascoltare, ma fa un’esperienza, quella che il testo gli impone (come
d’altronde dici benissimo tu stesso in Lorenzo). E che cosa gli
impongono quelle omissioni? Be’, la rinuncia alla pretesa “reazionaria”
dell’“immediatezza” (di cui parli in La cartella) e alla “strumentalità
immediata” (Lettere), certo, e anche di “piegare il piacere letterario
alla funzione d’inciampo al già saputo” (Marusca). Ma soprattutto, secondo
me, gli impongono un movimento omologo a quello necessario per individuare, e
riconoscere, “un bisogno antropologico che da qualche parte attende ancora di
diventare realtà” (Congedo). Come se quelle “menomazioni” del testo,
quello che nel testo “non c’è”, “ci sfugge”, “ci è sottratto”, addestrassero le
stesse capacità dello spirito che occorre mobilitare per cercare «ciò che non
c’è, che ci sfugge, che ci è sottratto” e che “si cerca perché è una nostra
menomazione” (Sulle domande del lettore). “Un bisogno antropologico”:
sì.
Un altro punto: la tua scrittura. È alta, e
qualche volta m’è sembrato che scivolasse nel “letterario”, non nel senso
migliore del termine: quanti “stradelli”! E il gallo “sorvegliatico” (i potenti
mezzi, Google insomma, mi dicono che condividi questa parola con Carlo
Invernizzi, poeta milanese, e nessun altro), la tavola “imporrita”, i rami
“trascorsi”… Ma, certo, in qualche modo è necessario prendere nette distanze
dalla “chiacchiera imbonitoria” (Diari). E soprattutto è necessario
creare una cadenza, perché, come scrivi con parole che corrispondono anche alla
mia esperienza e condivido in pieno: “Basta accompagnare una cadenza, per
sentirne il valore, ben prima di comprenderla. È proprio quella promessa, anzi
caparra che chiede la fatica dell’ascolto, sempre” (Marusca). La tua
scrittura la crea, una cadenza. Come t’ho scritto, ho riletto qualcuna delle
prose, e credo che le rileggerò tutte, ma non soltanto per capire meglio:
perché non ho voglia di separarmi troppo presto da quella voce, è una buona
compagnia Un altro carattere di Fughe che m’ha
fatto pensare “finalmente!”, e respirare meglio, è il coraggio con cui miscela
narrativo e saggistico: c’è stato un tempo, lo sai, in cui in nome dell’unità
dell’essere umano anche la separazione fra i generi letterari è parsa dubbia
(com’era parsa dubbia a generazioni più antiche, ma in nome d’altro). Ora
ovviamente quel dubbio, se qualcuno mai vi accennasse, verrebbe chiamato
“ingenuità”. E tuttavia è esattamente il contrario: è la consapevolezza che, se
la divisione in generi è comoda e ha una lunghissima storia, è anche
ingannevole; presume e quindi crea o fortifica all’interno del lettore e
all’interno della scrittura divisioni che, almeno nel profondo di entrambi, non
ci sono. Secondo me si può legittimamente (anche se un po’ provocatoriamente) considerare
Kant un grande narratore e Proust un grande saggista: “In ogni atto di parola
palpita la vita”. Ma non voglio concludere queste minime
osservazioni senza elencare, soltanto elencare, qualcun’altra delle tue parole
che hanno suscitato in me un sentimento di adesione piena: certo, “mai lo
scacco può annullare la verità che a una generazione sia capitato di additare”;
“l’opera costruisce e quindi sceglie il proprio lettore”: è verissimo e
fondamentale; “sempre, nella mia vita, mi ha accompagnato un istinto di lontananza
da quello che i cristiani chiamano ‘mondo’”: questo potrei davvero scriverlo
anch’io; “le classi subalterne sono tornate plebe”: sì, ahinoi; “la logica
economico-sociale che ha svalutato l’istruzione… è la medesima che ha travolto
la distinzione tra cultura alta e cultura bassa”, nonostante che non siano
pochi i nostri “compagni” che, in nome di una democrazia a mio parere male
intesa, plaudono alla fine di questa distinzione. Infine, un aneddoto: la storia della quindicenne
che, in Sismografi 2, sogna “i milioni” mi ha ricordato una mia
esperienza. Non ho mai insegnato, ma da qualche anno collaboro da volontario a
un doposcuola per bambini delle elementari, in stragrande maggioranza di
famiglie non italiane. Sei anni fa “avevo” un gruppetto di bambini di quinta
elementare e, alla fine dell’anno, congedandoli, ho detto: “Voglio farvi un
augurio. Vi auguro di non diventare ricchi…”. Puoi immaginarti il putiferio
(che d’altronde volevo): “Ah… che bell’augurio ci fai!”, “e i tuoi occhiali
come li hai comprati?” eccetera eccetera. Un abbraccio, Massimo.