Incontro
con Tomaso Kemeny. Per
il lobo d’oro
è l’ultimo libro appena uscito di Tomaso Kemeny per le edizioni Effigie 2020,
un piccolo scrigno di una materia densa e viva che si presta a più piani di
lettura. A una lettura più immediata si è catturati dalla vivace trama dei
fatti, siano essi avvenimenti storici o aneddoti personali, avvincenti e talora
anche finemente divertenti, di quello che potremmo non esitare a definire un Bildungsroman;
addentrandosi più in profondità, si è tentati da una più impegnativa avventura
di analisi del testo letterario; infine, in filigrana, traspare un’altra trama,
quella dei tanti grandi riferimenti letterari intessuti nel libro che sono
stati i compagni di una vita di Tomaso Kemeny e che, entro il romanzo di
formazione, costituisce il suo sorprendente Kuenstlerroman. Tamàs,
Thomas e infine Tomaso, in questo nome cangiante è iscritta la storia di una
vita viandante tra nostos e apertura all’ignoto, la storia di un’identità,
quella del piccolo magiaro che diverrà cittadino del mondo, e infatti Per il
lobo d’oro è un libro autobiografico o meglio un romanzo di formazione che
inestricabilmente si intreccia con la più ampia storia europea del ‘900, nei
quarant’anni che vanno dal 1938 (anno di nascita dell’Autore) al 1978. Tra i
fatti storici salienti per la vita di Tomaso Kemeny vanno ricordati la guerra
di liberazione della Transilvania dai russi, l’occupazione dell’Ungheria da
parte dei nazisti, l’invasione dei sovietici; il fatale trattato di pace del
1947 che toglie all’Ungheria non solo un mare goduto per 800 anni, ma due terzi
del territorio nazionale; l’espulsione nel ‘48 di coloro che si oppongono
all’unificazione, sulla base del marxismo-leninismo, con il Partito Comunista,
e infine la repressione da parte dell’Armata Rossa della rivoluzione ungherese
del ’56. L’infanzia di Tamàs è attraversata pesantemente da questi fatti
traumatici, rispetto ai quali il bambino è involontario quanto lucido testimone;
come quando rimane illeso sotto le macerie dei bombardamenti o quando è
testimone della rappresaglia sovietica, o quando i sovietici, gettata la
maschera dei liberatori, si rivelano predatori, stupratori di guerra. Dopo la
fuga dall’Ungheria, per Tamàs inizia in Italia un altro capitolo della sua vita;
dapprima come profugo a Bagnoli in Campania dove tuttavia, sfuggito “all’amebica
vita dei profughi”, il ragazzo esordisce a Napoli come piccolo mito del calcio
magiaro col suo potente tiro di sinistro; poi, adolescente, lo ritroviamo a
Milano conosciuto ormai come Tomaso dove frequenta il liceo classico Carducci,
e da lì con una borsa di studi è proiettato negli USA con il nome di Thomas; ma
a Chicago, per essere accettato dai suoi nuovi compagni di studio, Thomas dovrà
subire un violento rituale di iniziazione alla “vita come lotta necessaria”, un
combattimento impari dove finirà massacrato tra lazzi brutali. Il desiderio di
rivalsa, in cui delira e “vede lupi transilvani leccare il sangue sparso del
suo aggressore”, lo farà iscrivere a una scuola di pugilato dove si scoprirà essere
the “Absolute Tiger” dal micidiale gancio sinistro che lo porterà a sfiorare il
titolo mondiale dei pesi medi … fino a quando tuttavia arriverà l’incontro
fatale che segnerà per lui la sconfitta, amplificata nell’onda visionaria di
Blake: “Thomas si sente schizzare fino al cielo nero e allo stesso tempo
sprofondare tra le onde del Danubio/_..._/[e per lui “Absolute tiger”] nel
traffico delle onde emerge, come ondata decisiva, il canto del poeta visionario
Blake: “Tyger, Tyger burning bright/ in the forests of the night”. Erede di
Blake, anche nel cuore di Thomas, c’è Dylan Thomas. La morte non avrà dominio,
ma Dylan Thomas muore a New York, e Tomaso decide di iscriversi a Lingue
Moderne Straniere per scrivere una tesi di laurea sulla poesia di Dylan Thomas.
