LA CONFERENZA SUL FUTURO DELL’EUROPA di Alfonso
Gianni
1. Dopo una lunga attesa e
l’ulteriore ritardo determinato dall’esplodere della pandemia, finalmente il 10
marzo scorso era stato dato il segnale di partenza per una Conferenza
sull’Europa sulla base di una dichiarazione comune dei presidenti del
Parlamento europeo e del Consiglio europeo, David Sassoli e Antonio Costa, e
della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. I prodromi
della Conferenza vanno ricercati nel tentativo di Valery Giscard d’Estaing,
nella sua qualità di presidente della Convenzione europea (2002-2003), di
elaborare un progetto di Costituzione europea, nella forma di un Trattato, che
venne però affossato dal no nei referendum tenutisi in Francia e nei Paesi
Bassi. In seguito si giunse alla firma del Trattato di Lisbona (2007) che,
distinguendo con puntualità le competenze fra Stati membri e la Ue, di fatto si
frapponeva a una possibile direzione verso un’unione di tipo federale. L’iniziativa della Conferenza ha, in tempi più recenti,
ripreso le mosse sempre dalla sponda francese. Emmanuel Macron si è molto
attivato in questo senso anche perché la Conferenza dovrebbe concludersi
proprio quando la presidenza della Ue verrà assunta dalla Francia. Le modalità
di discussione presentano effettivamente delle novità. Forse si è tratto
insegnamento dal flop del Trattato che adotta una Costituzione per L’Europa –
questa era la denominazione ufficiale del progetto costituzionale liquidato dai
referendum prima ricordati – che era stato confezionato da esperti, senza alcun
coinvolgimento né politico né emotivo da parte delle popolazioni europee. Oggi
lo svolgimento della Conferenza prevede invece un tentativo di coinvolgimento
continuo, particolarmente ricercato tra i giovani, in modo che ogni cittadina e
ogni cittadino potranno esprimere opinioni e proposte attraverso una
piattaforma digitale multilingue interattiva (“Cofe”). Mentre un meccanismo di feedback
garantirà che le idee formulate possano diventare raccomandazioni concrete per
le future azioni della Ue. Le premesse, soprattutto grazie alle innovazioni
tecnologiche, sembrano dunque essere accattivanti. Ma se dalle modalità si sale
ai possibili contenuti della Conferenza il quadro cambia di colore e di
parecchio. Basta avere seguito il dibattito che da mesi oramai si sta
sviluppando attorno a cosa succederà quando e se la pandemia verrà piegata o
almeno contenuta in limiti controllabili, e quindi termineranno gli
allentamenti alle maglie rigoriste dei trattati europei, per comprendere che il
nocciolo della questione non riguarda soltanto il quando e il come rientrerà in
funzione il Patto di stabilità e crescita, se le sue regole verranno modificate
o reintegrate nella loro interezza, ma la stessa possibilità o meno di
modificare il Trattato di Maastricht. La polemica sull’argomento è aperta. A
margine del G20 di Venezia il ministro delle finanze tedesco, Olaf Scholz della
Spd, in una intervista a la Repubblica del 9 luglio, ha sostenuto che le
regole esistenti «hanno dimostrato di avere tutta la flessibilità necessaria per
affrontare la situazione», ragione per cui non vi sarebbe motivo di mettere
mano innovativa al Patto di stabilità e crescita. Ma sulla necessità di
rivedere il Trattato di Maastricht si sono espresse voci autorevoli. Non mi
riferisco solo a noti economisti o esponenti politici, ma agli stessi
responsabili delle istituzioni europee. Il Presidente del Parlamento europeo
David Sassoli, per fare un solo esempio, ha affermato di non considerare
intoccabili i dettati di Maastricht. Ma alle dichiarazioni verbali non
corrispondono per ora gli atti scritti. Infatti di eventuali modifiche al
Trattato non si fa menzione nella Dichiarazione comune sulla Conferenza
europea, firmata da Sassoli, Costa e von der Leyen, che nel titolo vuole
esprimere un rapporto biunivoco con i cittadini (Dialogo con i cittadini per
la democrazia – Costruire un’Europa più resiliente). Malgrado ciò la
reazione è stata immediata. Dodici paesi (Austria, Repubblica Ceca, Danimarca,
Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Olanda, Slovacchia e
Svezia) in un loro documento hanno subito chiarito che bisogna salvaguardare
l’attuale «equilibrio inter-istituzionale, compresa la divisione delle
competenze». Per loro quindi l’impianto istituzionale deciso a Maastricht resta
immutabile. E gli intoppi sul cammino della Conferenza non si fermano
qui. C’è ben altro. Innanzitutto il suo percorso si intreccia con le scadenze
elettorali dei più importanti paesi europei. E, in questo quadro carico di
incertezze e di instabilità, si aggiunge come elemento certamente negativo la
presidenza semestrale della Ue da parte della Slovenia iniziata il primo luglio
con l’insediamento di Janez Jansa, l’unico leader europeo a congratularsi con
Donald Trump per l’elezione che si era autoattribuito.
