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domenica 14 marzo 2021

A TRE VOCI
Una parità ambigua

Marilisa D'Amico

Dis-parità certa
di Annalina Molteni
 
Come una conferma, ammesso che ce ne fosse bisogno, alla lettura di Una parità ambigua. Costituzione e diritti delle donne di Marilisa D’Amico si sono sovrapposti in questi giorni i dati Istat sull’occupazione: su 101mila lavoratori che hanno perso il posto di lavoro tra luglio e novembre 2020, 99mila sono donne. Una percentuale mostruosa, come se la pandemia avesse impresso un’accelerazione all’ineguaglianza di genere e le donne, come afferma l’autrice nell’ultimo capitolo interamente dedicato all’emergenza Covid, sembrano di nuovo sospinte indietro e, pensando al "dopo" (Fattore D, lo definisce), saranno le più esposte alle conseguenze che l’inevitabile crisi economica impatterà sul mercato del lavoro e rischierà di colpire tante lavoratrici, statisticamente la categoria più fragile.
Il lockdown ha fatto dunque venire a galla, anche esacerbandole, discriminazioni e parità negate, e non solo nello stretto ambito familiare dove le donne hanno sopportato il peso maggiore di una quotidianità difficile, dovendo conciliare cura dei figli e smart working, agendo da fattore di equilibrio e di mediazione in convivenze obbligate, sovente in spazi ristretti. Praticamente assenti negli apici istituzionali che gestiscono la crisi, minoritarie nei comitati scientifici nonostante, tanto per citare due semplici esempi, sia stato un medico donna dell’ospedale di Codogno, Annalisa Manara, a intuire che c’era qualcosa di diverso nella "sindrome influenzale" di quello che sarebbe diventato il Paziente Uno e l’équipe dello Spallanzani, che ha isolato la prima sequenza del 2019 n-Cov, sia diretta da una donna, Maria Rosaria Capobianchi. Ricordarlo non significa voler affermare una supremazia, che ci farebbe scadere nella sfida infantile del chi è più bravo, ma ribadire una parità di competenze, esempi più che banali di quanto sia sciocco, per non dire scioccamente tendenzioso, lo stereotipo della razionalità maschile contrapposta all’istintività femminile. Una distinzione che appartiene alle origini della nostra civiltà, nel mondo greco secondo il quale, sono parole di Eva Cantarella, le donne avevano una mente diversa da quella maschile (…) non possedevano il logos. La sola ragione che potevano possedere era la metis (…) un’intelligenza bassa, che non era astratta, non classificava, non costruiva categorie (…) si rivolgeva al caso singolo, al problema specifico. Un’intelligenza da onesta massaia, che acquisisce dalla sola pratica, mi verrebbe da dire.


Opera di Mario Bracigliano

È molto interessante il capitolo che D’Amico dedica all’origine delle discriminazioni di genere nel mondo classico, che danno ragione di molti stereotipi ancora attuali rimandandoli ai miti, alla tragedia, alla filosofia, ma sostanzialmente constatando, e ancora cita la Cantarella, che si tratta di ricavare elementi da pagine fatte di silenzio (…) la storia è scritta da uomini, parla di una società prevalentemente maschile ed è rivolta soprattutto a uomini. Vero, ma è innegabile quanto possa "parlare" il mito della curiosa (vizio tipicamente femminile!) Pandora che, aprendo il vaso, diventa la responsabile della propagazione dei mali nel mondo o il matricida Oreste di Eschilo non colpevole perché considerato figlio del solo padre, relegando la madre al ruolo di incubatrice, un utero in affitto, per usare una definizione attuale. Lo sguardo dell’autrice è molto ampio e molteplici sono gli ambiti nei quali la "parità ambigua" è indagata: Costituzione, politica, lavoro, libertà procreativa, maternità surrogata, aborto, violenza, ma vorrei ricordarne uno in particolare, il cui titolo è una domanda: Multiculturalismo pericoloso?
Per un paese di immigrazione recente come l’Italia, le risposte del Legislatore a molti problemi suscitati dal multiculturalismo, inteso come integrazione di culture diverse senza che nessuna rinunci alla propria identità, hanno alla base la domanda su quale deve essere il limite che le società occidentali non possono superare nel tollerare culture che non riconoscono i diritti delle donne oppure li riconoscono, ma in modo molto circoscritto. Fino a che punto è quindi accettabile un comportamento punibile per l’ordinamento del paese d’immigrazione in nome della cultural defense di matrice statunitense, che introduce la nozione di reato culturalmente motivato che assegna alla cultura il ruolo di movente della condotta criminale, e tra le evenienze che hanno la ricaduta più drammatica sulle donne stanno i matrimoni imposti e precoci e le mutilazioni genitali.
L’autrice constata la sostanziale impreparazione della società italiana ad assorbire l’impatto migratorio, complicato dalla presenza di culture diverse e spesso in antagonismo tra di loro, e punta il dito sulla scuola che dovrebbe essere luogo privilegiato di incontro e di integrazione e invece non ha ancora sviluppato programmi adeguati a una società multietnica, in assenza dei quali, oltre che di obbiettivi chiari, l’incontro fra culture diverse si sviluppa in modo poco armonico e spesso sfocia in veri e propri conflitti o in espressioni di razzismo. Pagine importanti queste, nelle quali è massima la tensione etica che pure percorre l’intero volume e che, unita agli excursus storici e culturali, lo rende interessante anche per un lettore comune che poco o nulla sa di Diritto, qual è chi scrive.
 
