Pagine

martedì 9 novembre 2021

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
 


I sensi


Il verbo medio (aisthànomai) ασθάνομαι: mi accorgo, percepisco con i sensi, comprendo indicò cosa conseguiva al pastore quando si rendeva conto dell’incipiente gravidanza. La perifrasi coniata è la seguente: è ciò che deduco quando, a seguito della crescita del flusso gravidico, inizia il mancare, che è la fase della formazione graduale di organi e funzioni. Da questo verbo furono dedotti i sostantivi: (aisthetés) ασθητής: chi ha la facoltà di sentire, chi ha la facoltà di percepire, l’esteta (colui che sente, si accorge), (aisthesis) ασθησις: percezione con i sensi, uno dei sensi e con il significato specifico di organo della sensazione: (aistheterion) ασθητήριονQuindi, tutti i sensi concorrevano a far sì che ci si accorgesse, anche nella fase iniziale, dell’ingravidamento. Infatti, tutti i nomi afferenti ai sensi attengono a questo processo. Il verbo (orao) ράω: guardo, osservo, bado, attendo è il risultato di questa perifrasi, resa a senso: è ciò che faccio durante i mesi dell’incubazione (si genera dallo scorrere del tempo per nascere), quindi, dedussero: ραμα: veduta, visione, da cui, in italiano: panorama, mentre i latini mutuarono oracolo. Dalla radice (id) ιδ (genera il mancare) fu dedotto l’aoristo 2: (eidon) εδον: vidi, osservai. Questa radice trasmigrò nella cultura latina e, acquisendo il digamma, divenne v-id di vid-eo. Per indicare la vista si avvalsero di (opé) όπή (da cui ottico), che indica ciò che si esercita quando la creatura è in formazione, mentre per indicare l’occhio coniarono (ofthalmόs) όφθαλμός (in italiano fu estrapolato: oftalmico), che è l’organo che percepisce la gravidanza.


Per quanto riguarda la percezione uditiva, i greci coniarono, dapprima, ος τός (ous otόs): orecchio (da cui otite e otalgia), poi, con un deduttivo (ak) ακ (dal generare) coniarono: (ak-ou-o) κ-ού-ω: percepisco dall’orecchio (letteralmente: è ciò che genera l’orecchio), odo, quindi: κ-ου-ή/κ-ο-ή: udito, da cui (akousticos) κουστικός: che riguarda l’udito e, quindi, l’acustica.
Per indicare toccare, i greci coniarono il verbo medio πτομαι, che rende questo concetto: è ciò che io deduco per me, quando spingo qualcosa (la tocco), da cui tatto: (afè) φή. Coniarono anche (thingano) θιγγάνω: tocco con mano, da cui i latini, probabilmente, dedussero tango, che è il toccare, forse, del pastore quando prende il nato. Quindi, dal participio perfetto tactus: che ha toccato dedussero l’organo del tatto.



Per quanto riguarda l’olfatto, i greci coniarono (ris rinòs) ρίς ρινός: naso, che è il risultato di questa perifrasi: va a scorrere il legare, quando dentro c’è il mancare, è quello che serve al pastore (annusare) per rendersi conto se c’è ingravidamento o se la femmina è in calore. Da sottolineare che nella cultura italica da fiuto fu dedotto: rifiutare. Il naso consente di cogliere (legare) la fonte di quello che non c’è (manca perché non si vede).
Mi piace ricordare che a Cerchiara di Calabria per dire: ha l’odore di, si dice: amm’riz’d’, da (myrizo) μυρίζω: profumo, cospargo d’unguento a sua volta dedotto da (myron) μύρον: olio odoroso, unguento, profumo. Inoltre, la parola nausea, verosimilmente, è da collegare a: (naysie) ναυσίη: mal di mare (mal d’imbarcazione), disgusto. Così, in dialetto da: ση (ase): sazietà, disgusto, nausea, si formò: n-as-iare, che causa il voltastomaco. Per quanto riguarda puzza e puzzare furono dedotti da parole coniate dai greci. Infatti, si generarono da: (pyon/pyòs) πύον/πυός: pus/colostro e da: (pytho) πύθω: faccio imputridire, per cui i latini ebbero: πύθer e, in italiano, putrido.
I greci con (gheyo) γεύω dissero: io gusto, che, probabilmente, è ciò che è proprio del bambino che poppa. Poi, dedussero: (gheystes) γεύστης: colui che gusta, per cui i latini da colui che gusta mutuarono: gustus: il gusto, una parola dedotta da una delle innumerevoli radici che abbiamo preso a piene mani dalla cultura greca.
Anche sal salis rimanda a (als alòs) λς λός, che, al femminile, i greci tradussero: mare e, al maschile, sale. Da sa(l) i latini dedussero sapor saporis, sapido (insipido) e il verbo omofono/omografo sap-io: ho sapore e, per, traslato: odora di, mentre sapio, con il significato: ho senno (da cui: sapiente), capisco, so (in dialetto: ié sacc(i), tu sapis’), si tratta di un conio latino, il cui significato rimanda alla cultura greca: ciò che nasce si forma dal mancare (non per crescita): questo io so.



