La
sovrabbondanza dei mali della guerra e il valore della pace. Erasmo
vuole giustamente spazzar via tutti i sofismi, le teorie giustificazioniste che
fanno ricorso alle guerre di aggressione adducendo motivazioni di difesa
preventiva e incolpando gli aggrediti di aver provocato ineluttabilmente la
guerra stessa. Egli mette a confronto la guerra (discordia) come res
miserrima et sceleratissima ("la condizione più miserevole e più
nefanda") e la pace (concordia) come res felicissima et optima
("la condizione più prospera e più benefica"). Facendo questo
confronto, emerge con chiarezza la profonda dementia (follia, demenza)
della guerra, con tutto ciò che essa comporta: disordine (tumultus),
fatiche, spese, pericolo permanente, sventure. Ancora una volta l'autore di Dulce
bellum inexpertis* contrappone al disvalore assoluto della guerra il valore
assoluto della pace (concordia), fatta di amicitia. Che cos'altro è
infatti la pax (o concordia) - ossia qualcosa di cui al mondo non v'è
nient'altro di "più soave" (dulcius) e di "più
proficuo" (melius) -, se non "amicizia generalizzata" (multorum
inter ipsos amicitia), fruttuosa convivenza tra popoli e tra stati? (cfr.
AD, 224-225). Erasmo
pensa a fondo il significato della pace, di questa parola a cui sovente
l'umanità non dà peso, ma del cui valore ci rendiamo conto quando viene a
mancare e scrive: "Pax omnium bonarum rerum et parens est et nutrix"
("La pace è madre e nutrice di ogni bene", AD, 224-225). Solo nella
pace, infatti, il mondo può risplendere in tutta la sua semplicità e bellezza.
Nella
pace tutto può crescere e svilupparsi, con la guerra il mondo è inondato di
mali, diventa ingens malorum pegasus, si scatena una violenza inaudita,
alla quale ci si può abituare: "Adeo proclivius est laedere quam
benefacere ("fare il male è tanto più facile che fare il bene!").
Il male dilaga: "Moerent domus metu, luctu et querimoniis, lamentis
complentur omnia" ("Le case sono funestate da lutto, angoscia,
pianto. Ogni angolo risuona di lamenti"); i mali concernono e colpiscono
in forme diverse tutti, i poveri vedono peggiorare la loro già triste
condizione, i ricchi temono di perdere le loro ricchezze e i loro privilegi, i
lavoratorisono impossibilitati a
svolgere il loro lavoro o vedono distrutto il frutto del loro operato, molti
bambini sono traumatizzati o rimangono orfani, i giovani, le donne e gli
anziani scoprono compromessi il loro futuro e le loro condizioni di esistenza;
il prezzo delle sciagure della guerra viene pagato insomma dall'intera
popolazione civile, in particolare dai più deboli e innocenti, dai più indifesi
e svantaggiati, dagli emarginati. Da un punto di vista etico e antropologico, ridetur
humanitas, il senso dell'umano viene deriso, la pietà e l'umana solidarietà
diventano oggetto di scherno (si rammenti anche, nel XX secolo, il lugubre
motto fascista "pietà l'è morta!"); tendono pure a venir meno leges
(leggi) ed aequitas (giustizia), non ci sono più spazio e considerazione
pure per il fruttuoso raccoglimento degli studi ("nullus honos honestis
literarum studiis", "i nobili studi delle lettere non trovano più
alcun onore"). Sono dunque tali e tante le sventure della guerra che
nessuna descrizione può risultare esauriente (cfr. AD, 226-227). Le parole non
riescono a render conto di tutto l'orrore e lo strazio della guerra, che non
soltanto ci coinvolge nelle sventure, ma anche nei delitti e nelle empietà,
mentre la pace rende la nostra vita non solo più prospera e felice, ma anche
più buona (cfr. AD, 226-229). Senza
la guerra, l'umanità è già afflitta da sin troppi mali da fronteggiare, a
cominciare da quella malattia incurabile che è la vecchiaia (senectus ipsa
morbusimmedicabilis, scrive l'autore di Dulce bellum inexpertis,
riprendendo un detto di Publio Terenzio Afro nella commedia Phormio del
160 a. C., sul quale tornò a riflettere anche Poggio Bracciolini nel suo De
miseria humanae condicionis, 1455); non si avverte dunque alcun bisogno di
aggiunte così dolorose come la guerra! (cfr. AD, 228-229).