2. Ma soprattutto l’elemento di maggiore novità che fa e
farà sentire il suo peso nel dibattito europeo dentro e fuori la Conferenza, è
la Dichiarazione sul futuro dell’Europa, un documento firmato da sedici
partiti di destra e di estrema destra, ispirato al più smaccato sovranismo.
Spiccano tra i firmatari il Rassemblement National di Marine Le Pen, Fidesz di
Victor Orban, il partito polacco Diritto e Giustizia (Pis), lo spagnolo Vox,
nonché la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. La Dichiarazione è un testo relativamente breve
che però merita più di un’attenzione. Il suo obiettivo è, infatti, quello di
stabilire una “carta dei valori” della destra. Coerentemente con questo scopo
viene abbandonata ogni intenzione di exit dalla Ue o dall’eurozona, quindi
dalla moneta unica. Fin dalle prime righe viene piuttosto esaltato il ruolo
delle nazioni europee in difesa della loro sovranità e integrità territoriale.
Ma di questa impresa viene menzionata solo quella dei paesi che dopo la Seconda
guerra mondiale hanno dovuto lottare contro «il dominio del totalitarismo
sovietico». La garanzia della sicurezza e delle condizioni ottimali per lo
sviluppo sarebbe stata fornita dal Patto atlantico. Con il che non fanno che
sfondare una porta aperta, visto il piatto atlantismo che la Ue ha incentivato
nel dopo Trump. Il processo d’integrazione – proseguono – ha portato al
mantenimento della pace e alle buone relazioni tra Stati, un lavoro che «deve
essere mantenuto come un valore di importanza epocale. Tuttavia la serie di
crisi che hanno scosso l’Europa negli ultimi dieci anni hanno dimostrato che la
cooperazione europea sta vacillando, soprattutto perché le nazioni si sentono
lentamente spogliate del loro diritto a esercitare i loro legittimi poteri
sovrani». Da qui la necessità di una profonda “riforma”, basata sulla
contrarietà alla creazione di un superstato europeo che distruggerebbe le
istituzioni sociali di base e i principi morali. Le istituzioni europee sono
accusate di un «iperattivismo moralista» che va di pari passo con l’intenzione
di imporre un «monopolio ideologico». Contro tutto ciò i dichiaranti rilanciano
i valori della tradizione, il rispetto dei fondamenti giudaico-cristiani
dell’Europa. La dichiarazione continua riproponendo il ruolo della famiglia quale
«unità di base» delle nazioni europee. Anche qui siamo nel classico, ma questa
volta alla famiglia viene attribuito un ruolo politico che viene giocato in
chiave anti- immigrazione, sostenendo che la crisi demografica dovuta a bassi
tassi di natalità e l’invecchiamento della popolazione europea dovrebbero
spingere a politiche a sostegno della famiglia «piuttosto che a favorire
l’immigrazione di massa». La parte finale del documento lamenta l’erosione della
sovranità nazionale operata nei decenni precedenti attraverso una
«reinterpretazione sostanziale dei Trattati». A questa bisognerebbe opporsi
stabilendo le competenze inviolabili degli Stati e valorizzando il primato
delle loro Costituzioni. Il consenso – in altri termini l’obbligo della
unanimità nelle decisioni – dovrebbe restare l’unico metodo per raggiungere
posizioni comuni. Altrimenti – si afferma in chiusura della Dichiarazione – si
arriverebbe a inibire di fatto la funzione degli organi costituzionali, tra cui
«governi e parlamenti ridotti alla funzione di approvare decisioni già prese da
