Per i greci (agathòs) ἀγαθός, che è un concreto, significò: buono, onesto, eccellente,
abile, propizio, ragguardevole, di buona nascita,
mentre il neutro τὸἀγαθόν indicò il
bene, che è un astratto, a seguito di questo ragionamento: in chi è
buono, si riscontra colui che fa il bene e, per dire meglio, si rinviene: il bene; anche i
latini adottarono lo stesso percorso logico, per cui, per esempio, da pulcher
(colui che è bello) ricavarono il bello/la bellezza: pulchrum, così da verus
(ciò che è vero/il veridico) si ebbe verum: la verità. Inoltre,
dall’astratto τὸἀγαθόνfu generato
il concreto (tà agathà) τὰἀγαθά (le cose buone):
beni, ricchezze, le buone qualità. La perifrasi che portò a
determinare i significati di ἀγαθός fu la seguente: è colui che, quando si genera la crescita
iniziale del grembo, fa un’ottima scelta: lega l’essere in
divenire alla madre, determinandone la formazione e la creazione.
Logicamente, si tratta di una fictio, in quanto il pastore attribuisce
ad un benevolo saggio quella decisione. Poi, per definire il bene
assoluto ci si avvalse di: (tò autoagathon) τὸαὐτοάγαθον, che è il bene di per sé, in sé, che si realizza nel processo di
riproduzione. Il pastore greco asserisce: si rinviene il più grande bene in
ciò che si trova dentro il tendere che genera la crescita. Il tendere
che genera la crescita significa l’attività riproduttiva, ma anche quella
del pastore e, comunque, ogni fatica umana produttiva.
I latini
tradussero ἀγαθόςbonus e τὸἀγαθόνbonum. Con bonus
dissero: si riscontra incolui che ha operato il legame (la
simbiosi) tra la madre e la creatura, per cui si tratta di una persona: buona,
favorevole, benigna, onesta, chegiova.Con
bonum indicarono il bene in sé posseduto dal buono. Per
gli italici l’0mologo di bonum divenne il bene nel senso di
affetto per quella creatura e di possesso di qualcosa d’importante. Il
bene, nella metafora del grembo, è ciò che nasce, è per chi nasce.
L’aggettivo (kakòs)
κακός: brutto, sordido, malevolo, cattivo è colui che,
nel processo di riproduzione, stringe, attanaglia, durante il travaglio, la creatura
innocente che deve nascere, determinando i dolori del parto e tutte le
conseguenze di un cattivo parto. La perifrasi potrebbe tradursi: dal
generare (dal far nascere), è colui chelega (stringendo in
modo asfissiante la creatura inerme e innocente). Un’altra espansione logica per
indicare il male, dedotta da τὸκακόν, fu (kakotes) κακότης: cattiveria,
male, codardia, anche: sventura, sciagura, danno,
miseria. Da κακ(ό)τ(ης) fu desunto
in italiano: cattivo, come colui che causa danni e sventure, mentre,
in alcuni dialetti del mio territorio, fu dedotta la cattiva, che indica
la vedova, come la sventurata. Nella cultura meridionale la
vedovanza rappresentava la sventura somma, condizione espressa da Omero,
quando Andromaca, paventando la morte del marito Ettore, evoca ciò che si
abbatterà su di lei e sul figlio Astianatte. Incidentalmente, vorrei ricordare
che nel mio dialetto c’è l’espressione: “A coria meia” (sorte sventurata!), che
rimanda all’avverbio χωρίς: separatamente,
in disparte, a sua volta dedotto da χήρα: vedova. Tra i mali:
(tà kakà) τὰκακά fu annoverato (nosos) νόσος: malattia,
morbo, peste, flagello (da ricordare: nosocomio).
Il pastore greco individua la malattia come metafora del travaglio e dei primi
giorni del puerperio, per cui la perifrasi suona così: è ciò che si
riscontra dentro il travaglio. Non è il travaglio la malattia, ma è
assimilabile alla condizione della partoriente. I latini
tradussero κακόςmalus: cattivo, malvagio, deforme, brutto,
ricalcando la stessa perifrasi di κακός: è colui
che serra la creatura che sta per nascere (alla lettera: colui che lega,
facendo ilrimanere dallo sciogliere, anche nel senso che non fa
nascere). Il malus (malo) ha in sé il male e arreca i mali, è
malevolo, è maligno. Per gli italici un’espansione logica di male
generò malato, che è colui che è provato dal male, meglio: ècoluichelega il male, ha dentro di sé il male. Poi da malato
si ebbe malatia e, quindi, malattia.
A questo punto
bisogna ricordare che nella civiltà greca, latina e italica vi fu una radicata credenza:
il malocchio. I greci individuarono nel mago, che rimanda alla
radice μαγdi μάσσω,colui
che è apportatore di (manganeuma) μαγ- γάνευμα: incanto, incantesimo, sortilegio, magia, opere
del mago, che si potevano vincere con isegni apotropaici o con l’azione
di un altro mago. I latini lo identificarono nel fascinator, che è colui
che opera il fascinum: malia, incantesimo. Gli italici del
Meridione dedussero da mago magaro e magaria e da fascino
l’affascino. I latini avevano coniato malitia: malvagità,
astuzia, frode, gli italici: malia, malizia e malizioso
(come contrario di ingenuo), ammaliare, maliarda ecc.
