Non
a caso la prima e più importante sezione dell’ultimo libro di poesia di Angelo
Gaccione Spore (Interlinea 2020 pagg. 88 € 12,00) si chiama “Per il
verso giusto”. L’evidente doppio senso impronta infatti di sé tutta l’opera: da
un lato il testo è delicatamente poetico, i suoi brevissimi componimenti sono
uno per uno conclusi in un’armonia fatta di sensibilità, suggerimenti,
impressioni, dall’altro il contenuto si muove su un piano etico che ha a tratti
accenti addirittura mistici, riferimenti al Nuovo Testamento, ma anche consigli
sapienziali tratteggiati con la modestia di chi sa che le grandi lezioni non
hanno bisogno di toni roboanti ma dell’umile e semplice veritàche ci viene dalla vita vissuta. Ma non
pensate per questo a un testo algido o dogmatico, fin dall’inizio infatti
possiamo notare una tenera vena ironica che forma uno dei tratti portanti di
questo lavoro: Piantò
il pianto. lo
seppellì profondo, voleva
eliminarlo dalla
faccia del mondo. Nacque
il salice. Ne
fu contento. La
leggerezza dell’autore nel trattare questa delicata materia arriva al punto che
alcuni componimenti sembrano addirittura indovinelli. Ma le sfumature tra l’una
e l’altra poesia, pur nella compattezza della forma e dell’argomento, sono
infinite. Ecco, ad esempio, un componimento con addirittura un accento macabro: Il
tempo prende a tutti le misure. Un
metro o poco più. È
tutto. Oppure,
dietro l’ironia e l’apparente nonsenso troviamo un componimento dal contenuto
attualissimo: All’uomo!
All’uomo! gridò
il lupo. E
non fu il solo a
prendere la via del bosco. Il
contenuto religioso, sentito e puro nell’animo del poeta, traluce in tutta un’ampia
parte di “Per il verso giusto”. Lontanissimo dalle disinvolte tematiche che
imprigionano il nostro tempo in una tragica assenza del senso della vita,
Gaccione è però ben conscio della pochezza e anche della eventuale malvagità
umana. Il suo non vuole essere un testo consolatorio, ciò a cui tende con la
delicatezza del lirismo è un realismo esistenziale che può essere anche
impietoso: Calzavano
scarpe robuste, fin
troppo per quella stagione. Avevano
seminato spine in
ogni dove. L’autore
è certamente un uomo coraggioso, estraneo agli schemi narcisistici e iper-erotizzati
della nostra società, non teme di far riferimento a considerazioni di profonda
umanità e saggezza, più in voga forse nei tempi passati ma che, presentati nel
loro involucro poetico, sembrano ritornare di toccante attualità: Quel
che ci mancò fu l’affetto. Di
amore ne avevamo fin troppo. Sempre
rimpiangeremo, fino
alla fine dei giorni, una
semplice carezza sul viso, una
parola buona. E,
come abbiamo già detto, da questa consapevolezza molto umana si passa, non con
uno slancio volontaristico ed esibito, ma con una sorta di blanda ascensione ad
una saggezza evangelica: Tutto
il male del mondo non bastò, a
fare dei nostri cuori una pietra. Si
era seminato bene in quella stagione. Molto
bene. Con
il tema del granello di senape seminato su di un terreno fecondo, la prima e
più ampia sezione del libro, “Per il verso giusto” appunto, procede verso una
sezione più breve che ha la funzione anche di commiato da parte dell’autore e
che si chiama “La presenza di morti”. Sono queste liriche tutte di narrazione
dove si racconta di un ritorno ad immagini legate ad un passato, ormai
tramontato, trascorso con persone molto amate. Ma la strada verso questa
sezione, che dall’alto dei cieli ci riporta sulla terra, è un incipit
passionale, carnale quasi, dove l’afflato poetico diviene tragico: Amore
che lontano stai partendo, su
un bastimento che mi dà la morte, non
bussare mai più alla mia porta, nessuno
quella porta ti aprirà. E
più avanti, verso l’ingresso ne “La presenza dei morti.” Troviamo: Lei
mi dà la sua dose di
veleno quotidiano, ma
è divenuto così necessario per me, che
senza il suo veleno, sarei
già morto. Le
poche poesie che seguono sono soffuse da una malinconia che è resa da una
sapientissima perizia psicologica: Si
privò un po’ alla volta di tutto: mobili,
quadri, libri… Restarono
solo i segni sui muri, le
impronte sulle pareti. Finalmente
la casa fu vuota. Ma
fu un’impresa vana, i
ricordi lo assediavano da ogni lato. Ma
eccoci giunti finalmente ne “La presenza dei morti” che oltre ai ricordi è
anche una malinconica meditazione da parte dell’autore sulla fine della nostra
vita: Sulla
poltrona di vimini in giardino, la
sua forma vi si è rappresa. Vivida,
come se un torchio, ve l’avesse incisa. Un
ramo del pesco le fa ombra al viso. E
ogni volta che riapro la casa, ho
quasi la tentazione di svegliarla. Le
immagini dei propri cari assediano dunque l’autore come presenze fantasmatiche
indelebili che formano un corteo silenzioso nelle ore della sua vita, prima
descritta con tanta vivacità e partecipazione: Di
te, non voglio che ricordare il lutto che
mi ha reso orfano. Il
vuoto che ho provato all’improvviso, d’essere
solo al mondo. Ero
padre anch’io, ma me ne accorsi, quando
persi te.
E
con questo infinito scorrere di una catena che dal regno dei defunti ci porta
nel futuro degli affetti che ci sopravviveranno giunge al suo termine il percorso
di Gaccione. Sono parole estremamente sincere le sue, grazie alle quali l’abbiamo
accompagnato nel corso della vita fino al tema del commiato. Possiamo dire che
ogni poesia, nella sua grazia formale e nella sua luce di verità, è simile ad
una conchiglia che riflette la dura madreperla della vita e del tempo che fugge
con la sua bianca luce di sincerità e tutte queste conchiglie, collegate dal
filo sottile della poesia, formano una bellissima collana che, a libro chiuso,
porteremo con noi come talismano.