Non
contiene le soluzioni alla crisi e alle speculazioni. Non
si può certo dire che l’esercizio dell’ars
oratoria sia il pezzo forte del repertorio di Mario Draghi. Lo si è notato
anche a Rimini, durante il tradizionale appuntamento di Comunione e
Liberazione, oramai diventato una passerella per membri del governo presente o
futuro. L’unico momento nel quale il tono di voce del Presidente del Consiglio
uscente si è leggermente innalzato dalla monotona lettura del suo discorso, è
stato quando ha manifestato la sua convinzione che il prossimo governo “qualunque
sia il suo colore politico” riuscirà a superare difficoltà che “oggi appaiono insormontabili”
e che quindi “l’Italia ce la farà, anche questa volta”. A questa volitiva
previsione si sono voluti contrapporre i dati riportati dal Financial Times - che pure ha sempre
apertamente sostenuto la leadership di
Draghi - che dimostrerebbero la scommessa degli hedge fund su un fallimento
italiano. Il contrasto ha sollecitato la fantasia di dietrologi di vario
orientamento. Se si esclude che il passaggio di Draghi sia stata buttato lì per
puro patriottismo, è ancora più difficile pensare che “l’uomo delle
istituzioni”, ovvero della finanza, non fosse al corrente delle valutazioni
della agenzia americana S&P Global market su cui si è poi fondato l’articolo
del giornale londinese. Quei dati non sembrano, per ora, avere provocato particolari
traumi sui mercati finanziari. Lo scarto tra Btp e Bund tedeschi si è
addirittura ridotto di quasi dieci punti, così come è sceso il rendimento del
Btp a dieci anni. L’allarme lanciato dal Financial
Times nasce dal fatto che il
valore dei titoli ceduti senza possederli per poi ricomprarli a prezzi
inferiori ammonta nel caso dell’Italia a 39 miliardi di dollari. Le “vendite
allo scoperto” non sono una novità. È una delle pratiche che Luciano Gallino
proponeva di cancellare nella sua proposta di riforma della finanza. Si tratta
di un valore in assoluto superiore a quello verificatosi nel 2008. Ma se lo si
confronta con la crescita del debito pubblico italiano, attualmente di 2766 miliardi, mille in più rispetto al tempo della crisi innescata dai subprime, la cifra risulta in percentuale
ridimensionata. Altrove lo “scoperto” su cui si giocano le scommesse
speculative è più accentuato: circa 81 miliardi in Francia, quasi 98 in
Germania. Ma tutto ciò non nasconde la debolezza strutturale del nostro paese,
la sua maggiore esposizione al rischio di un blocco totale del gas russo, al
fatto che il sostegno della Bce è comunque molto diminuito rispetto a qualche
mese fa. Se ci si mette anche l’instabilità politica il quadro della maggiore fragilità
dell’Italia si arricchisce di un nuovo elemento. Ed è particolarmente su questo
aspetto che ha voluto insistere Draghi nel suo discorso di Rimini. In sostanza
ha voluto dire che il suo governo, implementando le politiche europee, ha
tracciato un solco ben preciso, dai bordi ben marcati - il Pnrr ci terrà per
mano almeno fino al 2026 - dai quali un nuovo governo, anche se di diverso
colore politico, ben difficilmente potrà uscire. Insomma Draghi ha postulato -
al di là di quella che sarà la sua personale collocazione futura -
l’ultrattività delle sue politiche, ben al di là della morte di poco prematura
dell’attuale legislatura. Sia per quanto riguarda le questioni economiche, sia
per ciò che concerne la collocazione internazionale piattamente atlantista, il
sostegno all’espansionismo della Nato e l’invio di armi in Ucraina.
Non è un
caso che la Meloni si sia subito precipitata a lanciare messaggi di cautela e
di acceso filoatlantismo alla stampa internazionale. Intanto si moltiplicano le
previsioni di una recessione connessa a stagflazione per quanto riguarda
l’Europa e in misura diversa anche gli Stati Uniti. La “stagnazione secolare”
non appare più una esagerazione allarmistica, ma una previsione con seri
fondamenti su cui ragionare. Ora si attendono le prossime decisioni che
verranno prese a Jackson Hole, la riunione dei banchieri centrali, per quanto
riguarda l’innalzamento dei tassi, l’unica medicina che viene offerta
all’economia mondiale che ha in realtà ben altri problemi che non solo l’impennata
dell’inflazione. Per questo bisognerebbe uscire dal perimetro politico ed
economico tracciato da Draghi. Restarci dentro non significa solo dimostrare la
propria inutilità, ma comporta il rischio di restarne stritolati. Non siamo più
ai tempi del whatever it takes. Era
già vero allora, ma adesso più che mai: le politiche monetarie non risolvono le
crisi economiche e il tempo che passa dalla fase acuta di una crisi ad un’altra
si sta restringendo sempre più. E la guerra - che non si vuole fermare, ma
vincere, stando alle esplicite dichiarazioni dei suoi principali protagonisti -
porta con sé la distruzione dell’ambiente e l’impoverimento di grande parte
delle popolazioni europee. Un tempo dalla guerra poteva nascere una
rivoluzione, ora solo un pacifismo concreto può innestare un processo di
trasformazione.