Tomaso sente il bisogno di comporre versi che possano vincere la morte, “chiunque
può morire per l’azzeramento della felicità - scrive - ma se rinasce,
attraverso il caos urlante non può che inseguire forme di bellezza nuova,
celate nella materia d’acqua, di terra e di fuoco.” E veniamo alla giovinezza
di Tomaso, essa è ambientata a Milano, e irraggiata dall’incontro con le
avanguardie del ‘900, Breton in testa, vissuto da Tomaso come il terzo padre.
Riferimento cardine della sua duplice libertà, politica e artistica, è
l’appello che Trotzky e Breton lanciano al mondo dal Messico nel luglio del ’38
“per un’arte rivoluzionaria indipendente”; e in questo spirito nascono le edizioni
esoeditoriali, come quelle di Geiger (Torino ’67) per iniziativa del poeta
Adriano Spatola, o quelle del Periplo, attivata da Raffaele Perrotta per le
quali Tomaso pubblica il suo primo libro di poesie - un’editoria dunque “che
non cerca un mercato, ma aree di lettura, rapporti per una crescita morale ed estetica.”
In quell’epoca di fermento Tomaso felicemente coniuga la moderna convinzione
bretoniana della necessità che l’immaginazione sfugga a qualsiasi costrizione
con l’entusiasmo antico dei greci, del poeta che delira, come nella visione di
Platone nel Fedro; e sembra davvero che in quella cantina in via Morgagni detta
“Centro Suolo” il tempo borgesiano circolare debba eternare “los Archetipos y
los Esplendores” del memorabile sonetto “Everness” dove “todo està”, “tutto è
presente”.
Ma
addentriamoci un po' di più nel libro. L’attacco iniziale impatta sul lettore
in modo frontale, è l’incontro carnale con una figura primordiale ripugnante che
“pare uscire dal caos originario da sdentata megera in raffinata etera trasfigurata”.
E sarà questa misteriosa espressionistica Venere Porneia ad iniziare il
protagonista alla discesa dentro di sé, ad iniziarlo al viaggio, alla scrittura,
con una poderosa trasformazione magica da strega-megera ad aquila-drago: “il
suo volto di etera si dilata per zanne…/_..._/ Dalle sue spalle
si dipartono ali dorate…/_..._/ I suoi poderosi artigli mi sollevano da terra”.
In questa narrazione troppo forte è l’allusione al volo sciamanico che ci
riporta alle origini più arcaiche della poesia. E infatti anche in questa
narrazione la poesia è centrale per le ragioni che dirò: innanzitutto per il
tempo presente della narrazione; se il tempo della narrativa è il passato, e il
tempo della poesia (come indica Cesare Segre) è il presente, questa di Tomaso è
una narrazione soprattutto al presente, che qui e ora ci presentifica in presa
diretta gli eventi narrati con la immediatezza che è propria della poesia. Quanto
alla struttura del libro, è un macrotesto, dove i singoli brani, peraltro brevi
e con affondi nella prosa poetica, hanno la loro autonomia come accade per i
testi di poesia, e sono a detta dell’Autore “momenti della tua vita che ti
premono dentro”, peraltro raccordati tra loro da un’unica ma carsica narrazione.
