Anche la stima, l’onore, la dignità, la nobiltà ecc. sono metafore del
grembo. I greci coniarono il verbo τιμάω: onoro,
mostro stima/rispetto, ad indicare i sentimenti che si provavano per la
gravida. Poi, da questo verbo fu dedotto il deverbale (timè) τιμή: valutazione, come stima di grandezza e/o di quantità, stima,
onore, dignità, mediante la seguente perifrasi: va a rimanere
il tendere dal generare il legare, che si può rendere così: la crescita
graduale del grembo rappresenta una valutazione, ma anche il grado di stima e
di onore. I latini, oltre ad usare la radice (tim) τιμ(genera il
tendere il rimanere, che è lo stadio del sollevamento), per coniare il verbo aestimo:
stimo, utilizzarono anche αιδ(dal
generare il legare, che significa la progressiva crescita, concetto
contenuto, in greco, nel sigma di τιμής) Pertanto,
il concetto di stima fu collegato allo stare in alto. Le persone importanti si
ergevano sulla massa. In greco, per
dire: celebro, lodo, esalto si avvalsero di (kleo/kleio) κλέω/κλείω, che indica colui che riesce a nascere, battendosi fino
allo stremo. Da κλείω fu dedotto κλειτός: famoso,
celebre, illustre, per cui il poeta forgiò inclito. Sempre
dallo stesso verbo fu dedotto il nome neutro: κλέος: fama, buon nome, gloria. I greci, che esaltarono i
combattenti, quelli che compivano atti di valore, definirono la gloria il
meritato riconoscimento e il compianto unanime di chi si sacrifica per gli
altri e per la propria terra. I latini conobbero la radice kle e dalla
metatesi kel/cel coniarono celebre, da cui celebrità, celebrare,
celebrante, celebrato, celebrazioni.
I latini
dedussero gloria dal deponente glorior: mi vanto, mi
glorio. Il pastore latino individuò nel processo formativo dell’essere
qualcosa che per lui poteva essere motivo di vanto o di gloria. Si può congetturare
che la forza (per nascere) o l’eroismo (il miles gloriosus millantava)
di chi si batte per nascere e/o la realizzazione di qualcosa di particolarmente
apprezzato socialmente potessero generare in lui un sentimento di fierezza, che
si tramutava in vanto, in gloria nei confronti degli altri. La gloria, per i
greci, era da tributare agli eroi, come quelli alle Termopili, che si erano
sacrificati per la libertà della Grecia; per i latini, che pure esaltavano i
loro eroi (il termine eroe è comune a greci e latini), la gloria era da tributare
al condottiero vincitore, che aveva reso grande e potente Roma. La gloria
conclamata per i latini si concretizzava nel passaggio sotto l’arco da
parte del console vincitore, come metafora del bimbo, che, dopo la strenua battaglia
del travaglio, nascendo, passa vittorioso. Honos honoris
dei latini
indica il riconoscimento pubblico delle benemerenze e dei meriti conseguiti. Infatti,
nelle istituzioni c’era il cursus honorum, che era l’ascesa fino al consolato
di chi, con il suo ben fare, arrivava a ricoprire la carica più alta. Nella
metafora del grembo, legare, che, in questo contesto, rappresenta la capacità
di far crescere, di saper fare e di realizzare quanto gradualmente serve alla creatura,
indica la capacità di compiere le azioni più opportune, anche dal punto di
vista sociale, politico, militare, giudiziario e amministrativo. A me piace
ricordare un’espressione molto forte del mio dialetto: fatti onore!
che esprime l’incitamento ad impegnarsi per raggiungere cariche prestigiose. La
lettura di disonore, che indica l’onore infangato, consente, inoltre, di
cogliere altri aspetti dell’onore. Per la donna il disonore era macchia
incancellabile per sé e la sua famiglia (in dialetto si dice: ti sei messa
la maschera! / ci hai messo la maschera!), se concepiva prima del
matrimonio o tradiva pubblicamente il consorte. L’uomo perdeva l’onorabilità
per condanne penali o per vita dissoluta ed immorale, propria delle classi
sociali infime. Si precisa che la maschera di cui si parla alterava e deturpava
il viso della persona, in quanto era fatta di fuliggine.
