La riforma fiscale mira
all’efficienza economica più che alla giustizia sociale. Appena conteggiati i voti delle elezioni amministrative la
domanda ricorrente era se quell’esito poteva o no rafforzare il governo Draghi.
Tralasciando i pareri dei vari commentatori, lo stesso Presidente del Consiglio
si è detto convinto che l’esito del voto l’avrebbe rafforzato, al punto da
stringere i tempi sull’agenda di governo. È bastata la prima prova per capire
che le cose erano più complesse. La sconfitta di Salvini, in termini di sindaci
e consiglieri non eletti - ma non di voti assoluti, almeno nelle dieci maggiori
città – ha provocato una brusca fibrillazione all’interno della maggioranza. Non
era difficile prevederlo. Non solo perché, come diceva il sapido Flaiano,
“l’insuccesso dà alla testa”, ma soprattutto perché Draghi ha deciso di calare
la carta della riforma fiscale, attorno alla quale si gioca un vero e radicato
scontro di interessi. La reazione di Salvini e dei suoi sodali è stata
immediata con l’assenza sbandierata alla riunione del Consiglio dei ministri.
Il capo della Lega si è lamentato del troppo breve periodo di tempo tra la
consegna del testo del disegno di legge e l’inizio del Cdm. Ma il punto di
scontro vero è stata l’introduzione delle norme sulla revisione del catasto, su
cui la destra interna ed esterna alla maggioranza aveva promesso barricate. In
realtà i 10 articoli che compongono il disegno di legge governativo trattano la
materia fiscale a maglie larghe. Si tratta di “una scatola di principi”, come
ha detto lo stesso Draghi.
Il governo non rischia certo di incorrere in
quell’eccesso di delega legislativa che, con norme troppo precise e vincolanti,
avrebbe potuto fare scattare la mannaia della Corte Costituzionale. Ma questo
aspetto che dal versante governativo viene presentato come uno dei punti di
forza, per la sua presunta inclusività, si può facilmente rovesciare nel suo
esatto contrario. Il rischio concreto è che nella discussione parlamentare il
testo subisca profonde modifiche se non stravolgimenti. Ipotesi tutt’altro che
irrealistica viste le premesse costituite dal documento uscito dalla precedente
discussione in sede di commissioni finanze di Camera e Senato, guidata dal
renziano Marattin. La revisione del catasto acquisterebbe efficacia solo a
partire dal 1° gennaio 2026, come sta scritto nella legge delega. Draghi ha
precisato che sul tema ci sarebbero due impostazioni completamente diverse: “la
prima è costruire una base di informazione adeguata”, come ad esempio stanare
le famose “case fantasma” di cui è costellato il nostro martoriato territorio;
mentre “la seconda è decidere se cambiare le tasse e questa decisione oggi non
l’abbiamo presa. Ci vorranno cinque anni”. Quindi – ma ciò era chiaro fin
dall’inizio – non si parla di patrimoniale, ma è il governo stesso che si
impegna a garantire – ben al di là della sua durata e di quella della attuale
legislatura - che per almeno cinque anni non avverrà alcuno spostamento del
prelievo fiscale dal lavoro alla rendita, né sarà possibile superare la crisi
finanziaria che strozza le autonomie locali. Non è un caso che la legge delega
non nasca alla ricerca della giustizia fiscale, ma che il primo dei quattro
principi citati, che dovrebbero riempire la scatola draghiana, sia lo “stimolo
alla crescita economica”. La legge intende fare evolvere il nostro sistema verso
un modello compiutamente duale, quindi con la distinzione tra redditi da
capitale e redditi da lavoro. Per i
redditi da capitale è prevista una tassazione proporzionale,
tendenzialmente con un’aliquota uguale per tutti, ma con gradualità,
nell’intento di rendere più efficiente il mercato dei capitali. Per i redditi da lavoro è
prevista la riduzione delle aliquote effettive medie e marginali dell’Irpef,
con l’obiettivo di incentivare l’offerta di lavoro, in particolare nelle classi
di reddito dove si concentrano i giovani. Ove per aliquote effettive si
intendono quelle formali corrette dalle detrazioni. Qui si gioca il grosso della
partita, poiché vi è la possibilità che questa parte venga anticipata in legge
di bilancio, vista anche la disponibilità finanziaria esistente. Ma non basta
respingere le proposte, in vario modo formulate dalle destre, e non solo, sulla
flat tax e sui regimi forfettari.
Anche qui c’è un bivio. Respinta, purtroppo, una soluzione alla tedesca modello
“aliquota continua”, o si sceglie la strada di distribuire riduzioni a pioggia
o bonus, come nel recente passato,
facendo cassa elettorale,oppure
quella di agire sulle aliquote effettive, evitando scaloni o clamorose
diversità di trattamento per pochi euro di reddito, alleviando così per via
fiscale l’insopportabile basso livello delle retribuzioni italiane che tutti
rilevano, a parte la Confindustria nostrana. La lotta all’evasione e
all’erosione rimane un principio vago, almeno per due motivi. Il primo riguarda
la razionalizzazione dell’Iva, che può essere uno strumento anche contro
l’erosione, ma tutto dipende da come sono articolate le aliquote e a quali beni
si riferiscono, nel cui merito la legge delega non entra. Il secondo riguarda
la decisione di espungere dalla delega norme di superamento di quei vincoli
sulla privacy che depotenziano gli
accertamenti fiscali. Draghi ha promesso che le inserirà in un disegno di legge
ad hoc. Un’altra carta coperta
quindi. Mentre la battaglia è aperta. Se ci fosse una sinistra d’alternativa,
anziché disperdersi nelle mille rivoli delle proprie autoreferenzialità, come
si è visto anche nel voto amministrativo, avrebbe molto lavoro da fare.