“Odissea” e Centro Gandhi, un
incontro per costruire nuovi campi di comprensione. La
riflessione di Rocco Altieri (nata da un confronto tra due modelli poi non così
tanto distanti, nemmeno storicamente, tra l’opera di Scotellaro e quella di
Domenico Lucano in Calabria) pubblicata su Odissea del 6 ottobre scorso
sancisce l’inizio di un percorso comune fra due realtà, quella del Centro
Gandhi e quella di Odissea. Da buon camminatore ho appreso che quando
s’incontra qualcuno, lungo il cammino, questo assume un aspetto diverso; non
perde della propria autonomia e libertà così faticosamente conquistate, ma
acquista, volentieri e altrettanto liberamente, un grado più profondo che ne
caratterizza la nuova e sorprendente relazione. Altrimenti l’incontro sarebbe
solo una sorta di sfregamento tra due estranei o peggio una retorica. Il significato della riflessione
di Altieri, oltre alla comparazione tra due fatti storici e politici, si pone
(ecco il nesso che mi sta a cuore sottolineare) nel crocevia che già Terzani
aveva delineato, affermando che “occorre dedicarci a creare campi di
comprensione invece che campi di battaglia”. Per cui contiene un senso che va
oltre lo scritto stesso, distaccandosi dal modello tradizionale con cui siamo
abituati a osservare la realtà, in generale i fatti sociali che la compongono. Su
questo punto vorrei soffermarmi, in quanto la costruzione teorica e pratica di
uno o più campi di comprensione non può pretendere di giungere
semplicisticamente e immediatamente alla comprensione dei legami molteplici che
costituiscono i fatti sociali.
Vorrei iniziare col dire che solitamente
guardiamo ma di rado osserviamo: cioè, consideriamo l’oggetto che ci sta di
fronte (qualsiasi sostanza esso abbia, la Natura, l’Uomo, i fenomeni, la
tecnica, la scienza, il potere, la Pace, ecc.) come un qualcosa che più di
tanto non ci deve avvicinare, mantenendo, così, una dimensione fortemente
centrata sul soggetto che guarda. L’oggetto, particolarmente l’ambiente - lo
spazio storico-sociale in cui esso si manifesta - assumono un’importanza, diciamo, relativa,
anche se conservano la loro primazia. Ciò che in questo modello non può accadere
è una feconda relazione, una contaminazione. Senza di questa la ricerca, l’osservazione,
la messa in gioco del costituito (elementi fondanti una costruzione di nuovi
campi di riflessione) rimangono a livello retorico poiché producono qualcosa d’inerziale
dedotto dal loro non coinvolgimento; si parla così di scienza cosiddetta oggettiva
senza ammettere che in essa non abita alcunché di umano né di umanizzante, di
emotivo, di erotico (nel senso socratico di ricerca appunto) ma essa è
semplicemente un avvicinarsi a un oggetto che diventa, presto o tardi, merce.
Perché appunto il soggetto lo guarda come valore di scambio. È evidente che non
può esserci nessuna relazionalità nella
realtà così guardata. Il reale è
relazionale sosteneva il sociologo Pierre Bourdieu (1930-2002), cioè il
fossato culturale, antropologico e scientifico tra soggetto e oggetto non è
colmato come qualcosa da nascondere ma è razionalmente criticato e trasformato
in modello di osservazione più analitico, più flessibile, maggiormente capace
di cogliere le correlazioni e la complessità di cui la società contemporanea è
costituita. Complessità sospinta, non dimentichiamolo, da un’accelerazione che
rende i fatti sociali ancor più sfuggenti e dissimulati, e a quanti vogliano
impegnarsi a osservarne gli effetti dominanti, tanto più misconosciuti e
difficili da interpretare.
Il contributo a cui Altieri
invita ha questo merito che, a parere mio, oggi, è assente o mancante nelle
analisi comuni: aver condotto, sull’intreccio tra poesia, impegno politico, tra
dimensione estetica della vita e il suo coinvolgimento pratico, creativo,
utopistico nella sfera politica, una relazione feconda e critica tra la norma e
la normalità che le istituzioni - innervate da strutture e leggi socio-economiche
di chiaro stampo - impongono (con i loro apparati burocratici, i loro
linguaggi, le loro cosiddetta sacralità) e l’individuo (che ha a cuore altre
norme), tanto da produrre, in quella relazione, una tensione destabilizzante. La
scienza, quindi, non è un mero strumento, ma è il modo stesso con cui
osserviamo e con cui agiamo e, come la poesia rivoluziona il reale, la scienza
ne rifiuta ogni dogmatismo. Tutto ciò permetterebbe che i fatti sociali, e il
loro presunto ordine stabilito, vengano còlti nella loro relazionalità, ponendo
così “l’attenzione non solo sulla relazione con ciò che è ma anche sulla
relazione con ciò che – per caso, o per motivi che devono essere scoperti, non
è”. (cfr. G. Paolucci, Introduzione a
Bourdieu, p. 39, 2011). Questo modo di osservare permetterebbe di
avvicinare, precipuamente, la realtà materiale e simbolica del dominio, come ne
siamo colonizzati a nostra insaputa, come lo interiorizziamo, lo manteniamo in
vita, vi collaboriamo più o meno coscientemente. Di questo un giornalismo di
pace dovrebbe assumersene la responsabilità; se la Pace, come dimensione, come
sentire, come discorso non sia davvero tramontata definitivamente all’orizzonte
del vivere contemporaneo. L’invito di Altieri, dunque, promuove
un tipo di giornalismo di pace come tensione e ricerca con cui la Domanda
maieutica torni al centro della riflessività di ognuno, come pratica e come
atteggiamento spirituale. Oserei affermare che l’utopia concreta della sua
analisi risiede in quella conversione
dello sguardo che accompagna (o dovrebbe) da sempre tutte le scienze umane
e sociali (e non solo) ma soprattutto ogni individuo che si mette in cammino,
come diceva Gandhi, non per ottenere alcuna verità ma per farsi illuminare da questa.