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Orientamento unidirezionale  
di Roberto Bramani Araldi


 
È di questi giorni il lancio del libro All in di Billie Jean King, ritenuta la più grande tennista del secolo scorso, vincitrice dei maggiori tornei mondiali, fondatrice della WTA - Women’s Tennis Association - tuttora l’associazione mondiale che regola il tennis femminile, ma, soprattutto e incredibilmente, nota per la “battaglia dei sessi”. Nel 1973, il 20 settembre, andò in scena nel Texas la sfida contro Bobby Riggs, cinquantacinquenne, tennista dal grande passato, il quale affermava che una donna non avrebbe mai potuto sconfiggere un uomo a tennis nel campo professionistico. L’evento, in pratica circense, venne propagandato con un battage pubblicitario eccezionale, come la “battaglia dei sessi”. Vinse la King che dichiarò: “Ho pensato che saremmo tornati indietro di 50 anni se non avessi vinto quella partita. Avrebbe fatto perdere l’autostima a tutte le donne”. E la King si batté e si batte ancora oggi per l’affermazione dei diritti delle donne nella Società. Il parallelismo sgorga quasi spontaneo approcciando la lettura del libro Una parità ambigua di Marilisa D’Amico, naturalmente non nei contenuti, bensì per l’antitesi con il sesso maschile che costituisce il filo conduttore dell’analisi che l’autrice compie nei vari settori che lo costituiscono. Stabilito fuori da ogni dubbio che la parità di genere non debba essere posta in discussione, ma deve rappresentare, qualora non conseguita, un punto d’arrivo incontestabile, è altrettanto certo che l’impegno per giungere al traguardo non deve sconfinare nell’instaurare un conflitto fra i sessi, quanto mai inopportuno e fautore di quelle divisioni e discriminazioni che si vorrebbero se non abolire integralmente, almeno limitare, per raggiungere una posizione di sostanziale equilibrio. Gli argomenti nei quali è suddivisa l’opera sono naturalmente esaminati a partire da questo asserto e sulle sue fondamenta è costruito l’edificio di approfondimento conseguente, che è indirizzato in una direzione univoca. Prendiamo il capitolo relativo alle “Donne e politica”, nel quale si constata che per retaggio culturale delle società a impronta quasi esclusivamente maschile, l’accesso alla politica della componente femminile era praticamente inesistente e da qui il processo evolutivo verso una sempre più marcata consapevolezza della necessità che le legislazioni dei Paesi si trasformassero in modo tale d’assicurare una congrua presenza femminile negli organismi istituzionali di qualsiasi livello. L’esame dei modelli, come sono catalogati dall’autrice, profonda e documentata nei tempi dell’emissione delle norme e nei contenuti, è affrontato con uno spirito critico di notevole finezza, seppure soffra della visione esclusiva che conduce inevitabilmente al concetto delle “quote rosa”. È chiaro che la battaglia per il superamento di comportamenti riconducibili ad atteggiamenti discriminanti dovesse essere condotta al superamento delle barriere sia manifeste, sia sotterranee, inerenti il concetto di donna solo dedita alla famiglia, quindi preclusa al mondo della politica ritenuto di pertinenza della sola componente maschile, tuttavia il ritenere che l’unico sistema - si badi bene non solo a livello Italia, bensì quasi generalizzato - sia quello di assicurare una presenza di genere prescindendo dalla capacità, diventa un percorso a senso inverso verso la ghettizzazione. Quando D’Amico afferma che “a Costituzione invariata è impossibile per il legislatore ordinario introdurre norme di qualsiasi tipo miranti a favorire l’accesso delle donne alla competizioni elettorali” si immette un pensiero discriminante, poiché il termine favorire ha in sé il senso di ledere una visione paritaria dove nessuno deve essere favorito, ma tutti devono partire con pari opportunità. Sarebbe come se in una gara atletica di mezzofondo si facessero partire i contendenti scaglionati, in funzione di una qualsivoglia valutazione: all’arrivo il risultato finale sarebbe inficiato, mentre invece la genuinità della competizione impone che vincano i più bravi. 



