Pagine

martedì 15 marzo 2022

IN COSCIENZA
di Paolo Vincenti

 
La famosa foto dell’uomo che si lancia dalle Torri Gemelle nell’attentato dell’11 settembre, ormai divenuta iconica, mi ha fatto sempre pensare alla follia umana, non la follia patologica, che merita il rispetto e le cure dovute, ma quella temporanea, improvvisa, che in un momento di disperazione obnubila i sensi dell’uomo, ne annulla la capacità di discernimento e non gli fa vedere davanti a sé altra strada che quella del suicidio. Di fronte alla morte certa nel crollo del grattacielo, si preferisce darsi una morte volontaria precipitando sull’asfalto. A lungo, le immagini dei tanti profughi siriani, libici, senegalesi, ecc., che trovano la morte nel Mediterraneo, hanno scosso la mia coscienza e mi hanno fatto pensare alla follia, quella di chi tra una morte quasi certa nel fuoco di una guerra civile e quella un po’ meno certa ma molto probabile su una carretta del mare, sceglie quest’ultima via. Ora, di fronte alle drammatiche scene dei cittadini ucraini che fuggono dal paese in guerra, di padri e madri che, al confine con la Polonia, lasciano i propri figli affidandoli alla ventura e tornano indietro nel fuoco dei bombardamenti, per un malinteso senso di ribellione e resistenza, io sento dentro davvero uno straniamento. Mi sembra di toccare con mano il dolore di quei padri e quelle madri, il loro intimo travaglio, la sofferenza di uno strappo, una lacerazione. Questo probabilmente accade perché mai come in questi giorni l’informazione è stata così pervasiva, mettendo impietosamente sotto i nostri occhi le immagini dei tanti disperati che fuggono dalla devastazione e dall’orrore.



Un fiume di gente che abbandona la patria, in quello che potrebbe essere il più grande esodo di massa della storia, se si rivelassero esatte le stime dell’Onu di circa 10 milioni di profughi. Purtroppo, ad una vile aggressione da parte della Russia nei confronti di uno stato libero e sovrano come l’Ucraina, si risponde con una ostinata difesa da parte del paese aggredito, incoraggiata dall’Occidente e foraggiata con armi e finanziamenti. È sempre il partito della guerra che predomina, come scrive Angelo Gaccione sul sito Odissea: “nei Parlamenti, nelle Cancellerie, tra le Associazioni sportive, nelle Università, in tutti i partiti italiani, nelle Televisioni, su quasi tutti i giornali, in una fetta importante delle opinioni pubbliche mondiali, tra persone istruite, colte, pacifiche e caratterialmente miti. Compresi i nostri stessi amici e familiari.



Il concetto di guerra è radicato nelle coscienze e nelle culture come un cancro maligno e inestirpabile. Non si è evoluto neppure con l’ingresso nell’era atomica e nucleare, e non ha ricevuto insegnamento dalle disastrose guerre mondiali. Il concetto di difesa resta basato essenzialmente sulla difesa armata; non pare concepibile nessun’altra forma: la palingenesi, costi quel che costi. Dobbiamo prenderne atto perché così stanno le cose, lo si voglia o no. L’idea di disarmo, l’abolizione delle armi, il divieto a produrle e ad esportarle, la cancellazione dei confini e dei muri, non rientrano nel sentire comune. Ci si sente più sicuri con la loro esistenza; anzi, più sono terribili e sterminatrici più ci si sente rassicurati”. Alla guerra segue il dramma umanitario che è sotto i nostri occhi. Nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può dire “non sapevo”, ciascuno è chiamato a fare la propria parte. Nell’era multimediale, sono soprattutto i giovani, perennemente connessi ai social, a dare la sveglia ai più maturi e compassati. Attraverso il web, infatti, il flusso di immagini in real time, ci attraversa, scorre sopra di noi, ed il sangue, le grida, la paura; ci sembra di patire anche noi la fame e il freddo, compagni di pena degli ucraini, a loro affratellati e assorellati. Il dolore raccontato minuto per minuto attraverso Facebook, Instagram, Twitter, YouTube, sui nostri cellulari, scuote la coscienza: quella coscienza, di cui tutti parliamo anche se non sappiamo bene cos’è. Cleto Camposanto, sul numero del 6 marzo 2022 de “Il Quotidiano del sud”, si chiede se la coscienza collettiva sia migliore di quella individuale e fa una lunga disamina sulla storia del pensiero sulla coscienza da Platone e Aristotele, passando per il Cristianesimo, Locke e Nietzsche, fino ad arrivare alle moderne neuroscienze. Io non so se ho fede nella coscienza collettiva, ovvero quel sistema di idee e valori condivisi che trasformano un insieme di persone in una comunità, ma sono d’accordo sul fatto che una comunità sia quella “che agisce appunto, con coscienza in tutte le occasioni della vita. Ce ne sarebbe bisogno, a vedere come vanno le cose sul nostro pianeta: anche quelle avverse, che perfino all’occhio meno attento possono sembrare emergenze improvvise e non evoluzioni naturali delle cose. In fondo, usare la coscienza collettiva è proprio la nostra caratteristica di esseri evoluti”.