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sabato 16 ottobre 2021

SPERIAMO
di Angelo Gaccione


 
 
Speriamo è la parola che usiamo quasi quotidianamente ed è molto di più di una semplice voce verbale. Speriamo è un auspicio ben augurante, un confidare fideisticamente nella sorte per un esito positivo: si tratti di gravi problemi di salute, di eventi importanti per la nostra vita o di semplici e banali vicende quotidiane. Sappiamo che la sorte non esiste, che non esistono le Parche; sappiamo che molti sono credenti in un loro Dio, ma speriamo è parola che fiorisce sulla bocca di tutti: del credente e nel non credente; dell’uomo di scienza come della persona comune; dell’ottimista come del pessimista. E la si pronuncia anche quando non ci sarebbe nulla da sperare da persone e circostanze. Da cosa nasce questo insopprimibile bisogno – dato che di un vero e proprio bisogno si tratta – e non si riesce a farne a meno? Probabilmente da un radicato legame col futuro che si è sedimentato in noi dai tempi dei tempi. Eppure non c’è nulla di più incerto del futuro e siamo quasi tutti abbarbicati ad un presente che vorremmo eterno. Nella mia lingua dialettale il futuro non è neppure contemplato come tempo verbale. Se ci soffermiamo sui nostri comportamenti è spaventevole quello che stiamo facendo al nostro futuro e a quello delle generazioni che verranno. E tuttavia continuiamo ad usare questa espressione con una fiducia irrazionale che ha del miracoloso. Evidentemente non basta neppure la promessa dell’Eden cristiano, se anche i credenti dicono speriamo. Ma, come sappiamo dalla cultura antica, non c’è cosa più vana della speranza. Abbiamo forse troppo presto dimenticato che Elpis, la speranza per i greci, è l’unico dono rimasto seppellito in fondo al vaso di Pandora. Tutti i mali del mondo sono fuorusciti a danno dei mortali, ma la speranza è rimasta nel fondo del vaso intrappolata. Una filastrocca popolare delle mie parti si conclude con questo sconfortante assioma: “Chi di speranze campa, disperato muore”. Nessuna via d’uscita dunque? Forse non del tutto, se persino un disilluso come Leopardi aveva potuto pronunciare una frase come questa: “Vivo, dunque spero”; e in fondo non era che l’adagio popolare del finché c’è vita c’è speranza. È vero, la speranza è l’ultima a morire, anche questo è un adagio popolare, ma spesso, molto spesso, la vita dispera, e disperando non trova più le sue ragioni. E allora forse è più giusto e più veritiero correggerli questi adagi ingannevoli, e affermare in maniera perentoria che: “Solo finché c’è speranza c’è vita”, e non il contrario.