I greci
coniarono (axios) ἄξιος: equivalente a, del valore di, adeguato, degno
di, meritevole di, sulla base di questa equivalenza/corrispondenza fra
αγςe ιος, che, leggendo il processo formativo del grembo, si può rendere così: quando
si genera il mancare (ciò di cui si ha bisogno), c’è chi lega (chi è
capace di realizzare quanto è necessario), per cui dedussero un’equivalenza, che,
poi, divenne di stima e di onore (come di chi è capace di). La società dei
greci e dei latini era ferocemente classista, per cui i matrimoni dovevano
avvenire nell’ambito della stessa classe sociale. Pertanto, l’uomo e la donna
che si sposavano, per costumanza, dovevano appartenere allo stesso gradino
sociale, dovevano essere dello stesso valore, dovevano avere la stessa
dignità. Mastro don Gesualdo di G. Verga, sul finire dell’Ottocento,
testimonia quanto fosse radicato il convincimento che l’uno dovesse essere
degno dell’altra e viceversa. Da axios fu dedotto in greco assioma,
con i seguenti significati: carica, dignità, posto elevato,
ma anche: primo principio, principio di per sé evidente. A parte la
deduzione di dignità, i greci ricavarono il concetto di verità
acclarata, di principio di tutta evidenza, sulla base dell’assunto
iniziale: quando si genera il mancare, c’è chi lega, verità da
tutti accettata nel processo formativo dell’essere. Lo stesso processo si ebbe
per coniare dogma, che diventa verità da tutti accettata e, quindi,
indiscutibile, sulla base di questa affermazione: la creatura resta legata alla
madre, finché non acquisisce organi e funzioni. L’omologo di axios, per
i latini, fu dignus, che, però, fu dedotto dal deponente dignordignaris:
stimo/reputo degno, che il pastore latino dedusse da questa perifrasi:
quando c’è da realizzare qualcosa di cui ho bisogno, a me spetta trovare la
persona degna. Da degno furono dedotti: indegno, indignarsi,
dignità, dignitoso, dignitario, degnarsi. Da
ricordare, inoltre, che G. B. Vico usò la parola degnità come sinonimo
di assioma. Dal concetto
di ottimo, che, nel processo di riproduzione, rappresenta la creatura
che, raggiunta la grandezza massima, nasce, i greci e i latini coniarono gli aristoi
e gli ottimati. Questa categoria sociale si caratterizzava per
antenati illustri, che avevano ben operato, soprattutto in momenti molto
difficili della storia dei loro popoli. Stessa funzione ebbero nella cultura
italica i nobili. Molto probabilmente, in latino, nobile fu
coniato come aggettivo dedotto da (g)nosco: conosco, riconosco,
che era il grembo conclamato della gravida, con i seguenti significati: conosciuto
da sempre (in quanto c’è l’homo novus eil contrario: obscurus),
conoscibile, noto, nobile di sangue, d’illustre casato.
Quindi, si formarono: gli aristocratici/eupatridi, gli ottimati/patrizi,
i nobili, che, oltre ad avere l’elettorato attivo e passivo, godevano
del possesso dei beni (soprattutto quelli agrari), vivevano di rendita, prediligevano
l’ozio, contrapposto al negozio, avevano in dispregio il lavoro
per guadagnarsi da vivere. Questa visione della vita, purtroppo, divenne un
fatto culturale profondamente radicato in Italia (nel Sud dell’Italia è arrivata
sino ai giorni nostri), con conseguenze devastanti dal punto di vista socio-morale
ed economico.