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sabato 9 ottobre 2021

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada


 

La gloria


Anche la stima, l’onore, la dignità, la nobiltà ecc. sono metafore del grembo. I greci coniarono il verbo τιμάω: onoro, mostro stima/rispetto, ad indicare i sentimenti che si provavano per la gravida. Poi, da questo verbo fu dedotto il deverbale (timè) τιμή: valutazione, come stima di grandezza e/o di quantità, stima, onore, dignità, mediante la seguente perifrasi: va a rimanere il tendere dal generare il legare, che si può rendere così: la crescita graduale del grembo rappresenta una valutazione, ma anche il grado di stima e di onore. I latini, oltre ad usare la radice (tim) τιμ (genera il tendere il rimanere, che è lo stadio del sollevamento), per coniare il verbo aestimo: stimo, utilizzarono anche αιδ (dal generare il legare, che significa la progressiva crescita, concetto contenuto, in greco, nel sigma di τιμής) Pertanto, il concetto di stima fu collegato allo stare in alto. Le persone importanti si ergevano sulla massa.
In greco, per dire: celebro, lodo, esalto si avvalsero di (kleo/kleio) κλέω/κλείω, che indica colui che riesce a nascere, battendosi fino allo stremo. Da κλείω fu dedotto κλειτός: famoso, celebre, illustre, per cui il poeta forgiò inclito. Sempre dallo stesso verbo fu dedotto il nome neutro: κλέος: fama, buon nome, gloria. I greci, che esaltarono i combattenti, quelli che compivano atti di valore, definirono la gloria il meritato riconoscimento e il compianto unanime di chi si sacrifica per gli altri e per la propria terra. I latini conobbero la radice kle e dalla metatesi kel/cel coniarono celebre, da cui celebrità, celebrare, celebrante, celebrato, celebrazioni.



I latini dedussero gloria dal deponente glorior: mi vanto, mi glorio. Il pastore latino individuò nel processo formativo dell’essere qualcosa che per lui poteva essere motivo di vanto o di gloria. Si può congetturare che la forza (per nascere) o l’eroismo (il miles gloriosus millantava) di chi si batte per nascere e/o la realizzazione di qualcosa di particolarmente apprezzato socialmente potessero generare in lui un sentimento di fierezza, che si tramutava in vanto, in gloria nei confronti degli altri. La gloria, per i greci, era da tributare agli eroi, come quelli alle Termopili, che si erano sacrificati per la libertà della Grecia; per i latini, che pure esaltavano i loro eroi (il termine eroe è comune a greci e latini), la gloria era da tributare al condottiero vincitore, che aveva reso grande e potente Roma. La gloria conclamata per i latini si concretizzava nel passaggio sotto l’arco da parte del console vincitore, come metafora del bimbo, che, dopo la strenua battaglia del travaglio, nascendo, passa vittorioso.
Honos honoris dei latini indica il riconoscimento pubblico delle benemerenze e dei meriti conseguiti. Infatti, nelle istituzioni c’era il cursus honorum, che era l’ascesa fino al consolato di chi, con il suo ben fare, arrivava a ricoprire la carica più alta. Nella metafora del grembo, legare, che, in questo contesto, rappresenta la capacità di far crescere, di saper fare e di realizzare quanto gradualmente serve alla creatura, indica la capacità di compiere le azioni più opportune, anche dal punto di vista sociale, politico, militare, giudiziario e amministrativo. A me piace ricordare un’espressione molto forte del mio dialetto: fatti onore! che esprime l’incitamento ad impegnarsi per raggiungere cariche prestigiose. La lettura di disonore, che indica l’onore infangato, consente, inoltre, di cogliere altri aspetti dell’onore. Per la donna il disonore era macchia incancellabile per sé e la sua famiglia (in dialetto si dice: ti sei messa la maschera! / ci hai messo la maschera!), se concepiva prima del matrimonio o tradiva pubblicamente il consorte. L’uomo perdeva l’onorabilità per condanne penali o per vita dissoluta ed immorale, propria delle classi sociali infime. Si precisa che la maschera di cui si parla alterava e deturpava il viso della persona, in quanto era fatta di fuliggine.



I greci coniarono (axios) ξιος: equivalente a, del valore di, adeguato, degno di, meritevole di, sulla base di questa equivalenza/corrispondenza fra αγς e ιος, che, leggendo il processo formativo del grembo, si può rendere così: quando si genera il mancare (ciò di cui si ha bisogno), c’è chi lega (chi è capace di realizzare quanto è necessario), per cui dedussero un’equivalenza, che, poi, divenne di stima e di onore (come di chi è capace di). La società dei greci e dei latini era ferocemente classista, per cui i matrimoni dovevano avvenire nell’ambito della stessa classe sociale. Pertanto, l’uomo e la donna che si sposavano, per costumanza, dovevano appartenere allo stesso gradino sociale, dovevano essere dello stesso valore, dovevano avere la stessa dignità. Mastro don Gesualdo di G. Verga, sul finire dell’Ottocento, testimonia quanto fosse radicato il convincimento che l’uno dovesse essere degno dell’altra e viceversa. Da axios fu dedotto in greco assioma, con i seguenti significati: carica, dignità, posto elevato, ma anche: primo principio, principio di per sé evidente. A parte la deduzione di dignità, i greci ricavarono il concetto di verità acclarata, di principio di tutta evidenza, sulla base dell’assunto iniziale: quando si genera il mancare, c’è chi lega, verità da tutti accettata nel processo formativo dell’essere. Lo stesso processo si ebbe per coniare dogma, che diventa verità da tutti accettata e, quindi, indiscutibile, sulla base di questa affermazione: la creatura resta legata alla madre, finché non acquisisce organi e funzioni. L’omologo di axios, per i latini, fu dignus, che, però, fu dedotto dal deponente dignor dignaris: stimo/reputo degno, che il pastore latino dedusse da questa perifrasi: quando c’è da realizzare qualcosa di cui ho bisogno, a me spetta trovare la persona degna. Da degno furono dedotti: indegno, indignarsi, dignità, dignitoso, dignitario, degnarsi. Da ricordare, inoltre, che G. B. Vico usò la parola degnità come sinonimo di assioma.
Dal concetto di ottimo, che, nel processo di riproduzione, rappresenta la creatura che, raggiunta la grandezza massima, nasce, i greci e i latini coniarono gli aristoi e gli ottimati. Questa categoria sociale si caratterizzava per antenati illustri, che avevano ben operato, soprattutto in momenti molto difficili della storia dei loro popoli. Stessa funzione ebbero nella cultura italica i nobili. Molto probabilmente, in latino, nobile fu coniato come aggettivo dedotto da (g)nosco: conosco, riconosco, che era il grembo conclamato della gravida, con i seguenti significati: conosciuto da sempre (in quanto c’è l’homo novus e il contrario: obscurus), conoscibile, noto, nobile di sangue, d’illustre casato. Quindi, si formarono: gli aristocratici/eupatridi, gli ottimati/patrizi, i nobili, che, oltre ad avere l’elettorato attivo e passivo, godevano del possesso dei beni (soprattutto quelli agrari), vivevano di rendita, prediligevano l’ozio, contrapposto al negozio, avevano in dispregio il lavoro per guadagnarsi da vivere. Questa visione della vita, purtroppo, divenne un fatto culturale profondamente radicato in Italia (nel Sud dell’Italia è arrivata sino ai giorni nostri), con conseguenze devastanti dal punto di vista socio-morale ed economico.