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martedì 28 giugno 2022

LA POESIA DI GACCIONE
di Marina Corona

A. Gaccione
 
Non a caso la prima e più importante sezione dell’ultimo libro di poesia di Angelo Gaccione Spore (Interlinea 2020 pagg. 88 € 12,00) si chiama “Per il verso giusto”. L’evidente doppio senso impronta infatti di sé tutta l’opera: da un lato il testo è delicatamente poetico, i suoi brevissimi componimenti sono uno per uno conclusi in un’armonia fatta di sensibilità, suggerimenti, impressioni, dall’altro il contenuto si muove su un piano etico che ha a tratti accenti addirittura mistici, riferimenti al Nuovo Testamento, ma anche consigli sapienziali tratteggiati con la modestia di chi sa che le grandi lezioni non hanno bisogno di toni roboanti ma dell’umile e semplice verità che ci viene dalla vita vissuta. Ma non pensate per questo a un testo algido o dogmatico, fin dall’inizio infatti possiamo notare una tenera vena ironica che forma uno dei tratti portanti di questo lavoro:
 
Piantò il pianto.
lo seppellì profondo,
voleva eliminarlo
dalla faccia del mondo.
Nacque il salice.
Ne fu contento.
 
La leggerezza dell’autore nel trattare questa delicata materia arriva al punto che alcuni componimenti sembrano addirittura indovinelli. Ma le sfumature tra l’una e l’altra poesia, pur nella compattezza della forma e dell’argomento, sono infinite. Ecco, ad esempio, un componimento con addirittura un accento macabro:
 
Il tempo prende a tutti le misure.
Un metro o poco più.
È tutto.
 
Oppure, dietro l’ironia e l’apparente nonsenso troviamo un componimento dal contenuto attualissimo:
 
All’uomo! All’uomo!
gridò il lupo.
E non fu il solo
a prendere la via del bosco.
 
Il contenuto religioso, sentito e puro nell’animo del poeta, traluce in tutta un’ampia parte di “Per il verso giusto”. Lontanissimo dalle disinvolte tematiche che imprigionano il nostro tempo in una tragica assenza del senso della vita, Gaccione è però ben conscio della pochezza e anche della eventuale malvagità umana. Il suo non vuole essere un testo consolatorio, ciò a cui tende con la delicatezza del lirismo è un realismo esistenziale che può essere anche impietoso:
 
Calzavano scarpe robuste,
fin troppo per quella stagione.
Avevano seminato spine
in ogni dove.
 
L’autore è certamente un uomo coraggioso, estraneo agli schemi narcisistici e iper-erotizzati della nostra società, non teme di far riferimento a considerazioni di profonda umanità e saggezza, più in voga forse nei tempi passati ma che, presentati nel loro involucro poetico, sembrano ritornare di toccante attualità:
 
Quel che ci mancò fu l’affetto.
Di amore ne avevamo fin troppo.
Sempre rimpiangeremo,
fino alla fine dei giorni,
una semplice carezza sul viso,
una parola buona.
 
E, come abbiamo già detto, da questa consapevolezza molto umana si passa, non con uno slancio volontaristico ed esibito, ma con una sorta di blanda ascensione ad una saggezza evangelica:
 
Tutto il male del mondo non bastò,
a fare dei nostri cuori una pietra.
Si era seminato bene in quella stagione.
Molto bene.
 
Con il tema del granello di senape seminato su di un terreno fecondo, la prima e più ampia sezione del libro, “Per il verso giusto” appunto, procede verso una sezione più breve che ha la funzione anche di commiato da parte dell’autore e che si chiama “La presenza di morti”. Sono queste liriche tutte di narrazione dove si racconta di un ritorno ad immagini legate ad un passato, ormai tramontato, trascorso con persone molto amate. Ma la strada verso questa sezione, che dall’alto dei cieli ci riporta sulla terra, è un incipit passionale, carnale quasi, dove l’afflato poetico diviene tragico:
 
Amore che lontano stai partendo,
su un bastimento che mi dà la morte,
non bussare mai più alla mia porta,
nessuno quella porta ti aprirà.
 
E più avanti, verso l’ingresso ne “La presenza dei morti.” Troviamo:
 
Lei mi dà la sua dose
di veleno quotidiano,
ma è divenuto così necessario per me,
che senza il suo veleno,
sarei già morto.
 
Le poche poesie che seguono sono soffuse da una malinconia che è resa da una sapientissima perizia psicologica:
 
Si privò un po’ alla volta di tutto:
mobili, quadri, libri…
Restarono solo i segni sui muri,
le impronte sulle pareti.
Finalmente la casa fu vuota.
Ma fu un’impresa vana,
i ricordi lo assediavano da ogni lato.
 
Ma eccoci giunti finalmente ne “La presenza dei morti” che oltre ai ricordi è anche una malinconica meditazione da parte dell’autore sulla fine della nostra vita:
 
Sulla poltrona di vimini in giardino,
la sua forma vi si è rappresa.
Vivida, come se un torchio, ve l’avesse incisa.
Un ramo del pesco le fa ombra al viso.
E ogni volta che riapro la casa,
ho quasi la tentazione di svegliarla.
 
Le immagini dei propri cari assediano dunque l’autore come presenze fantasmatiche indelebili che formano un corteo silenzioso nelle ore della sua vita, prima descritta con tanta vivacità e partecipazione:
 
Di te, non voglio che ricordare il lutto
che mi ha reso orfano.
Il vuoto che ho provato all’improvviso,
d’essere solo al mondo.
Ero padre anch’io, ma me ne accorsi,
quando persi te.

 
E con questo infinito scorrere di una catena che dal regno dei defunti ci porta nel futuro degli affetti che ci sopravviveranno giunge al suo termine il percorso di Gaccione. Sono parole estremamente sincere le sue, grazie alle quali l’abbiamo accompagnato nel corso della vita fino al tema del commiato. Possiamo dire che ogni poesia, nella sua grazia formale e nella sua luce di verità, è simile ad una conchiglia che riflette la dura madreperla della vita e del tempo che fugge con la sua bianca luce di sincerità e tutte queste conchiglie, collegate dal filo sottile della poesia, formano una bellissima collana che, a libro chiuso, porteremo con noi come talismano.