Del resto la selezione di una classe dirigente dovrebbe avvenire in funzione della capacità del singolo, sicuramente non appurabile a priori, né conferita a un genere: l’unico elemento che differenzia il genere umano è l’intelligenza, non può essere il colore della pelle, il taglio degli occhi oppure la sua conformazione fisica. Solo il suo livello intellettuale, la sua capacità di affrontare i problemi e di risolverli dovrebbe rendere un individuo eleggibile a una carica pubblica e non l’appartenenza a un genere, femminile o maschile che sia. Una donna dovrebbe sentirsi umiliata dal fatto di accedere a un ruolo solo perché le è stato riservato in quanto donna e non perché è brava, capace, intelligente. Considerazioni analoghe possono essere tratte sul capitolo “La donna e lavoro”. Il tema è trattato con dovizia di dettagli legislativi, con notevole precisione e serietà: il corso degli eventi legislativi è ben tracciato, tanto da consentire al lettore di seguire senza alcuna difficoltà l’evolversi delle normative. A questo indubbio merito si unisce anche la visione critica nei riguardi del legislatore per la lentezza nel varare norme atte a favorire l’elemento femminile, che continua a essere pesantemente svantaggiato, soprattutto nelle funzioni direttive. Si citano i Consigli d’Amministrazione e i Collegi Sindacali delle Aziende, nei quali è diventata obbligatoria la presenza femminile - o più precisamente del genere meno rappresentato - alla quale è riservato un terzo dei posti come rimedio a una preclusione culturale che impediva di fatto l’accesso ai ruoli apicali, ma la patologia non è stata ancora debellata e il rinnovamento culturale non si produrrà o si produrrà molto tardi. Tutto l’argomento è pervaso da una visione pessimistica e comunque da lotta dei sessi, “il delicato equilibrio che il legislatore italiano ha compreso e sta provando a realizzare” avviene faticosamente, oppure “che della mera enunciazione dell’eguaglianza formale non corrisponde a parità effettiva il legislatore si è finalmente reso conto”. Infine, da quando le donne hanno fatto ingresso nei consigli di amministrazione delle società si è alzato il livello qualitativo dei profili e si è più attenti a merito e competenze: pareri rispettabili, ma che avrebbero necessità di verifiche approfondite, mentre così possono avere valenza solo come opinione. In sintesi un lavoro perfettamente svolto dal punto di vista documentale nel settore giuridico, apprezzabile, seppur discutibile in alcuni passaggi, per le giuste istanze delle pari opportunità dei sessi. Perché discutibile? Ma è evidente: occorre battersi per superare le diseguaglianze, non per creare favoritismi in sostituzione delle medesime: in questo modo si sviluppano mondi antitetici che, invece, dovrebbero integrarsi, non perfettamente, sarebbe utopico, bensì nel modo migliore compatibile con la fattibilità umana. Alessandro D’Avenia nel suo L’appello afferma: “La donna spesso è usata come oggetto del desiderio per l’occhio che la vuole possedere e così facendo le toglie vita. Finché l’occhio non guarisce da questa volontà di dominio non riusciremo più a vedere le cose e a sentirne il respiro. Riavremo il mondo solo quando smetteremo di volerlo dominare.” Forse questa visione si attaglia come un abito confezionato su misura alla Parità ambigua di Marilisa D’Amico?

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Parità vantaggiosa?
di Gabriele Scaramuzza  

