La
famosa foto dell’uomo che si lancia dalle Torri Gemelle nell’attentato dell’11
settembre, ormai divenuta iconica, mi ha fatto sempre pensare alla follia
umana, non la follia patologica, che merita il rispetto e le cure dovute, ma
quella temporanea, improvvisa, che in un momento di disperazione obnubila i
sensi dell’uomo, ne annulla la capacità di discernimento e non gli fa vedere
davanti a sé altra strada che quella del suicidio. Di fronte alla morte certa
nel crollo del grattacielo, si preferisce darsi una morte volontaria
precipitando sull’asfalto. A lungo, le immagini dei tanti profughi siriani,
libici, senegalesi, ecc., che trovano la morte nel Mediterraneo, hanno scosso
la mia coscienza e mi hanno fatto pensare alla follia, quella di chi tra una
morte quasi certa nel fuoco di una guerra civile e quella un po’ meno certa ma
molto probabile su una carretta del mare, sceglie quest’ultima via. Ora, di
fronte alle drammatiche scene dei cittadini ucraini che fuggono dal paese in
guerra, di padri e madri che, al confine con la Polonia, lasciano i propri
figli affidandoli alla ventura e tornano indietro nel fuoco dei bombardamenti,
per un malinteso senso di ribellione e resistenza, io sento dentro davvero uno
straniamento. Mi sembra di toccare con mano il dolore di quei padri e quelle
madri, il loro intimo travaglio, la sofferenza di uno strappo, una lacerazione.
Questo probabilmente accade perché mai come in questi giorni l’informazione è
stata così pervasiva, mettendo impietosamente sotto i nostri occhi le immagini
dei tanti disperati che fuggono dalla devastazione e dall’orrore.
Un fiume di
gente che abbandona la patria, in quello che potrebbe essere il più grande
esodo di massa della storia, se si rivelassero esatte le stime dell’Onu di
circa 10 milioni di profughi. Purtroppo, ad una vile aggressione da parte della
Russia nei confronti di uno stato libero e sovrano come l’Ucraina, si risponde
con una ostinata difesa da parte del paese aggredito, incoraggiata dall’Occidente
e foraggiata con armi e finanziamenti. È sempre il partito della guerra che
predomina, come scrive Angelo Gaccione sul sito Odissea: “nei Parlamenti, nelle
Cancellerie, tra le Associazioni sportive, nelle Università, in tutti i partiti
italiani, nelle Televisioni, su quasi tutti i giornali, in una fetta importante
delle opinioni pubbliche mondiali, tra persone istruite, colte, pacifiche e
caratterialmente miti. Compresi i nostri stessi amici e familiari.
Il concetto di guerra è radicato
nelle coscienze e nelle culture come un cancro maligno e inestirpabile. Non si
è evoluto neppure con l’ingresso
nell’era atomica e nucleare, e non ha ricevuto insegnamento dalle disastrose
guerre mondiali. Il concetto di difesa resta basato essenzialmente sulla difesa
armata; non pare concepibile nessun’altra forma: la palingenesi, costi quel che
costi. Dobbiamo prenderne atto perché così stanno le cose, lo si voglia o no.
L’idea di disarmo, l’abolizione delle armi, il divieto a produrle e ad
esportarle, la cancellazione dei confini e dei muri, non rientrano nel sentire
comune. Ci si sente più sicuri con la loro esistenza; anzi, più sono terribili
e sterminatrici più ci si sente rassicurati”. Alla guerra segue il dramma
umanitario che è sotto i nostri occhi. Nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può
dire “non sapevo”, ciascuno è chiamato a fare la propria parte. Nell’era
multimediale, sono soprattutto i giovani, perennemente connessi ai social, a
dare la sveglia ai più maturi e compassati. Attraverso il web, infatti, il
flusso di immagini in real time, ci attraversa, scorre sopra di noi, ed
il sangue, le grida, la paura; ci sembra di patire anche noi la fame e il
freddo, compagni di pena degli ucraini, a loro affratellati e assorellati. Il
dolore raccontato minuto per minuto attraverso Facebook, Instagram, Twitter, YouTube,
sui nostri cellulari, scuote la coscienza: quella coscienza, di cui tutti
parliamo anche se non sappiamo bene cos’è. Cleto Camposanto, sul numero del 6
marzo 2022 de “Il Quotidiano del sud”, si chiede se la coscienza collettiva sia
migliore di quella individuale e fa una lunga disamina sulla storia del pensiero
sulla coscienza da Platone e Aristotele, passando per il Cristianesimo, Locke e
Nietzsche, fino ad arrivare alle moderne neuroscienze. Io non so se ho fede
nella coscienza collettiva, ovvero quel sistema di idee e valori condivisi che
trasformano un insieme di persone in una comunità, ma sono d’accordo sul fatto
che una comunità sia quella “che agisce appunto, con coscienza in tutte le
occasioni della vita. Ce ne sarebbe bisogno, a vedere come vanno le cose sul
nostro pianeta: anche quelle avverse, che perfino all’occhio meno attento
possono sembrare emergenze improvvise e non evoluzioni naturali delle cose. In
fondo, usare la coscienza collettiva è proprio la nostra caratteristica di
esseri evoluti”.