L’omologo di ασθάνομαι, per i latini, fu sent-io sentis, sensi, sensum, sentire, da scrivere, così, alla greca: σενθ-ιο, che acquisì i seguenti significati: scorgo, noto, imparo a conoscere, apprendo, comprendo, frutto della seguente perifrasi: il mancare (il divenire del grembo e della creatura), da dentro il crescere, fa generare (quanto appena detto), da rendere meglio: quando noto i processi del grembo per il flusso gravidico e per la formazione graduale della creatura, i sensi mi confermano il nuovo stato.
Quando la vista induceva a pensare ad un nuovo arrivo, il pastore, per conferma, si avvaleva del fiuto, dell’udito e del tatto. Pertanto, quello scorgere, che è un intravedere, richiedeva prove che verificassero, prove da collegare ad un affinamento della sensibilità percettiva di tutti gli organi di senso. Da questo verbo furono dedotte molte parole, come senziente, consenziente, dissenziente, assentire, presentire, sentimento, presentimento. Dalla radice senth fu dedotta la parola astratta sententia: parere, veduta, voto, giudizio, sentenza. Dal participio perfetto sensus (che ha sentito, che è stato sentito) fu dedotto il sostantivo: sensus sensus: accorgersi, avvedersi, facoltà di sentire, senso/significato, senso/concetto, coscienza, intelligenza, giudizio, che ha determinato, nella lingua italiana, tante sfumature di significato. Da senso si ebbero: sensato, sensazione, sensazionale, insensato, sensibile, ipersensibile, insensibile, sensibilità, sensibilizzare. Nel mio dialetto, se si dice di uno: “N’ mancan’ i sins(i)” (gli mancano i sensi), si fa riferimento a una persona sbadata, dissennata, scapestrata, mancante di consapevolezza e di capacità di giudizio, mentre, come ho già detto in altra occasione, della persona che “ha i sentimenti”, si vuole intendere che è avveduta ed ha capacità di giudizio, per cui se uno afferma: “Hai detto ciò con tutti i sentimenti” si vuole esprimere che l’affermazione è stata fatta in scienza e coscienza.    



Sinonimo di sentio è percipio, dedotto da cap-io, di cui si conoscono i significati prevalenti: prendo, afferro, catturo. La perifrasi (è ciò che si genera dal fare il passare, in senso stretto e durante i nove mesi) contenuta in cap-io, in questo contesto, è da leggere: è ciò che si deduce mentre la creatura nasce; il pastore, inoltre, aggiunse: fa dallo scorrere (per) (durante la gestazione) anche il generarsi dei seguenti significati: m’impossesso, accolgo, ottengo, ricevo/percepisco, ma anche: noto, intendo, provo, sento/percepisco. Dal participio passato perceptus (chi ha percepito) fu dedotta: percezione, che il vocabolario Treccani così definisce: “L’atto del percepire, cioè del prendere coscienza di una realtà che si considera esterna, attraverso stimoli sensoriali, analizzati o interpretati mediante processi intuitivi, psichici, intellettivi ecc.”
Gli italici, oltre ad utilizzare sentire, coniarono mi accorgo, che indica che da alcuni sintomi/segni mi rendo conto di una trasformazione. Pertanto, da chi si è accorto ricavarono l’accorto. Ci sono, inoltre, gli accorgimenti, che sono come delle antenne per avere contezza di quanto circonda. Probabilmente il verbo accorgersi rimanda a: ρνυμι: faccio sorgere, mi alzo, che contestualizza il sollevamento del grembo. Mi piace, qui, soffermarmi, su vigile, che è colui, che, avendo piena coscienza, sviluppa la capacità percettiva. Per il pastore essere vigile significò: non dormire, prestando la massima attenzione, in attesa del parto. Da vigile, furono dedotte vigilia (giorno in cui si digiunava perché tutti intenti a o per motivi votivi) e veglia.  
Per quanto riguarda la capacità visiva presso i latini e gli italici, ritengo che altrove abbia esplicitato i processi formativi di tante parole; qui, è opportuno soffermarmi su oculus, sul deponente miror miraris: guardo con meraviglia e su spia I latini definirono oculus l’organo che visualizza il processo di formazione della creatura. Belli alcuni verbi dedotti: adocchiare, occhieggiare. Nel mio dialetto, oltre al verbo adocchiare, c’è agguacchiare, dedotto da: (ayghé) αγή: luce, riflessi, lumi, che indica chi, nella notte, rischiarata da un lucignolo, riesce ad individuare un chi o una cosa.