Vinicio Verzieri
"Prerogativa del sentimento" 2021

Di grande interesse, e non solo per chi vi è direttamente coinvolto, è il recente Una parità ambigua di Marilisa D’Amico. Di suo conoscevo solo I diritti annegati, scritto con Cristina Cattaneo, su un problema tra i più coinvolgenti oggi, quello dei “morti senza nome del Mediterraneo” (così suona il sottotitolo). Ma di recente ho anche assistito al suo intervento alla Casa della Cultura per la presentazione dello sconvolgente Destini di donne nella Germania nazionalsocialista di Vincenzo De Lucia (pure recensito pochi giorni fa su “Odissea” da Annalina Molteni).
Considero Una parità ambigua uno degli esiti più convincenti del lungo percorso intrapreso dalle donne per chiarire a sé stesse, e denunciare, il proprio modo di essere nella storia. Una condizione che ha radici lontane ma non è oggi estinta, e che D’Amico ripercorre in modo avvincente, rifacendosi per l’antichità anche agli studi di Eva Cantarella. Il libro è ricco, insegue il tema della parità nei suoi più svariati risvolti, da ampiamente culturali a specialistici. Ed è condivisibile l’idea della donna che vi traspare: come persona, in senso giuridico e ampiamente umano; l’idea in base alla quale si può parlare di “parità ambigua”, e si può operare una rivendicazione della dignità delle donne, in qualsiasi contesto.
Personalmente mi ha fatto piacere ritrovare su queste pagine la sociologa Bianca Beccalli, “la più importante studiosa di problemi di genere” (p. 13), mia compagna di università, mai più incontrata dopo gli anni pavesi. Mi hanno coinvolto poi le righe (a p. 239) dedicate a Liliana Segre e ai vergognosi e insulti antisemiti rivolti soprattutto a lei donna. La complessità del testo si evince poi già dall’intervento di Annalina Molteni e di Roberto Bramani Araldi. E d’altronde non è il caso qui di offrirne alcuna rassegna del testo: la nostra presentazione non può valere che come invito alla lettura, con la speranza che almeno stimoli qualche curiosità. 



Venendo a me, per motivare il mio interesse verso Una parità ambigua, e per trovare conferme alle mie prime impressioni di lettura, ho ripreso un articolo scritto tempo fa, su invito di Chiara Zamboni: Anni ’60 (per la rivista on-line “Diotima”, settembre 2011). Una parità ambigua attualizza e arricchisce un discorso che per me ha preso l’avvio in anni ormai lontani.
Tuttora mi indispone il discredito che da più parti si cerca di gettare sugli anni Sessanta; le ragioni maturate in essi hanno agito in profondità, producendo effetti a loro modo liberatori; ne resta qualche nostalgia persino. Perché avevano finalmente voce realtà che toccavano da vicino, e in cui aveva grande spazio la realtà femminile, incontri in essa che “lasciano il segno”. Realtà prima inibite, censurate, lasciate macerare nel mondo di cose inespresse, e che tanto più opprimono quanto più sono private della possibilità di dirsi. 
Ci sono voluti anni prima che ci si sentisse in diritto di prender la parola; tanto di più da parte delle donne. Prender la parola, letteralmente: mi accorgo ora di quanto l’espressione sia pertinente. La pressione dell’ambiente, remore interiori, nocivi pudori, si opponevano a che si dessero nomi a stati d’animo inconfessabili, ma che trovavano vie più impervie per esprimersi; quasi fosse un’illecita forzatura sulle cose riferir loro dei termini. Era diffusa una sorta di ritegno a sbrigarsela con tanta riprovevole leggerezza (le parole, appunto), con le situazioni che si attraversavano: una prevaricazione inosabile in certi ambienti, quasi le parole usurpassero la realtà, e le cose semplicemente non le reggessero. C’è voluto molto tempo a sentirsi autorizzati a dire, a conquistarsi anzi il diritto/dovere di dire.   
Questo riguarda in prima linea esperienze personali, certo; in nessun caso ci si può presumere portavoce di altri. Eppure già allora si intuiva che altri si riconoscevano in quanto andavamo maturando. Lo spostarsi dell’accento sulla soggettività era un dato culturale significativo per chi come noi, si riconosceva in una certa versione della fenomenologia, quella filtrata da Enzo Paci o, sullo sfondo allora, da Jean-Paul Sartre. E nello spazio della soggettività avrebbero trovato posto, in primo luogo, il tema della soggettività femminile, ma poi anche della soggettività operaia (per me il nome da fare qui è quello di Renato Rozzi) e, in seguito della soggettività maschile, su cui ha posto l’accento Duccio Demetrio (di cui ho prontamente fatto mia la distinzione tra “uomo” e “maschio”). Nel nostro mondo maschile giocavano un grande ruolo amici, padre, conoscenze, fratelli, “maestri”. Ma ci aveva parte tutt’altro che trascurabile (occorre dirlo?) il variegato mondo femminile - amicizie, sorelle, figlie, madri, semplici conoscenze, amori - con cui la forza delle cose induceva a confrontarsi, e in modi e con esiti non di poco conto, in positivo o in negativo. Era solo ipocrisia, diffusa, il vivere “l’altra metà del cielo” sotto il segno di una scontata irrilevanza, o di una garantita impermeabilità - quasi si trattasse di un ambito solo privato e casuale, scisso dal resto della vita.  



