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domenica 21 agosto 2022

ERASMO E LA GUERRA
di Franco Toscani

Erasmo da Rotterdam
 
La sovrabbondanza dei mali della guerra e il valore della pace.
 
Erasmo vuole giustamente spazzar via tutti i sofismi, le teorie giustificazioniste che fanno ricorso alle guerre di aggressione adducendo motivazioni di difesa preventiva e incolpando gli aggrediti di aver provocato ineluttabilmente la guerra stessa. Egli mette a confronto la guerra (discordia) come res miserrima et sceleratissima ("la condizione più miserevole e più nefanda") e la pace (concordia) come res felicissima et optima ("la condizione più prospera e più benefica"). Facendo questo confronto, emerge con chiarezza la profonda dementia (follia, demenza) della guerra, con tutto ciò che essa comporta: disordine (tumultus), fatiche, spese, pericolo permanente, sventure. Ancora una volta l'autore di Dulce bellum inexpertis* contrappone al disvalore assoluto della guerra il valore assoluto della pace (concordia), fatta di amicitia. Che cos'altro è infatti la pax (o concordia) - ossia qualcosa di cui al mondo non v'è nient'altro di "più soave" (dulcius) e di "più proficuo" (melius) -, se non "amicizia generalizzata" (multorum inter ipsos amicitia), fruttuosa convivenza tra popoli e tra stati? (cfr. AD, 224-225).
Erasmo pensa a fondo il significato della pace, di questa parola a cui sovente l'umanità non dà peso, ma del cui valore ci rendiamo conto quando viene a mancare e scrive: "Pax omnium bonarum rerum et parens est et nutrix" ("La pace è madre e nutrice di ogni bene", AD, 224-225). Solo nella pace, infatti, il mondo può risplendere in tutta la sua semplicità e bellezza.



Nella pace tutto può crescere e svilupparsi, con la guerra il mondo è inondato di mali, diventa ingens malorum pegasus, si scatena una violenza inaudita, alla quale ci si può abituare: "Adeo proclivius est laedere quam benefacere ("fare il male è tanto più facile che fare il bene!"). Il male dilaga: "Moerent domus metu, luctu et querimoniis, lamentis complentur omnia" ("Le case sono funestate da lutto, angoscia, pianto. Ogni angolo risuona di lamenti"); i mali concernono e colpiscono in forme diverse tutti, i poveri vedono peggiorare la loro già triste condizione, i ricchi temono di perdere le loro ricchezze e i loro privilegi, i lavoratori  sono impossibilitati a svolgere il loro lavoro o vedono distrutto il frutto del loro operato, molti bambini sono traumatizzati o rimangono orfani, i giovani, le donne e gli anziani scoprono compromessi il loro futuro e le loro condizioni di esistenza; il prezzo delle sciagure della guerra viene pagato insomma dall'intera popolazione civile, in particolare dai più deboli e innocenti, dai più indifesi e svantaggiati, dagli emarginati. Da un punto di vista etico e antropologico, ridetur humanitas, il senso dell'umano viene deriso, la pietà e l'umana solidarietà diventano oggetto di scherno (si rammenti anche, nel XX secolo, il lugubre motto fascista "pietà l'è morta!"); tendono pure a venir meno leges (leggi) ed aequitas (giustizia), non ci sono più spazio e considerazione pure per il fruttuoso raccoglimento degli studi ("nullus honos honestis literarum studiis", "i nobili studi delle lettere non trovano più alcun onore"). Sono dunque tali e tante le sventure della guerra che nessuna descrizione può risultare esauriente (cfr. AD, 226-227). Le parole non riescono a render conto di tutto l'orrore e lo strazio della guerra, che non soltanto ci coinvolge nelle sventure, ma anche nei delitti e nelle empietà, mentre la pace rende la nostra vita non solo più prospera e felice, ma anche più buona (cfr. AD, 226-229).
Senza la guerra, l'umanità è già afflitta da sin troppi mali da fronteggiare, a cominciare da quella malattia incurabile che è la vecchiaia (senectus ipsa morbus immedicabilis, scrive l'autore di Dulce bellum inexpertis, riprendendo un detto di Publio Terenzio Afro nella commedia Phormio del 160 a. C., sul quale tornò a riflettere anche Poggio Bracciolini nel suo De miseria humanae condicionis, 1455); non si avverte dunque alcun bisogno di aggiunte così dolorose come la guerra! (cfr. AD, 228-229).