Ma propria della poesia è soprattutto la potenza di trasfigurazione fantastica
nei mondi della magia, del mito, dell’onirico che sono sempre stati il cuore della
cifra stilistica di Tomaso Kemeny. E dunque non è un caso che il volo a dorso
dell’aquila-drago lo porti sopra le terre di Triora, terre di streghe, per
rintracciare il suo libraio “dal lobo d’oro”, “l’immortale custode dei giardini
della bellezza letteraria” cui il titolo del libro è dedicato. La sensibilità
poetica irradia dunque la narrazione; ma è altrettanto tangibile il piacere -
prima ancora che per iscritto, orale - di raccontare di Tomaso, il quale,
veniamo a sapere, segue la tradizione del nonno Gyula, del “raconteur”, figura che
si è tentati di associare all’antico cantore magiaro - (in ungherese) regoes -,
e che nel nome ricorda il poeta Gyula Juhasz dei primi decenni del ‘900 che
riprende le forme degli antichi canti magico-propiziatori ungheresi; il
piacere, dunque, di raccontare quell’aneddotica esemplare che non è banale
intrattenimento, ma disvelamento di una filosofia di vita, come la scoperta
dell’esistenza della bontà umana o l’oscillare al vento della bandiera della
compassione. Ma prima di iniziare la narrazione della sua vita, l’Autore si guarda
allo specchio dove coglie uno sguardo altro che lo fa rabbrividire e gli fa
dire - quasi fosse un’epigrafe al romanzo - il suo fondo tragico e il suo slancio
epico: “io porto nel sangue uno che piange e grida sfidando l’ignoto.” Sarà
forse anche per questo che per collocare le sue origini, Tomaso fa un affondo nel
tempo remoto della saga popolare e del mito cosmogonico: “Aveva ancora la bocca
sporca di latte, quando sognò che dalla congiunzione del Cielo e della Terra
nacque il fiume sacro, il Danubio, di cui si sentiva l’unico discendente.” Gonyu,
il paesino dove Tamàs ha trovato rifugio dalla guerra, bagna i piedi nel
Danubio. E in quella campagna lambita dal sacro fiume, “tempio naturale dei
magiari”, Tamàs vive momenti di aurea accensione del sentimento panico e di
inno alla gioia, “s’illumina nei campi arati e si perde sotto pannocchie d’oro
e si lascia cadere sulla terra, seme radicato nella Terra, per espandersi poi
oltre il Danubio in un inno alla gioia…” In questa prosa poetica la visionarietà
si accende dell’oro del grano nel cuore della terra, essendo l’oro un topos
del libro, le pannocchie d’oro come il lobo d’oro o come il mitico vello d’oro,
luce radiante del sole, energia espansiva di ogni forma di bellezza, sostanza sacra,
incorruttibile degli Dei. Il bambino e il poeta sono trascinati dalla “corrente
lenta ma indomabile nel regno maestoso del fiume. Regno dove realtà e sogno
confluiscono…” “È dai sogni, del resto - commenta la voce narrante - che sgorga
la gioia impetuosa che porta Tamàs a scambiare, come per gioco, il mondo scosso
dalla guerra con un paradiso terrestre. Come ha detto Tomaso Kemeny recentemente
in un’intervista, i sogni sono sempre giovani, perché il sogno è profezia, è vedere
oltre…E nel suo stile il registro onirico, onirico-surreale si salda all’epico,
come nel suo poema epico-onirico La Transilvania liberata ispirata al
Tasso. Proprio dell’eroe epico è il forte senso dell’onore, della dedizione, e “il
popolo veramente eroico è quello magiaro” (…) a soli tre anni a Tamàs è già
chiaro che “un bambino leale si dedica al Padre come al grande fiume sacro. E
si dedica al Danubio come al Padre.” Nella memoria del bambino il Padre è
l’eroe che oltrepassa il fiume perché, partito per liberare la Transilvania del
Nord, patria originaria dei magiari, e costretto a invadere la Russia, va
incontro alla “bella morte”: “cadde in una tempesta di neve, stringendo al
petto, al cuore, il fucile che la Patria gli aveva assegnato e che non cedette
al nemico”. E qui viene in mente il paradosso del Padre di cui parla lo
psicanalista junghiano Luigi Zoja, secondo il quale la figura del Padre vive
nel paradosso di essere soggettivamente nel giusto e oggettivamente vincente. Il
padre biologico di Tamàs morirà soggettivamente nel giusto ma soccomberà al
nemico. Altrettanto nel giusto agirà il padre adottivo di Tamàs, il pacifista
che sceglierà la fuga piuttosto che allinearsi al regime dittatoriale del
partito, preferendo “inerpicarsi per le strade oblique tracciate dalla sua
fedeltà alla propria disposizione morale” e che gli farà dire: “abbiamo perduto
tutto ma non l’onore”. E lo stesso destino ricalcherà infine il suo terzo
padre, Breton, l’artista senza maschera, il rivoluzionario in esilio; tutti
uomini di valore e grandezza spirituale ma vinti da un destino avverso. A
questi tre padri accosterei una quarta e più discussa figura: all’eroe caduto
al fronte, al pacifista in fuga, al rivoluzionario in esilio, aggiungerei
l’epico irriducibile, Ezra Pound, immer wieder (sempre e di nuovo)
pronto a rinascere fedele a sé stesso nel bene e nel male. Del resto davanti ai
saccheggi rituali dei vincitori, Tamàs non arretrerà, non si piegherà a
“cambiare la sua vita”, ad assumere “il ruolo di agnus dei”, assegnato
da secoli all’Ungheria. Alle fiamme della guerra, Tamàs risponderà con le
fiamme dell’ira.