altri». Da qui l’invito, rivolto a chi condivide il documento, a «un lavoro
culturale e politico comune, nel rispetto del ruolo degli attuali gruppi
politici». Le ultime parole escludono, per ora, la creazione in tempi
prevedibili ovvero programmati di un gruppo unico dell’estrema destra nel
Parlamento europeo. Ma non per questo la mossa dei firmatari del documento va
sottovalutata. Il loro intento, niente affatto mascherato, è quello di influire
e pesare direttamente nel dibattito su una possibile riforma delle istituzioni
e del sistema di governance europei. Il punto specifico, nell’immediato,
è il mantenimento del criterio dell’unanimità, quindi la difesa a oltranza del
diritto di veto. Quello che ostacola il cammino della Ue verso l’approvazione
della globalminimum tax, vista l’opposizione manifestata da
Irlanda, Ungheria ed Estonia; quello che è stato messo in atto proprio contro
l’Italia per bloccare la redistribuzione dei migranti approdati sui lidi del
nostro paese, malgrado la decisione a maggioranza da governi e Parlamento, per
l’ostinazione dell’Ungheria e della Polonia. Ma i sovranisti coltivano un obiettivo di ben più lungo
respiro: quello di impedire qualunque soluzione o passo in avanti in senso
federalista da parte dell’Unione europea. A ciò sono finalizzate tutte le frasi
del documento che si riferiscono ai poteri sovrani dei singoli paesi e alla
necessità di fissare limiti invalicabili per le competenze della Ue. La difesa
dei poteri di Governi e Parlamenti nazionali che sarebbero ridotti a meri
esecutori delle volontà assunte dalle oligarchie europee viene proclamata in
questa chiave. Ovvero, la perdita di autorevolezza e di potere reale da parte
dei parlamenti non derivano dal processo di ademocratizzazione da tempo in atto
da parte delle modalità di governance attuate dal capitalismo globale,
ma dalla prevaricazione degli organi europei. Da qui, per dirla con le stesse
parole di Giorgia Meloni: «Adesso o credi nell’Europa federale o sei tacciato
di antieuropeismo e non è così: c’è anche l’opzione dell’Europa confederale che
era l’idea di De Gaulle». L’obiettivo non è la fuoriuscita dall’Europa ma il
mantenimento della stessa in un’orbita puramente confederale. Ma proprio qui sta forse il pericolo maggiore contenuto
dalla mossa della destra. Il suo effetto, già in parte in atto, può essere
quello di costringere il dibattito, dentro e fuori la Conferenza, in un alveo
puramente neoliberista, riducendolo a uno scontro interno fra reazionari ed
élite interpreti della storia e della tradizione dell’Unione europea lungo i
suoi vari passaggi, entrambi sordi a qualsiasi alternativa fino ad espungerla
dalla discussione stessa. Con l’aggravante del fatto che la destra sfida sul
terreno dei valori. Per quanto negativi e distorti, risulta difficile
respingerli, come fa Enrico Letta, richiamandosi ai “valori della Ue”, così
evanescenti a fronte delle regole di una governance che, anche quando
allenta i cordoni della borsa, persiste nel mostrare un’algida lontananza dalla
più elementare umanità in tema di accoglienza dei migranti o di sospensioni dei
brevetti sui vaccini. E ciò mentre lo stato della sinistra non certo
entusiasmante, neppure allargando lo sguardo all’insieme del quadro europeo, la
spingerebbe obiettivamente a una sorta di alleanza auto annichilente con le
élite di comando contro una destra capace di trovare consensi anche in ampi
ambiti popolari.