Colpiva certa ambivalenza: l’esibito understatement (quando non sottovalutazione delle doti “spirituali”, o pratiche, o altro che fossero) della donna, e l’essere di fatto poi non di rado pesantemente condizionati dal mondo femminile con cui si aveva a che fare. Diffuso (e tutt’altro che scomparso) era il valutarne i ruoli secondo moduli prefabbricati, a senso unico: quante volte si attribuivano alle donne futili comportamenti, ritenuti tipicamente femminili, ma chiaramente non meno attivi (e in modi non più lievi) nel mondo maschile. Anche se certo non mancava per contro nella propria cerchia chi fosse per sua natura incline a trovare nelle donne (e talvolta più che negli amici maschi) interlocutrici aperte e sensibili, su un piano di parità; quando non a cercarvi vie di rifugio e di salvezza -incongruamente, o forse no, a seconda dei casi (“fai troppo conto dell’aiuto altrui, in specie di quello delle donne”, così il sacerdote redarguisce Josef K. in Il Processo).   
Più a portata di mano nella comune esperienza maschile erano le differenze interne al mondo femminile, più che non la differenza di genere, che sfumava in un orizzonte tutto sommato enigmatico; quando non si limitava a genericità fisio-psicologiche, o in tipi ideali astratti presto costretti a ridimensionarsi nei fatti. Figure differenti, tipologie precostituite e conflittuali, mitologie inconsapevoli dominavano l’esperienza del femminile. Un campionario dei tipi più incombenti era disponibile nel lessico corrente, confermato magari da figure vive nel mondo del cinema, di letture frequentate, del teatro musicale, di immagini incombenti nel nostro quotidiano, nella pubblicità… E non si potrà certo affermare di aver mai incontrato donne in carne e ossa che corrispondessero a tipi invalsi; che agivano come comodi pregiudizi, o come scontato criterio di orientamento in un contesto sicuramente complesso. E tutto questo in un mondo che imponeva (e impone) con sotterranea, ma inaudita, violenza, modelli di femminilità, di affettività, di rapporti tra i sessi, univoci, e tali da generare più disagio e infelicità di quanto si fosse disposti ad ammettere. Non credo che tutto questo sia scomparso: il cap. 8, ma non solo, di Una parità ambigua lo testimonia ampiamente. Sono tuttora infastidito dalla pubblicità, trovo irritante l’immagine artefatta della donna che vi appare.   


Kafka di Max H. Sauvage

Non a caso già da quegli anni si era portati a leggere con passione interessata libri “femministi”; non molti peraltro, devo ammettere, nel mio caso. La prima lettura, di quelle che non lasciano indifferenti, è stata Il secondo sesso; Simone de Beauvoir per prima dava risalto a quanto si poteva sospettare: cioè che l’immagine del mondo femminile incombente nella vita non fosse un dato di natura, ma costruito nel tempo della storia. Ci si rendeva conto delle disparità di destino createsi in un lungo percorso culturale, fatto di privilegi storico-sociali acquisiti. Si avevano sotto gli occhi già nella cerchia più prossima malesseri che inquietavano il mondo femminile, e inevitabilmente si ripercuotevano nel mondo maschile circostante; una prima liberazione stava nelle parole che finalmente sentivamo pronunciare. Parole oggi consumate dal tempo, scontate per generazioni successive. A torto date per ovvie: le pagine di D’Amico testimoniano (in contesto ovviamente diverso) anche questo. Qualcosa (fatte salve le innegabili differenze) riguardava anche il modello di maschio che dominava: e le pressanti richieste di adeguarvisi. Per questo ha fatto epoca nelle mie letture Maschio per obbligo di Carla Ravaioli (del 1973), che non a caso prendeva spunto esplicitamente dalla Lettera al padre. La lettura poi di Antonia Pozzi mi ha reso particolarmente evidente con quanta violenza “dogmatica” fossero costruiti i ruoli, anche in mondi che si proclamavano esenti da ogni forma di assolutizzazione indebita.
Vale tuttora l’esortazione di Kafka a Janouch: sostituire alla reazione scomposta la “comprensione attiva”, la reazione intelligente; passare dal lamento improduttivo alla testimonianza di situazioni esistenziali scottanti, e “oggettive”. Sperando che altri si rendano conto, si interroghino e prendano le distanze. Tutto questo può essere scontato, ma testimonia le radici del mio apprezzamento del libro di Marilisa D’Amico. 

 
La copertina del libro
 
 
Marilisa D’Amico
Una parità ambigua.
Costituzione e diritti delle donne
Raffaello Cortina Editore 2020
Pagg. 345. € 27,00.