Budapest. Il Parlamento
E veniamo a Edith, la Madre Bellissima (le cui iniziali sono scritte in
maiuscolo), sua Maestà la Regina, donna avvenente quanto battagliera, che al
pari di una Penelope che fronteggia i proci è capace di contrastare gli
occupanti sovietici con tono patrizio; figura afroditica, preziosa tanto per
gli abiti del suo guardaroba, quanto per i libri della sua biblioteca, è lei
all’origine del culto della bellezza, di quel fight for beauty che farà
di Tomaso per tutta la vita un fervente fedele d’amore. A riprova si legga questo
passaggio. “Nei pomeriggi Tamàs ascolta rapito la Madre che suona il pianoforte
nel salotto rapidamente sommerso da dirompenti figure melodiche. Il ragazzo si
sente inondato da iridescenti cascate sonore…” e prova “la nostalgia di
quell’infinito in espansione che riconosce come la vera dimora della sua anima.”
E sarà sempre la voce di Edith a incarnare l’anima magiara: “la donna,
sorridente, [infatti] per incoraggiare i suoi uomini, su un motivo di una
canzone popolare magiara, canta versi di Apollinaire…
Nello stile di Tomaso, tuttavia, la dimensione epica dei fatti narrati è vocata
a stemperarsi nel carattere tragicomico della narrazione, che mette in scena un
teatro dell’assurdo tendente al grottesco, che sfocia nel delirio di chi canticchia
e salmodia nel ciclone degli stupri di guerra. Il tragico in questo Autore
conosce l’invisibile sberleffo e la comicità delirante, spesso autoironica,
come quando a Chicago Thomas si sente dare del “pagliaccio degli urali” e “bamboccio
italiano”, e “invoca il karma di tutte le generazioni eroiche magiare” per
stendere l’avversario. Ma a conclusione del libro, come un Don Chisciotte al
termine delle sue picaresche peregrinazioni, Tomaso è “stanco di ripercorrere
quello che fu”, e chiede “un’immagine per la scena contemporanea”, ed è qui che
riappare l’enigmatica figura di Lobo d’Oro che lo incoraggia ad amare il
proprio destino, la sua vocazione di creatore di versi…fedele d’amore, nel
disprezzo di tutti gli oppressori. Come
si diceva all’inizio, in questo romanzo traspare, infine, in filigrana un’altra
trama, quella dei tanti grandi riferimenti letterari ispirati ai cardini
valoriali di libertà e bellezza, che si è voluto chiamare “i poeti del lobo
d’oro”, perché Tomaso, al pari del suo libraio, è anche lui “l’immortale
custode dei giardini della bellezza letteraria”, e quello che affiora in
superficie entro il Bildungsroman è il Kuenstlerroman, il romanzo
della sua formazione artistica. Una formazione che spazia dai classici dell’antichità
alle avanguardie del ‘900 con una vocazione internazionale di grande respiro: dagli
antichi poeti e pensatori come Omero e Platone, ai capisaldi della tradizione
italiana come Dante, Petrarca, Tasso e Foscolo; dal Bardo Shakespeare ai
grandi romantici inglesi come Blake, Yeats fino alle voci forti del primo ’900
come Pound e Dylan Thomas; da André Breton, padre del surrealismo a
Borges, maestro del realismo magico, senza obliare naturalmente la storia della
poesia ungherese da Endre Ady a Jozsef Attila con i quali Kemeny condivide le
sue radici magiare. In questa sua apertura, il libro sembra volerci donare una
speranza; perché se pure, come afferma il suo Autore, nella nostra epoca non c’è
più spazio per il nostos, questa sua narrazione ci invita a edificare la
nostra dimora sulle fondamenta della grande letteratura universale. [“Salotto
Galzio” del 19 gennaio 2021]