SPERIAMO
di
Angelo Gaccione
Speriamo è la
parola che usiamo quasi quotidianamente ed è molto di più di una semplice voce
verbale. Speriamo è un auspicio ben augurante, un confidare
fideisticamente nella sorte per un esito positivo: si tratti di gravi problemi
di salute, di eventi importanti per la nostra vita o di semplici e banali vicende
quotidiane. Sappiamo che la sorte non esiste, che non esistono le Parche; sappiamo
che molti sono credenti in un loro Dio, ma speriamo è parola che fiorisce
sulla bocca di tutti: del credente e nel non credente; dell’uomo di scienza
come della persona comune; dell’ottimista come del pessimista. E la si
pronuncia anche quando non ci sarebbe nulla da sperare da persone e
circostanze. Da cosa nasce questo insopprimibile bisogno – dato che di un vero e
proprio bisogno si tratta – e non si riesce a farne a meno? Probabilmente da un
radicato legame col futuro che si è sedimentato in noi dai tempi dei tempi.
Eppure non c’è nulla di più incerto del futuro e siamo quasi tutti abbarbicati
ad un presente che vorremmo eterno. Nella mia lingua dialettale il futuro non è
neppure contemplato come tempo verbale. Se ci soffermiamo sui nostri
comportamenti è spaventevole quello che stiamo facendo al nostro futuro e a
quello delle generazioni che verranno. E tuttavia continuiamo ad usare questa
espressione con una fiducia irrazionale che ha del miracoloso. Evidentemente
non basta neppure la promessa dell’Eden cristiano, se anche i credenti dicono speriamo.
Ma, come sappiamo dalla cultura antica, non c’è cosa più vana della speranza.
Abbiamo forse troppo presto dimenticato che Elpis, la speranza per i greci, è
l’unico dono rimasto seppellito in fondo al vaso di Pandora. Tutti i mali del
mondo sono fuorusciti a danno dei mortali, ma la speranza è rimasta nel fondo
del vaso intrappolata. Una filastrocca popolare delle mie parti si conclude con
questo sconfortante assioma: “Chi di speranze campa, disperato muore”. Nessuna via
d’uscita dunque? Forse non del tutto, se persino un disilluso come Leopardi
aveva potuto pronunciare una frase come questa: “Vivo,
dunque spero”; e in fondo non era che l’adagio popolare del finché c’è vita c’è
speranza. È vero, la speranza è l’ultima a morire, anche questo è un adagio
popolare, ma spesso, molto spesso, la vita dispera, e disperando non trova più
le sue ragioni. E allora forse è più giusto e più veritiero correggerli questi adagi
ingannevoli, e affermare in maniera perentoria che: “Solo finché c’è speranza
c’è vita”, e non il contrario.