7 LUGLIO 1960: MORTI DI REGGIO EMILIA di
Franco Astengo
La strage di Reggio Emilia avvenne il 7 luglio 1960 durante una
manifestazione sindacale nel centro della città, dove le forze dell'ordine
uccisero cinque civili inermi, tutti operai iscritti al PCI:Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio
Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli, poi detti “i morti di
Reggio Emilia”. Era
l’Italia del 1960. Ci si trovava in pieno miracolo economico, ma il benessere
nascondeva profonde lacerazioni politiche e sociali. Si stava provando, con fatica, a uscire dagli
anni’50 e a far nascere il centrosinistra.Un giovane
democristiano, Fernando Tambroni esponente della corrente del presidente della
Repubblica Gronchi, assumeva la Presidenza del Consiglio sostenuto da una
maggioranza comprendente il partito neofascista, l’MSI.Quell’MSI che stava tornando alla ribalta con la sua
ideologia e la sua iniziativa: quell’MSI che decise, alla fine del mese di giugno,
di tenere il suo congresso a Genova, Città medaglia d’oro della Resistenza. L’antifascismo, vecchio e nuovo, disse di no. Comparvero sulle
piazze i giovani dalle magliette a strisce, i portuali, i partigiani. La
Resistenza riuscì a sconfiggere il rigurgito fascista. Ma si trattò di una
vittoria amara, a Reggio Emilia e in altre città la polizia sparò sulla folla
causando numerose vittime.
Oggi, a sessantadue anni di distanza possiamo meglio valutare
l’esito di quei fatti: le contraddizioni che ne seguirono, il rattrappirsi
progressivo della realtà riformatrice (a partire dal “tintinnar di sciabole”
dell’estate 1964, fino alla disgraziata stagione del terrorismo, aperta nel
1969 dalle bombe di Piazza della Fontana), l’assunzione, in particolare da
parte del PSI, via, via, di una vocazione “governista” sfociata nel decisionismo
craxiano, i limiti di puro politicismo insiti nella strategia berlingueriana
del “compromesso storico”, nello sviluppo abnorme di quella che già dagli
anni’50 Maranini aveva definito come partitocrazia (con il contributo di un
complessivo “consociativismo” allargato all’intero arco parlamentare) e,
infine, nella “questione morale” che segnò, all’inizio degli anni’90, lo
sconquasso definitivo del quadro di governo in coincidenza con la caduta del
muro di Berlino (sulla quale furono commessi errori di valutazione enormi) e
con l’avvio, con il trattato di Maastricht, della logica monetarista
anti-democratica di gestione dell’Unione Europea sul modello
reaganian-tachteriano della crescita delle diseguaglianze economiche e sociali
fino alla drammatica attualità che stiamo vivendo in un quadro esaltato da un
insieme di valori negativi. Forse luglio’60 rappresentò uno degli ultimi passaggi utili per
contrastare radicalmente questo processo di involuzione e riproporre alcune
radici di fondo della prospettiva resistenziale ma è necessario ammettere,
anche in un momento di rievocazione importante come l’attuale, che quel
messaggio non fu completamente colto. Questi i fatti, accaduti in quell’intenso e drammatico
inizio d’estate di cinquantanove anni fa: è necessario, però, tornarvi sopra
per riflettere, partendo da un dato.Non si trattò semplicemente di un moto di piazza, di opposizione
alla scelta provocatoria di una forza politica come quella compiuta dall’MSI di
convocare il proprio congresso a Genova e di annunciare anche come quell’assise
sarebbe stata presieduta da Basile, soltanto quindici anni prima, protagonista
nella stessa Città di torture e massacri verso i partigiani e la popolazione. Si
trattò, invece, di un punto di vero e proprio snodo della storia sociale e
politica d’Italia.
Erano
ancora vivi e attivi quasi tutti i protagonisti della vicenda che era parsa
chiudersi nel 1945, ed è sempre necessario considerare come quei fatti si inserissero
dentro una crisi gravissima degli equilibri politici. Una
crisi inserita anche in un mutamento profondo dello scenario internazionale,
nel quale si muovevano i primi passi del processo di distensione ed era in atto
il fenomeno della “decolonizzazione”, in particolare, in Africa, con la nascita
del movimento dei “non allineati”. Prima
ancora, però, dovrebbe essere valutato un elemento di fondamentale importanza:
si è già accennato all’entrata in scena di quella che fu definita la
generazione “dalle magliette a strisce”, i giovani che per motivi d’età non
avevano fatto la Resistenza, ma ne avevano respirato l’aria entrando in
fabbrica o studiando all’Università accanto ai fratelli maggiori; giovani che
avevano vissuto il passaggio dall’Italia arretrata degli anni’40-’50 all’Italia
del boom, della modernizzazione, del consumismo, delle migrazioni bibliche dal
Sud al Nord, di una difficile integrazione sociale e culturale. In
questo senso i moti del Luglio’60 non possono essere considerati semplicemente un
punto di saldatura tra le generazioni, anzi rappresentavano un momento di
conflitto, di richiesta di cambiamento profondo, non limitato agli equilibri
politici. In
quel Luglio ’60, da non considerare – ripetiamo – soltanto per i fatti accaduti
in quei giorni, ma nel complesso di una fase di cambiamento della società e
della politica, si aprì, ancora, a sinistra, una discussione sulla natura della
DC, fino a quel momento perno fondamentale del sistema politico italiano. Molti
si chiesero, a quel momento, se dentro la DC covasse il “vero fascismo”
italiano: non quello rumoroso e un poco patetico del MSI, ma quello vero;
quello che poteva considerarsi il vero referente dei ceti dominanti, capace di
portare al blocco sociale di potere l’apporto della piccola e media borghesia. Il
partito democristiano appariva, dunque, a una parte della sinistra, soprattutto
nei giorni infuocati della repressione, come il partito che avrebbe potuto in
qualunque momento rimettere in moto in Italia (ricordiamolo ancora una volta:
eravamo a soli quindici anni dalla Liberazione) un meccanismo politico –sociale
–repressivo -autoritario tale da dar vita a nuove esperienze di tipo fascista. L’analisi
sviluppata dal PCI togliattiano fu diversa. Nonostante
le asprezze della polemica quotidiana il PCI aveva assunto come stella polare
di tutta la sua strategia l’intesa con le masse cattoliche, da sottrarre al
predominio moderato prevalente dal ’47 in poi (grazie alla “guerra fredda”) al
vertice della DC.