Il guardare/contemplare con meraviglia è del pastore di fronte al nato. Quindi, dedussero mirus: ammirabile, meraviglioso, quindi: ammirare, ammiratore, ammirazione, miracolo, mirabilia ecc. Mi piace ricordare che nel mio dialetto ammirare indica anche: fissare attentamente per poter cogliere microparticelle.
La parola spia della lingua italiana fu coniata con la stessa simbologia delle parole greche e latine. Questo concetto è frutto della seguente perifrasi: il grembo accentuato è il segno/indizio di un processo in atto, nascosto, che viene rivelato a tutti o a quanti hanno occhi per notare. Il fumo che esala da un camino fa pensare a tanti che quella casa è abitata, mentre dice agli eventuali ladri che non è conveniente intrufolarsi. Molti filologi fanno derivare spia dal gotico spahia, non so su quale base. Si tratta di una parola molto diffusa, anche nei dialetti, che dimostra che in ogni epoca si sono coniate nuove parole. Poi, perché risalire ai Goti, se in latino c’è specio/spicio e inspicio: guardo dentro?
Aud-io dei latini rimanda a una radice greca: αδή: voce, notizia, la cui perifrasi si può rendere: quando circola la notizia/voce che c’è una gestazione in atto. In realtà dissero: quando si verifica il mancare (qui: l’abbozzo), che determina il legare (nominativo: η, genitivo: ης), per cui, poi, dal concetto di mancare, come situazione di estremo pericolo, coniarono il verbo semideponente: aud-eo: oso. Da αδή i latini dedussero ausculto auscultas: sto in ascolto, ascolto, origlio, che indica ciò che faceva il pastore senza stetoscopio. L’ascolto non è di molti: prestare la massima attenzione a quello che uno riesce a trasmettere: saper cogliere il battito della creatura che sta divenendo! Quindi, odo riguarda ogni suono che l’orecchio percepisce, ascolto è il mettersi in sintonia con l’emittente.
I latini, per indicare: odoro, ho odore, coniarono ol-eo, la cui radice si può rendere: è ciò che genera il disciogliersi (nell’aria?), che determina un sentore. Quindi, dedussero olente, poi: olentia: odore, da cui: olezzo e olezzare. Dalla radice ol i latini dedussero olfacio: annuso, che è ciò che faccio quando sento un odore e in chi ha già annusato si riscontra l’olfatto. Inoltre, si avvalsero di un deponente per indicare la capacità olfattiva: odoror: sento l’odore, da cui: odore, odoroso inodore, e in chi ha odorato si riscontra l’odorato.
Mi piace concludere con alcune considerazioni sul verbo annusare della lingua italiana (nel mio dialetto si rende con: annasc-care, dedotto da: i nasc-ch’: le narici, dedotte, a loro volta, da naso), che dovrebbe essere conseguente ad una modificazione fonica di annasare e/o ad una sorta di imitazione del verbo ammusare, che indica l’avvicinare al muso.


[Le opere pittoriche a corredo: Paesaggi liguri   
sono di Giancarlo Consonni]