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mercoledì 21 aprile 2021

LA CRISI DEL PENSIERO INDUSTRIALE
Roberto Bramani Araldi


La rivoluzione industriale si fa in genere risalire alla seconda metà del Settecento in Gran Bretagna, dove si erano generate le condizioni tecnologiche, ambientali ed energetiche idonee per lo stravolgimento progressivo dell’economia che passava, da agricola e circoscritta, alla produzione di beni in quantità elevata e a prezzi più contenuti, con l’innesco di fenomeni migratori e il mutamento non solo economico, bensì degli stili di vita.
Gradualmente il fenomeno si estese agli altri Paesi Europei arrivando, alfine, anche in Italia intorno alla seconda metà dell’Ottocento per un naturale ritardo connesso sia alla frammentazione politica rappresentata dagli stati e staterelli locali, sia alla successiva formazione unitaria del Paese, che soffriva di differenze economiche-sociali di enorme entità.
Rimaneva il fatto che la scelta industriale era favorita in Italia dall’intervento statale e dai finanziamenti delle grandi banche, dato che le nuove aziende produttive molto spesso non possedevano la capacità di autofinanziarsi. In questo contesto eruttivo e stimolante che permetteva, grazie alla fabbricazione di serie, di accumulare più facilmente ricchezze, rispetto a un mondo ancorato quasi esclusivamente alle attività agricole, nasceva il “pensiero industriale”.
I vari artefici del cambiamento, che progettavano di volta in volta di immettere sul mercato un manufatto, avevano anche la volontà di connaturare con un elevato livello qualitativo il prodotto, consapevoli della necessità di superare la concorrenza e di assicurarsi in tal modo una capacità di recepimento superiore da parte del consumatore.



Il fattore economico dominante era impostato sull’equazione: più vendite, più profitto. Ma non solo: era paritetico l’orgoglio di essere l’autore, spesso l’inventore del prodotto, di far identificare con il proprio nome l’azienda che lo produceva, che si espandeva, di far permeare l’atmosfera dell’immagine di alto profilo che il suo creato aveva generato. Gli esempi del genio italico di quel periodo, che va cavallo fra la fine Ottocento e i primi del Novecento, sono molteplici: c’è solo l’imbarazzo di scegliere, fra il bosco imprenditoriale di allora, gli alberi più rigogliosi. Vogliamo cominciare dal settore dell’automobile?
Lancia? Vincenzo Lancia, pilota che miete successi al volante di vetture Fiat, che decide nel 1906 di costituire la Società - come la chiama, indoviniamo un po’? - Lancia & C. - con quattro soldi e un socio - e dopo pochi anni, ampliando prima e spostando poi lo stabilimento, produce auto di grande prestigio e di ancor maggiore immagine. Nel periodo bellico trasforma l’indirizzo aziendale con la produzione di autocarri militari e di autoblindo, salvo, tornare alle auto, alle sue brillanti e competitive vetture, dalla Kappa alla Theta alla Lambda all’Aprilia. Ricerca, sviluppo, qualità.
Lasciamo l’auto e andiamo a trovare Olivetti, Camillo Olivetti e poi Adriano?
1908 anno di fondazione della Ing. C. Olivetti & C., prima fabbrica nazionale macchine per scrivere, ubicazione nella campagna del Canavese, presso Ivrea: un cammino travolgente con il figlio Adriano che prosegue dal 1932 in poi l’attività del padre con la famosa Divisumma, la prima calcolatrice scrivente in grado di eseguire le quattro operazioni, e la altrettanto storica macchina da scrivere Lettera 22. Prodotti di enorme successo assistiti da un livello qualitativo eccezionale che univano l’innovazione sistematica alla cura dei dettagli con il fine di primeggiare dinanzi alla concorrenza.



