Gli
scrittori e le città
LA MIA GROSSETO
di
Graziano Mantiloni
Veduta di Grosseto
Ormai
penso di essere considerato grossetano d’adozione essendomi trasferito in città
da oltre quaranta anni. Ma sì, a questo punto posso dirlo con certezza: mi
sento proprio grossetano a tutti gli effetti, fin nel DNA, e lo avverto volente
o nolente, come ci fossi nato. Del resto, Grosseto, “città aperta al vento e ai
forestieri” come diceva Luciano Bianciardi (del quale nel 2022 ricorre il
centenario della nascita), si è sempre caratterizzata come un centro accogliente
per chi viene da fuori in cerca di una sistemazione, un lavoro. E oggi per
rintracciare una generazione di origine autoctona ci vuole il lanternino. Ci si
stabilì anche Carlo Cassola, dal 1948 al 1963. Qualcuno ricorda ancora, nelle
assolate estati maremmane, dalla sua abitazione sopra i portici di piazza
Dante, con le finestre aperte, provenire lo schioccare delle dita sulla
macchina da scrivere. Infatti, qui nacquero alcuni tra i suoi capolavori più
belli: Un cuore arido e Fausto e Anna, oltre al Premio Strega La
ragazza di Bube.
Grosseto: il cuore della città
In
ogni caso, grossetano o maremmano, che dir si voglia, è nell’immaginario
collettivo sinonimo di un popolo caparbio, scorbutico, rude a primo acchito, forse
il portato antico del vivere in una terra ostile, nel fango delle paludi
infestate dalla malaria, che tanti badilanti hanno cercato di trasformare e
rendere più vivibile. Chissà perché, mi chiedo, ma è un dibattito tuttora aperto
tra storici e archeologi, con tutti i luoghi più adatti, gli antichi grossetani
hanno voluto impiantare un centro abitato proprio nel bel mezzo di una palude?
Comunque
sia andata, l’ambiente grossetano, a me ha sempre trasmesso una magica carica di
vitalità. Forse, la carica vitale, che percepisco io, è la stessa che
mostrarono i grossetani quando chiusero le porte in faccia all’imperatore Ludovico
il Bavaro, nel 1328, e lui cercò inutilmente di conquistare la città. Visto che
non la spuntava, si consolò, dopo aver lasciato sul terreno alcune centinaia
dei suoi migliori armigeri, affibbiando a questa gente una sfilza di ingiurie
che sono state poi tramandate quasi con un sottile compiacimento. Quasi una
medaglia al valore da tenere al petto con onore, come attesta una targa a Porta
Vecchia. Così si disse dei maremmani a quel tempo: “uomini maledetti, nefandi, figliolanza di vipere e serpentacci
tortuosi, discendenza pestifera, schiatta velenosa, cani rivomitatori e porci
rivolgentisi nel brago, attossicata genia, generazione inflessibile e più dura
del macigno, grossolani come il loro nome, non piegabili né per blandizie, né
per minacce”.
San Lorenzo, il Duomo
Certo, dagli anni in cui mi ci sono
trasferito, nel 1975, Grosseto ha cambiato pelle proprio come un “serpentaccio”.
Dal punto di vista urbanistico, ma anche alcune consuetudini o tradizioni il
tempo se l’è portate via con sé. Il giovedì, per esempio, giorno di mercato
fuori Porta Vecchia, in centro città se ne svolgeva uno parallelo, “il mercato
delle chiacchiere”, che oggi non esiste più. Si trattava di una convenzione, un
rituale, dove chi aveva da trattare un affare, vendere o comprare, bestiame o
granaglie, si recava in via Cairoli. Era quello il posto, tra la camera di
commercio e piazza Socci. Lì, in mezzo a una zuffa incredibile di gente,
piovuta come per incanto da tutto il contado provinciale (ecco perché detto
anche “la calata del gosto”), si discutevano i prezzi, ci si stringeva la mano
per un accordo, si conoscevano nuove persone tra i sensali in fibrillazione. Una
pelle sparita che oggi lascia il posto a nuove dinamiche imposte dall’era dell’economia
globalizzata nella quale non ci sono più strette di mano e chiacchiere, ma solo
freddi clic su una tastiera del computer.
Piazza Dante
Oggi,
dicevo, la città, più che un serpentaccio, sembra diventata un mostruoso grifone
bulimico che ogni anno mangia nuovi terreni agricoli e si è allargata in modo
spropositato nella fertile pianura dove sembra non volersi arrestare mai. Più
che il grano si seminano nuovi centri commerciali con una frenesia
cementificatoria senza precedenti. Con sfrontatezza irriverente è arrivata oggi
ad espandersi, piano piano, un metro alla volta, fino a lambire il fiume
Ombrone. Quieto, quest’ultimo, per molta parte dell’anno, quasi un rivolo
insignificante, ma quando si aprono le cataratte del cielo sempre pronto a
mostrare il suo carattere irruento, dirompente, capace di invadere senza
misericordia campagne e città. Sì, gli argini ci sono, utili in ogni giorno
dell’anno anche per fare una corsa in bici o a piedi, ma quando il fiume si
arrabbia di brutto, si teme sempre non reggano l’ondata di piena. Allora il
dibattito si accende, si recrimina sul fatto che si sarebbero potuti
rinforzare, che non si dovevano costruire civili abitazioni così vicine al
pericolo, che i piani di evacuazione appaiono insufficienti e, poi, i tanti
buoni propositi che se li porta via sempre l’ondata di piena.
Le mura medicee
Grosseto
è così, cambia pelle come un “serpentaccio” e si trasforma, talvolta in peggio
altre volte in meglio, ma anche se qualcosa non ci torna gli si vuole ancora
più bene perché il profumo dei tigli del centro città, a maggio, incanta e sembra
siano stati messi lì apposta per sperare in un futuro migliore con fiducia. Ed
è forse questo lo spirito del grossetano, scontroso e caparbio, nel quale mi
piace specchiarmi.