Erasmo
fa un elenco minuzioso e impressionante dei mali pressoché infiniti riguardanti
la vita quotidiana degli uomini e conclude: "Nulla pars orbis estunde
non immineat periculum humanae vitae alioqui per se quoquefugacissimae"
("Nel mondo non c'è elemento che non rappresenti una minaccia incombente
sulla vita dell'uomo, già di per sé fugacissima"). Tanti sono i mali che
già Omero nell'Iliade dichiarò l'uomo "il più infelice dei viventi" (miserrimusanimantium). Leggiamo infatti nell'Iliade (XVII, vv. 446-447) sulla
condizione umana: "οὐ μὲν γάρ τί πού ἐστιν ὀϊζυρώτερον ἀνδρὸς πάντων ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶἕρπει" ("non c'è
nulla più degno di pianto dell'uomo, / fra tutto ciò che respira e cammina
sulla terra").** Molti
mali, però, sono inscritti nelle leggi della natura, irrimediabili e
indipendenti dalla nostra volontà, possono fare di noi degli sciagurati o
sventurati (calamitosi); la guerra, invece, fa di noi dei facinorosi, ossia dei
delinquenti, scellerati, malvagi, in quanto responsabili delle nostre azioni. È
dunque assurdo, totalmente insensato tirarci addosso il male volontariamente,
con la nostra scelta e responsabilità; non un male qualsiasi, poi, ma proprio
quel malum che, tra tutti i mali, è particolarmente orribile (teterrimum),
rovinoso (perniciosum), prolifico (foecundum) e ci rende
miserrimi allo stesso tempo che indegni di commiserazione, fatta eccezione per
coloro che lo subiscono senza colpe (cfr. AD, 228-229). I
frutti e le opportunità della pace (commoda pacis) si diffondono latissime
("a largo raggio") e a molti, mentre i vantaggi della guerra -
sovente effimeri, transitori e assai discutibili - riguardano sempre pochi e
spregevoli esseri umani (pauci indigni, sceleratissimi). Come già
sappiamo, infatti, la "cultura della pace" di Erasmo considera la
pace res tum optima tum iucundissima; la guerra, invece, con tutti i
suoi spaventi (metus) e rischi (pericula), resmiserrima
et sceleratissima; se le cose stanno così, soltanto un folle può, oltretutto
"fra le più grandi difficoltà" (summisdifficultatibus),
scegliere e assecondare quest'ultima (cfr. AD, 230-231, 258-259). La
disamina erasmiana non manca poi di soffermarsi con lucidità sulle ristrettezze
e sui disagi, sulle miserie e sulle asprezze, sulla vera e propria maledizione
della stessa vita quotidiana dei soldati durante le guerre, costretti alla più
totale obbedienza e sottoposti ad una schiavitù (servitus) più indegna
di quella degli schiavi (cfr. AD, 230-233). L'aut-aut di chi combatte o si
trova in una situazione di guerra non lascia scampo, è secco: si è vittime o
carnefici, si è obbligati a uccidere o a morire, si fa il male o lo si riceve;
in ogni caso, si è irretiti nel male nostro e altrui; ma chi partecipa della
humanitas, ricorrendo al lume della ragione, non può scegliere il male.
Note [*]È
da raccomandare l'ottima edizione italiana di Iulius exclusus e coelis (1517), in Erasmo da Rotterdam, Giulio, a cura di S. Seidel Menchi,
Einaudi, Torino 2014. Sul rapporto fra potentiae
clavis e scientiae clavis, cfr.
le pp. 4-5. [**]Omero,
Iliade, XVII, 446-447, a cura di R.
Calzecchi Onesti, Prefazione di F.
Codino, Einaudi, Torino, 1950 e 1990, pp. 622-623.