Pertanto, la malia è ciò che si genera dal malus, che è la
capacità di legare/bloccare (il rimanere dallo sciogliere) i processi di
natura, che sono di per sé positivi. Da quanto detto, si potrebbe affermare che
il male è causato essenzialmente dal cattivo, che innesca meccanismi
perversi nei processi di natura, che sono sempre tendenti al bene. Si è
affrontato il processo formativo di bene e male per introdurre il
concetto di moralità nel mondo antico, nel suo originarsi e nella sua
stratificazione culturale. I greci
coniarono (etho) ἔθω: sono solito,
sono abituato, mediante questa semplice perifrasi: è ciò che discende
dal crescere. I processi di natura, che sono buoni, belli, giusti, hanno le
sequenze abituali, solite: crescere, legare, mancare.
Poi da questo verbo fu dedotto il deverbale: (ethos) ἔθοςἔθους: abito,
costume, usanza, abitudine, consuetudine, istituzione,
concetti desunti da questa perifrasi: dal crescere si genera il legare (come
operosità) che determina il mancare,come graduale formazione
dell’essere e come acquisizione di ciò di cui si ha bisogno.Quandoil
flusso gravidico cresceavviene il legame, che, nel processo formativo
dell’essere, rimanda alla bolla (veste) che avvolge la creatura. La
bolla assunse tanti significati positivi: la sacralità e l’inviolabilità
del grembo, la protezione e la difesa della creatura, ma anche la
fatica per realizzare ciò che manca.Quindi il costume, da
portare sempre, diventa un’usanza (buona), ma anche un’abitudine. Poi, da ἔθος: abito fu
dedotto (etico) ἐθικός: l’abituale, che, verosimilmente, richiamò il dovere
quotidiano. Per il pastore greco, l’abituale divenne il suo duro lavoro,
che aveva definitoτὸδέον: il dovere (quotidiano), quello che lo spingeva, per necessità e
bisogno, a procurarsi l’indispensabile. Pertanto, presumibilmente, il dovere
acquisì il significato di etico, come bene da perseguire
sempre e comunque.
I latini
coniarono mos moris: costume, abitudine, usanza, modo
di vivere. La perifrasi dovrebbe essere la seguente: nel processo formativo,
avviene abitualmente questo: genera il rimanere nel grembo il legare,
cui consegue la formazione di ciò che manca, che, in questo caso, si tratta del
costume. Pertanto, il costume, che non solo è ciò che abitualmente
porto, ma è anche ciò che abitualmente faccio, divenne (buon) modo di vivere.
Anche per i latini ciò che faccio tutti i giorni (l’abituale, ma anche
il dovere come officium) diventa il bene. I latini, inoltre, individuarono
nei mores maiorum, nelle usanze degli antenati, nel loro modo di vivere
(quello che fu, quello che non c’è più, quello di cui si ha bisogno: o
tempora, o mores!) le buone costumanze, le buone abitudini. I latini
da mos moris dedussero l’aggettivo morale, che indica il modo
di comportarsi dicolui che si attiene ai costumi e che, quindi, li
rispetta. Inoltre, chi
ha comportamenti morali è onesto. Onestà e moralità sono
tutt’uno. I greci si avvalsero di χρηστός: buono (da
collegare a χρή: è necessario), che è colui che, versando
nel bisogno, lavora duramente, fatica per guadagnarsi il necessario; usarono
anche καλοκἀγαθός, che non è da tradurre solamente buono e bello,
ma nel senso di χρηστός. I latini tradussero honestus: chi ha
credito, dignitoso, decoroso, ma assegnarono a honestum questi
significati: moralità, virtù. Gli italici
con la morale, che è ciò che si evince dai comportamenti di chi vive in
modo conforme ai mores,indicarono anche l’insieme (i
dieci comandamenti) di norme e di comportamenti, che sono buoni, che
sono del buono, dell’onesto, del giusto. Inoltre, con la morale della favola
si intende quanto di buono si deduce da una vicenda paradigmatica. Con fare la
morale si indica il voler disapprovare i comportamenti scorretti. Inoltre, ciò
che è morale attiene ad una sfera diversa da ciò che è fisico, per cui il
morale (su con il morale!) indica uno stato d’animo di benessere intimo e
spirituale, anche se ci sono le sofferenze morali, quelle che attengono all’animo,
allo spirituale che è nell’uomo. Per
concludere, le civiltà agro-pastorali costituirono, adeguandosi a ciò che
avviene in natura, che è la sfera delnecessario, un mondo di
valori, basato sul giusto e sul buono, che è pervenuto sino a noi.