Si può continuare con l’isola di Sesto San Giovanni, a un passo da Milano, con le Acciaierie e Ferriere Lombarde Falk. Fondata anch’essa nel 1906 da Giorgio Enrico Falk, il quale ha l’intuizione di posizionare uno stabilimento siderurgico non nelle valli bergamasche dove erano per lo più concentrati, bensì alle porte di una grande città dove era più facilmente reperibile la materia prima, il rottame di ferro, e dove la logistica era più vantaggiosa per rete ferroviaria e stradale. Grande visione industriale, migliaia di dipendenti, costruzione del villaggio Falk per favorire l’insediamento dei lavoratori provenienti da lontano e per fidelizzare l’appartenenza alla Società.
Un altro campo dove l’inventiva e l’orgoglio di fare non un prodotto”, ma il prodotto”, fu il settore alimentare, come il liquoristico e il dolciario.
Motta, con Angelo Motta nel 1919, Alemagna, con Gioacchino Alemagna nel 1921, entrambi nel milanese, donarono i loro nomi a prodotti ormai immortali nella tradizione.
Martini & Rossi - con Alessandro Martini e Luigi Rossi -, Cinzano - con Carlo Stefano e Giovanni Cinzano - , Campari - con Gaspare e Davide Campari -: marchi atti a caratterizzare prodotti particolari di altissimo gradimento, noti e affermati in ogni angolo del mondo, creati a metà Settecento - Cinzano - e a metà Ottocento - Martini e Campari - ebbero tutti alle spalle imprenditori intelligenti, lungimiranti e consapevoli che la fortuna delle loro aziende e delle loro creazioni fosse intimamente connessa alla complessità di una valutazione industriale onnicomprensiva, nella quale ogni componente sarebbe stato fondamentale per  il conseguimento del successo.



Ebbene, questa lunga carrellata di esiti esaltanti, largamente incompleta, protratti a lungo nel tempo, ebbero un minimo comun denominatore rappresentato dalla consapevolezza che il loro “pensiero industriale” avrebbe resistito perché consolidato nella corretta gestione del business.
Non era vero; l’anelito, che aveva attraversato trasversalmente tanti indirizzi merceologici diversi accumunati da una visione a lungo respiro per la loro gestione, stava scomparendo inghiottito da un realismo miope e ottuso.
Alla guida delle aziende che assommano fatturati importanti - non solo le multinazionali, ma anche società di media dimensione - si è ormai installata una generazione direzionale rappresentata da finanzieri che tutto posseggono fuorché un obbiettivo di gestione che rispetti i canoni che informavano un passato neppure tanto remoto.
L’unico fattore considerato è il profitto, quanto più elevato possibile, senza minimamente valutare le componenti che devono determinarlo.
È naturale che un’azienda debba fare profitto, se così non fosse verrebbe posta a repentaglio la sua stessa esistenza, buttando sul lastrico proprietà e lavoratori in pochissimo tempo, ma non esiste solo questo elemento.
Quando si pontifica affermando che la qualità è un costo e bisogna mantenerla entro rigidi parametri di spesa, si commette un errore grossolano che prima o poi si paga: la qualità non è un costo è un investimento dal quale non si può prescindere se si vuole mantenere una posizione di vertice nel settore merceologico nel quale si opera.



Questo atteggiamento - ripeto miope - trae spunto anche dalla politica delle retribuzioni dei vertici aziendali: se il dirigente ics ha una parte, anche consistente, delle sue prebende che dipende da obiettivi collegati in modo precipuo alla sua direzione, cercherà di salvaguardarle, ignorando l’eventuale danno provocato alle direzioni limitrofe.
Per fare un esempio: se la direzione risorse umane ha come meta la riduzione dei costi del personale, quindi la diminuzione dei dipendenti diretti, decide di terziarizzare una funzione indispensabile solo per abbassare il numero complessivo, otterrà simultaneamente una serie impressionante di risultati negativi per l’azienda, riassumibili in:
1. un aumento dei costi complessivi perché il terzista non è un ente benefico e deve guadagnare;
2. un abbassamento della qualità del servizio non sottoposto alle regole societarie e suscettibile solo di controlli successivi che saranno portatori d’immagini negative all’esterno dato che gli eventuali interventi correttivi saranno ritardati;
3. uno scarico di costi sulle direzioni produttive determinato dallo scadimento del servizio;
4. un incremento del clima conflittuale interno.


Adriano Olivetti

In una sana gestione è evidente che deve vigere il motto ogni direzione deve essere simultaneamente fornitore e cliente della direzione confinante, la quale è di fatto la sua interfaccia”, per cui il sistema si autocontrolla in modo automatico, inoltre l’incentivazione salariale deve essere esclusivamente orientata sui risultati complessivi.
Per fortuna l’impostazione velleitaria della scomparsa del pensiero industriale non è ancora generalizzata, ma è certamente maggioritaria nelle società di una certa dimensione. C’è da augurarsi che arrivi il principe azzurro a svegliare con un bacio la “Bella addormentata nel bosco”? Che la tendenza possa invertirsi e certi valori pioneristici possano riprendere quota in tempi rapidi? Tutto è lecito per l’immaginazione, pure fantasticare sul mondo delle favole.