Una Nadef a passi di gambero. Gli ultimi dati sull’andamento
dell’economia non solo nel nostro Paese ma a livello internazionale evidenziano
l’accavallarsi di problematiche a fronte delle quali tanto la politica
economica della Ue che quella del nostro Paese appaiono del tutto inadeguate.
Per usare un eufemismo. Il clima di ottimismo sulle possibilità di una corposa
ripresa dell’economia del nostro Paese aveva contrassegnato nelle ultime
settimane i commenti degli esperti e le dichiarazioni di imprenditori ed
esponenti politici. A onore del vero già in una conferenza stampa nei primi
giorni di ottobre Draghi era parso più prudente, malgrado che la Nota di
aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef), presentata il 30
settembre, confermasse nella sostanza tale ottimismo, seppure con un linguaggio
misurato. Nel giro di pochissimi giorni però quel clima si è di molto
raffreddato. Il 6 ottobre il ministro dell’Economia, Daniele Franco, avvertiva
il rischio che la nostra “ripresa” potesse essere intercettata e frenata
dall’incremento veloce e continuo dei prezzi su scala mondiale dell’energia. In
effetti quella impennata sottolinea con più forza una serie di elementi che in
breve tempo sono andati accumulandosi, quali, per fare solo alcuni esempi,
l’interruzione delle forniture di alcune materie prime e di semilavorati
strategici per le industrie più innovative e più produttrici di valore, come i
semiconduttori; l’acuirsi delle tensioni geopolitiche con ricadute in
particolare sullo approvvigionamento energetico; la tentazione sempre più
marcata di alcune banche centrali di ritornare nei vecchi alvei della gestione
del debito dopo il suo enorme aumento; la crescente incertezza negli
investimenti da parte delle imprese e nei consumi da parte delle famiglie.
Senza
contare che la lotta contro il Covid a livello mondiale è tutt’altro che
conclusa. Poco tempo fa l’economista Nouriel Roubini, che seppe prevedere la
grande recessione del 2008, aveva lanciato l’allarme sul perverso annodarsi di
stagnazione e di aumento dell’inflazione, tristemente nota come stagflazione.
Di fronte al delinearsi di una chiusura d’anno poco felice per l’economia,
persino la recentissima Nadef rischia di risultare in arretrato con l’andamento
reale della situazione. Di fronte a tale quadro si profila un bivio, in sé non
nuovo. Se tirare il freno della spesa pubblica o al contrario giocare con
coraggio la sfida di un incremento degli investimenti e dei consumi. La Nadef
ci dice che scelta del governo va nella prima direzione. Bisogna tenere conto
che la previsione di una crescita dell’Italia del 6%, confermata dal governo,
superiore a quella precedente di aprile (4,5%) non elimina il nostro ritardo di
fronte a un mondo che dovrebbe raggiungere a fine 2022 (stime Ocse) una
crescita del 6,8% rispetto al livello pre-Covid del 2019, mentre al nostro Paese
viene attribuito uno striminzito 1,1%. Questo quadro dovrebbe consigliare una
politica economica ben più coraggiosa. Invece, anziché confermare l’11,8% di
deficit su Pil previsto in aprile, la Nadef si compiace di prospettare una
riduzione al 9,4%, prevedendo una politica di bilancio espansiva fino al 2024,
dopo di che si punterebbe alla “riduzione del disavanzo strutturale e a
ricondurre il rapporto debito/Pil al livello pre-crisi entro il 2030”, come
scrive il ministro Franco nella premessa alla Nadef. Ma se, cosa detta più
volte dallo stesso Draghi, la via maestra per la riduzione del deficit sta
nell’incremento del Pil; se l’ex ministro Giovanni Tria, riconosce esplicitamente che le regole del famigerato fiscal compact non sono sbagliate
solamente ora ma fin dal loro inizio; se il rimbalzo vi è stato - non chiamiamola ancora ripresa visto che
risaliamo da un -8,9% - grazie a una politica più espansiva, perché non
incrementare la spesa in investimenti innovativi, a forte ricaduta
occupazionale e sociale, anziché compiacersi della riduzione di circa 40
miliardi del debito previsto in aprile?
La spiegazione è una sola: malgrado le dure repliche della storia la linea del
rigore è tutt’altro che definitivamente sconfitta e gli stessi esiti delle
elezioni tedesche che potrebbero partorire un governo con un ministro delle
finanze liberale, spingerebbero verso un ritorno al passato.
Non è un caso che
nella riforma fiscale, su cui Salvini ha costruito la sua sceneggiata, in
realtà si prevede che la revisione del catasto – chiesta dalla stessa Ue nel
2019 – abbia effetto solo dopo il 1° gennaio 2026 in termini di maggiori
introiti fiscali. Ovvero neppure la rendita va scalfita. E come se non bastasse
nell’ultima versione della Nadef si ripropone nel novero delle leggi collegate
alla manovra di bilancio 2022-24 la pessima legge sull’autonomia differenziata
per le regioni, come se le vicende della gestione della sanità nella pandemia
non ci avessero insegnato nulla. L’inserimento della proposta di legge quadro
sull’autonomia differenziata tra i collegati al bilancio non comporta di per sé
l’obbligo alla sua discussione e approvazione entro la sessione di bilancio. Ma
certamente rende questa discussione, qualora si facesse, più vincolata nei
tempi e nella gestione degli emendamenti. Ma soprattutto minerebbe la
possibilità del ricorso ad un eventuale referendum abrogativo, potendosi ad
essa applicare le norme ostative presenti nell’articolo 75 della nostra
Costituzione, che nel secondo comma prevede che non sia ammesso “il referendum
per le leggi tributarie e di bilancio”.