Erasmo fa un elenco minuzioso e impressionante dei mali pressoché infiniti riguardanti la vita quotidiana degli uomini e conclude: "Nulla pars orbis est unde non immineat periculum humanae vitae alioqui per se quoque fugacissimae" ("Nel mondo non c'è elemento che non rappresenti una minaccia incombente sulla vita dell'uomo, già di per sé fugacissima"). Tanti sono i mali che già Omero nell'Iliade dichiarò l'uomo "il più infelice dei viventi" (miserrimus animantium). Leggiamo infatti nell'Iliade (XVII, vv. 446-447) sulla condizione umana: "ο μν γάρ τί πού στιν ϊζυρώτερον νδρς πάντων σσα τε γααν πι πνείει τε κα ρπει" ("non c'è nulla più degno di pianto dell'uomo, / fra tutto ciò che respira e cammina sulla terra").**
Molti mali, però, sono inscritti nelle leggi della natura, irrimediabili e indipendenti dalla nostra volontà, possono fare di noi degli sciagurati o sventurati (calamitosi); la guerra, invece, fa di noi dei facinorosi, ossia dei delinquenti, scellerati, malvagi, in quanto responsabili delle nostre azioni. È dunque assurdo, totalmente insensato tirarci addosso il male volontariamente, con la nostra scelta e responsabilità; non un male qualsiasi, poi, ma proprio quel malum che, tra tutti i mali, è particolarmente orribile (teterrimum), rovinoso (perniciosum), prolifico (foecundum) e ci rende miserrimi allo stesso tempo che indegni di commiserazione, fatta eccezione per coloro che lo subiscono senza colpe (cfr. AD, 228-229).
I frutti e le opportunità della pace (commoda pacis) si diffondono latissime ("a largo raggio") e a molti, mentre i vantaggi della guerra - sovente effimeri, transitori e assai discutibili - riguardano sempre pochi e spregevoli esseri umani (pauci indigni, sceleratissimi). Come già sappiamo, infatti, la "cultura della pace" di Erasmo considera la pace res tum optima tum iucundissima; la guerra, invece, con tutti i suoi spaventi (metus) e rischi (pericula), res miserrima et sceleratissima; se le cose stanno così, soltanto un folle può, oltretutto "fra le più grandi difficoltà" (summis difficultatibus), scegliere e assecondare quest'ultima (cfr. AD, 230-231, 258-259).
La disamina erasmiana non manca poi di soffermarsi con lucidità sulle ristrettezze e sui disagi, sulle miserie e sulle asprezze, sulla vera e propria maledizione della stessa vita quotidiana dei soldati durante le guerre, costretti alla più totale obbedienza e sottoposti ad una schiavitù (servitus) più indegna di quella degli schiavi (cfr. AD, 230-233). L'aut-aut di chi combatte o si trova in una situazione di guerra non lascia scampo, è secco: si è vittime o carnefici, si è obbligati a uccidere o a morire, si fa il male o lo si riceve; in ogni caso, si è irretiti nel male nostro e altrui; ma chi partecipa della humanitas, ricorrendo al lume della ragione, non può scegliere il male.


 
Note
[*] È da raccomandare l'ottima edizione italiana di Iulius exclusus e coelis (1517), in Erasmo da Rotterdam, Giulio, a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino 2014. Sul rapporto fra potentiae clavis e scientiae clavis, cfr. le pp. 4-5.
  
[**]
Omero, Iliade, XVII, 446-447, a cura di R. Calzecchi Onesti, Prefazione di F. Codino, Einaudi, Torino, 1950 e 1990, pp. 622-623.