La
prima vittima della guerra è la verità. In Afghanistan quello che è accaduto
negli ultimi 20 anni, dal 2001 al 2021, si è retto sulla menzogna, una montagna
di bugie sostenute e diffuse dai militari combattenti delle varie fazioni, dai
politici responsabili delle scelte fatte, dall’informazione al soldo degli
interessi in campo. Poi ci sono le vittime in carne ed ossa, bambini, donne,
uomini, morti o feriti sotto le bombe, negli attentati, negli scontri, o
cercando di fuggire da un futuro di paura. La guerra cambia il significato
delle parole: gli invasori diventano liberatori, i terroristi diventano
patrioti, i morti degli altri diventano effetti collaterali. L’attacco
terroristico dell’11 settembre a New York (il primo della storia in diretta
televisiva) non poteva rimanere senza risposta, ma quella dell’invasione
dell’Afghanistan e dei bombardamenti su Kabul, è stata la più sbagliata: ha
innescato reazioni a catena con variabili indipendenti e fuori controllo, che
in vent’anni hanno determinato una situazione insostenibile. La fuga
precipitosa degli eserciti stranieri lascia il campo in mano proprio a chi
doveva essere battuto. E quel che è peggio, gli lascia in eredità un ingente
arsenale di armi che dovevano “esportare la democrazia” e ora saranno al servizio
del nuovo Emirato islamico: cambia ideologia, ma la violenza è la stessa.
Un’intera generazione è cresciuta conoscendo solo la guerra come condizione di
vita e di morte. I risultati di quella guerra sono la diminuzione delle
aspettative di vita degli afghani, la crescita della mortalità infantile,
l’aumento della povertà e il calo dell’alfabetizzazione. Solo i produttori di
sistemi militari si sono arricchiti a dismisura (con un rendimento addirittura
dell’872% ci dicono gli analisti della Rete Pace e Disarmo, di Opal, di Milex,
gli unici che forniscono i dati reali di questa guerra che all’Italia è costata
8,7 miliardi di euro). Ora vige il caos ed è facile prevedere che si aprirà la
stagione della guerra civile tra le diverse etnie sostenute da altre potenze
esterne. Il bottino Afghanistan è troppo ghiotto, ricco com’è di materie prime
(tra l’altro produttore dell’80% di oppio a livello mondiale), e la cui
importanza strategica geopolitica è determinata dal suo ruolo di crocevia
asiatico. Qualsiasi tentativo di semplificazione della storia e dell’attualità
afghana porterebbe ad errori di valutazione, ma è fuori di dubbio che oggi le
influenze maggiori sul suo futuro si giocano tra Pakistan, Cina, Russia,
Turchia, Iran, ma anche sul ruolo che i giovani afghani vorranno prendere nelle
proprie mani. In questi giorni i riflettori sono puntati sull’aeroporto
internazionale di Kabul, ma la stragrande maggioranza delle persone, donne,
uomini e ragazzi dell’Afghanistan di domani, sono nelle province, nelle periferie,
nelle montagne e sugli altipiani di quella sterminata regione, dove i “corridoi
umanitari” non arriveranno mai e dove si determineranno i destini di quelle
persone. Le poche reali informazioni che abbiamo vengono dalle Organizzazioni
non governative, anche italiane, o dalle Agenzie internazionali che sono e
restano davvero presenti sul territorio nonostante i disastri combinati
dall’operazione militare Usa-Nato. Sono le sole voci, insieme a quelle delle
associazioni della società civile afghana, oggi ascoltabili e che possono
parlare con dignità. Irricevibili e vergognose, invece, le parole ipocrite di
politici e partiti che avevano sostenuto le ragioni dell’intervento armato,
votato i finanziamenti della missione militare, e di giornalisti ed “esperti”
che hanno giustificato la “guerra giusta” contro il terrorismo internazionale e
per “liberare le donne” dal burka, ed ora ci spiegano, con la stessa faccia
tosta, la necessità dell’aiuto umanitario, affidato a quelle stesse forze
armate artefici del clamoroso fallimento militare. Ma davvero non si
vergognano? Davanti a questo sfacelo, ampiamente previsto da chi si è opposto a
questa guerra infinita, come a tutte le guerre, ci sono solo tre cosa da fare:
- moltiplicare l’impegno nonviolento contro la preparazione della prossima
guerra (contro l’industria bellica, contro i bilanci militari, contro le banche
armate, per la smilitarizzazione e l’istituzione della difesa civile non armata
e nonviolenta); - offrire aiuto alle vittime della guerra, ai profughi che
fuggono dalla violenza; - sostenere l’islam nonviolento contro il
fondamentalismo talebano, sull’esempio di Abdul Ghaffar, detto Badshah Khan (il
Gandhi musulmano), che operò in Pakistan e Afghanistan, fondando il primo
"esercito" nonviolento della storia addestrato professionalmente. Movimento
Nonviolento