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martedì 21 dicembre 2021

Gli scrittori e le città
LA MIA GROSSETO
di Graziano Mantiloni
 

Veduta di Grosseto

Ormai penso di essere considerato grossetano d’adozione essendomi trasferito in città da oltre quaranta anni. Ma sì, a questo punto posso dirlo con certezza: mi sento proprio grossetano a tutti gli effetti, fin nel DNA, e lo avverto volente o nolente, come ci fossi nato. Del resto, Grosseto, “città aperta al vento e ai forestieri” come diceva Luciano Bianciardi (del quale nel 2022 ricorre il centenario della nascita), si è sempre caratterizzata come un centro accogliente per chi viene da fuori in cerca di una sistemazione, un lavoro. E oggi per rintracciare una generazione di origine autoctona ci vuole il lanternino. Ci si stabilì anche Carlo Cassola, dal 1948 al 1963. Qualcuno ricorda ancora, nelle assolate estati maremmane, dalla sua abitazione sopra i portici di piazza Dante, con le finestre aperte, provenire lo schioccare delle dita sulla macchina da scrivere. Infatti, qui nacquero alcuni tra i suoi capolavori più belli: Un cuore arido e Fausto e Anna, oltre al Premio Strega La ragazza di Bube.


Grosseto: il cuore della città

In ogni caso, grossetano o maremmano, che dir si voglia, è nell’immaginario collettivo sinonimo di un popolo caparbio, scorbutico, rude a primo acchito, forse il portato antico del vivere in una terra ostile, nel fango delle paludi infestate dalla malaria, che tanti badilanti hanno cercato di trasformare e rendere più vivibile. Chissà perché, mi chiedo, ma è un dibattito tuttora aperto tra storici e archeologi, con tutti i luoghi più adatti, gli antichi grossetani hanno voluto impiantare un centro abitato proprio nel bel mezzo di una palude?
Comunque sia andata, l’ambiente grossetano, a me ha sempre trasmesso una magica carica di vitalità. Forse, la carica vitale, che percepisco io, è la stessa che mostrarono i grossetani quando chiusero le porte in faccia all’imperatore Ludovico il Bavaro, nel 1328, e lui cercò inutilmente di conquistare la città. Visto che non la spuntava, si consolò, dopo aver lasciato sul terreno alcune centinaia dei suoi migliori armigeri, affibbiando a questa gente una sfilza di ingiurie che sono state poi tramandate quasi con un sottile compiacimento. Quasi una medaglia al valore da tenere al petto con onore, come attesta una targa a Porta Vecchia. Così si disse dei maremmani a quel tempo: “uomini maledetti, nefandi, figliolanza di vipere e serpentacci tortuosi, discendenza pestifera, schiatta velenosa, cani rivomitatori e porci rivolgentisi nel brago, attossicata genia, generazione inflessibile e più dura del macigno, grossolani come il loro nome, non piegabili né per blandizie, né per minacce”.


San Lorenzo, il Duomo

Certo, dagli anni in cui mi ci sono trasferito, nel 1975, Grosseto ha cambiato pelle proprio come un “serpentaccio”. Dal punto di vista urbanistico, ma anche alcune consuetudini o tradizioni il tempo se l’è portate via con sé. Il giovedì, per esempio, giorno di mercato fuori Porta Vecchia, in centro città se ne svolgeva uno parallelo, “il mercato delle chiacchiere”, che oggi non esiste più. Si trattava di una convenzione, un rituale, dove chi aveva da trattare un affare, vendere o comprare, bestiame o granaglie, si recava in via Cairoli. Era quello il posto, tra la camera di commercio e piazza Socci. Lì, in mezzo a una zuffa incredibile di gente, piovuta come per incanto da tutto il contado provinciale (ecco perché detto anche “la calata del gosto”), si discutevano i prezzi, ci si stringeva la mano per un accordo, si conoscevano nuove persone tra i sensali in fibrillazione. Una pelle sparita che oggi lascia il posto a nuove dinamiche imposte dall’era dell’economia globalizzata nella quale non ci sono più strette di mano e chiacchiere, ma solo freddi clic su una tastiera del computer.


Piazza Dante

Oggi, dicevo, la città, più che un serpentaccio, sembra diventata un mostruoso grifone bulimico che ogni anno mangia nuovi terreni agricoli e si è allargata in modo spropositato nella fertile pianura dove sembra non volersi arrestare mai. Più che il grano si seminano nuovi centri commerciali con una frenesia cementificatoria senza precedenti. Con sfrontatezza irriverente è arrivata oggi ad espandersi, piano piano, un metro alla volta, fino a lambire il fiume Ombrone. Quieto, quest’ultimo, per molta parte dell’anno, quasi un rivolo insignificante, ma quando si aprono le cataratte del cielo sempre pronto a mostrare il suo carattere irruento, dirompente, capace di invadere senza misericordia campagne e città. Sì, gli argini ci sono, utili in ogni giorno dell’anno anche per fare una corsa in bici o a piedi, ma quando il fiume si arrabbia di brutto, si teme sempre non reggano l’ondata di piena. Allora il dibattito si accende, si recrimina sul fatto che si sarebbero potuti rinforzare, che non si dovevano costruire civili abitazioni così vicine al pericolo, che i piani di evacuazione appaiono insufficienti e, poi, i tanti buoni propositi che se li porta via sempre l’ondata di piena.


Le mura medicee

Grosseto è così, cambia pelle come un “serpentaccio” e si trasforma, talvolta in peggio altre volte in meglio, ma anche se qualcosa non ci torna gli si vuole ancora più bene perché il profumo dei tigli del centro città, a maggio, incanta e sembra siano stati messi lì apposta per sperare in un futuro migliore con fiducia. Ed è forse questo lo spirito del grossetano, scontroso e caparbio, nel quale mi piace specchiarmi.