3. Già qualche mese fa si era rilevato come il tema della
difesa dello Stato di diritto avesse fatto la parte della cenerentola nel testo
finale che sanciva il “compromesso storico” raggiunto dalla Unione europea nel
luglio 2020. Ne abbiamo una riprova nello scontro in atto tra la Ue e
l’Ungheria e la Polonia sul grande tema dei diritti Lgtbi. Ursula von der Leyen
ha indubbiamente usato parole molto dure al riguardo: «Non possiamo restare a
guardare quando ci sono regioni che si dichiarano libere dagli Lgtbi. Non
lasceremo mai che parte della nostra società sia stigmatizzata a causa di
quello che si pensa, dell’etnia, delle opinioni politiche o credi religiosi»
(Giovanni Maria del Re, Omofobia. Ungheria, in vigore la legge. La Ue
assedia Orban (e Varsavia) in L’Avvenire del 8 luglio 2021). Ma a
queste parole non sono finora seguiti atti efficaci. Il Parlamento europeo, il 24 giugno scorso, ha adottato a
maggioranza una risoluzione assai puntuale e articolata sulle tematiche della
libertà e dei diritti sessuali, contro la quale naturalmente hanno votato i
gruppi dei Conservatori (di cui fa parte Fratelli d’Italia) e di “Identità e
democrazia” (di cui fa parte la Lega di Salvini) e si è espressa anche la
Commissione delle Conferenze episcopali Ue (Comece). Ma si è trattato di una
semplice risoluzione non avente forza di legge. La Ue sta in realtà combattendo
da anni con Polonia e Ungheria sulle questioni relative alle violazioni dello
Sato di diritto, ma con armi se non spuntate assai poco affilate. Finora le
procedure non hanno portato a punizioni concrete, né a un cambio di atteggiamento
dei Governi polacco e ungherese. Inoltre, Orbán e i suoi hanno alleati
importanti anche in paesi della Vecchia Europa e il primo tra questi è
l’Italia. Giovedì 1 luglio Matteo Salvini ha rivendicato con una lettera al Corriere
della Sera (Salvini: le nostre alleanze in Europa? Contro l’austerità
non per ideologia) la sua affinità con i governi di Ungheria e Polonia, una
posizione in questo caso praticamente identica a quella esposta da Giorgia Meloni. Anche in questa materia la minaccia di fare venire meno
dei vantaggi economici per garantire dei diritti mostra la corda, troppo
esposta sia alla critica che non si possono fare ricadere su un popolo intero
le colpe dei suoi governanti sia alla difficile praticabilità, se non altro per
l’intreccio di interessi economici che già si sono venuti creando o che vengono
fortemente attesi. Per uscire da questa costrizione non vi è che una strada,
per quanto impervia. Quella di puntare con decisione, pur considerando
attentamente tutti i vari passaggi necessari alla riuscita dell’impresa, alla
costruzione di un’Unione europea su base federale che poggi la sua
autorevolezza non tanto sul consenso dei Governi dei singoli paesi membri, ma
su un processo costituente capace di coinvolgere a ogni livello e in tutte le
sue espressioni la società reale e civile per giungere a una Costituzione che
raccolga e valorizzi il meglio delle costituzioni europee esistenti e che non
si presenti come un prodotto già chiuso e confezionato al giudizio popolare, ma
inglobi nel processo della sua definizione i popoli europei. Non c’è dubbio che un processo verso il federalismo e la
definizione di una Costituzione europea condivisa sia già difficile da pensare
oltre che da attuare. Ma bisogna “cercare ancora” perché esso ci appare come
l’unica via d’uscita all’implosione del progetto europeo implicito non tanto
nell’avanzata delle posizioni di destra, anche se più affinate rispetto a un
rozzo e primigenio antieuropeismo, quanto nei meccanismi economici del moderno
capitalismo che non tollera la democrazia e che si affida sempre più a gestione
di élite tecno-oligarchiche del potere.