Draghi vuole cambiare la storia del nostro Paese. Il discorso tenuto da Draghi
agli imprenditori riuniti da Confindustria ha avuto un indubbio successo che ha
un preciso significato politico su cui conviene riflettere. Non avendo un
applausometro è difficile stabilire se la standing
ovation che i 1170 invitati alla Assemblea nazionale della Confindustria
hanno tributato a Mario Draghi, abbia superato o meno, per durata e intensità,
gli applausi riservati ad altri presidenti del consiglio in occasioni passate.
Come, per esempio, quelli che hanno accompagnato l’affermazione di Berlusconi
nel 2017 al convegno dei giovani industriali a Capri, quando definì gli
imprenditori “eroi”. Non è la prima volta che i partecipanti alle assise
confindustriali applaudono Draghi. Era già accaduto dieci anni fa, come ha
ricordato Bonomi, quando “l’uomo della necessità”, secondo lo stesso capo di
Confindustria, era presidente della Bce. Ma questa volta l’accoglienza a Draghi ha significato un
salto di qualità nei rapporti fra Confindustria e governo. Non erano così caldi
all’inizio. L’associazione padronale aveva adottato una tattica più insidiosa,
cercando di disarticolare la nuova maggioranza, ministero per ministero, quasi
a costruirsi una propria interfaccia governativa. Risultò evidente quando gli
strali confindustriali si concentrarono con successo sul timido tentativo del
ministero del lavoro di prorogare il blocco dei licenziamenti. Il gioco diventò
scoperto quando Confindustria riuscì a modificare il testo dell’avviso comune
fra Governo e Sindacati al punto da toglierne qualsiasi efficacia. Il fatto che l’ovazione nei confronti di Draghi sia
partita prima ancora che il Presidente del Consiglio prendesse la parola mostra
appunto che non si è trattato di un fatto emozionale, ma politicamente
orchestrato. Il discorso di Draghi si è limitato, nella sua prima
parte, a riprendere elementi noti, cavalcando la corsa del Pil previsto al 6% a
fine anno, ma con minore enfasi rispetto ad altri. Ha ricordato che si tratta
di un rimbalzo dalla situazione molto grave (-8,9%) del 2020 e che per parlare
di ripresa bisogna aspettare l’anno che viene, sapendo che “tra i dipendenti,
tre quarti dei nuovi occupati” sono con contratto a termine e che “nel 2020,
più di due milioni di famiglie erano ancora in condizione di povertà assoluta”.
Ma “il rafforzamento dell’economia passa attraverso l’apertura dei mercati”,
confermando un’impronta ordoliberista per cui l’intervento pubblico, non
eccessivo, deve soprattutto accogliere le logiche private della profittabilità.
Con conseguente esaltazione del ruolo delle imprese. Ha certamente ragione Landini nel lamentare che su
questioni cruciali il Presidente del Consiglio non abbia speso parola o quando
lo ha fatto, di sfuggita, l’abbia fatto male. Sulla scottante questione delle
multinazionali: silenzio. Sull’aumento delle bollette energetiche solo
l’impegno ad eliminare per l’ultimo trimestre gli oneri di sistema. Parole di
circostanza sulla transizione ecologica. Sul Mezzogiorno ci si accontenta del
40% degli investimenti e a un semplice cenno alle aree interne. Sulla riforma
fiscale, il cui testo ancora non c’è, Draghi ha confermato che il governo non
intende alzare le tasse, il che equivale a rassicurare sull’assenza di
qualsiasi patrimoniale.
Ma il senso politico del
suo discorso arriva alla fine. In cauda
venenum. Draghi proclama l’esigenza di “una prospettiva economica
condivisa” che subito identifica con quella di “patto sociale” lanciata da
Bonomi. Il che raccoglie le perplessità di Landini nel dopo assemblea, visto
che il “patto” non è sostanziato da proposte precise e naturalmente
l’entusiasmo del segretario della Cisl fautore del ritorno della concertazione.
Per farlo Draghi rovescia letteralmente il senso della storia sociale e
politica del paese. Per lui la ricostruzione post-bellica era dovuta alle buone
relazioni tra le parti sociali, cancellando le lotte durissime, i reparti
confino, i corpi di operai e contadini lasciati inerti sul terreno dopo le
cariche della polizia. Mentre considera la stagione che diede vita allo Statuto
dei diritti dei lavoratori e alle uniche riforme che il paese ha conosciuto,
come quella in cui “col finire degli anni ’60” avremmo assistito “alla totale
distruzione delle relazioni industriali”. Il protagonista della ricostruzione
di allora, il conflitto sociale e politico non solo viene fatto sparire, ma
colpevolizzato di un degrado sociale che invece ha tutt’altri tempi e cause.
Invece levatrice di una nuova narrazione sarebbe “la virtù dell’impresa… di cui
l’Italia andrà fiera”. Quella virtù, come invece ben sappiamo, che è causa
delle basse retribuzioni, della precarietà, del divario crescente Nord-Sud,
dell’aumento della povertà, della insistenza di avere tutti al lavoro in piena
pandemia, malgrado sia stata e tutt’ora venga ampiamente foraggiata dal denaro
pubblico. Che distanza fra i Campi Bisenzio della Gkn e l’Eur della
Confindustria. Realtà antagoniste. Nella seconda vincono Draghi e Bonomi. Nella
prima no. Come ben si vede il conflitto sociale che si vorrebbe cancellare
dalla storia del passato e per il futuro è ben presente. Come fattore di
progresso civile ed economico.