In occasione della giornata
contro la violenza alle donne il 25 novembre, fra convegni e incontri in ogni
parte d’Italia, è tornato in auge anche il dibattito (invero mai passato di
moda) sull’emancipazione femminile. Mi vengono in mente le Femen, un gruppo di
attiviste ucraine che inscenano plateali manifestazioni di protesta contro il
potere costituito. Sono diventate popolari perché spesso lo fanno spogliandosi
degli indumenti e restando a seno nudo. Una loro celebre sortita fu l’assalto a
Mario Draghi presso la sede della Banca Centrale Europea a Francoforte. Mentre
il Presidente della BCE teneva una conferenza stampa, una attivista, riuscita
ad eludere la sicurezza spacciandosi per giornalista, saltò sul tavolo e al
grido di “Stop alla dittatura della BCE”, sommerse lo spaurito Draghi di
volantini e coriandoli, prima di essere fermata dalle forze dell’ordine. Le
Femen sono emule delle Pussy Riot, il gruppo punk russo di femministe che si
battono contro la dittatura di Zar Putin e che infatti sono purtroppo in
galera. Dico “potere rosa” e mi viene in mente Pink Power ranger,
guerrieraninja strizzata nel suo costume rosa nei famosi telefilm per ragazzi.
Quando dico femministe, penso a Mary Wollstonecraft, intellettuale inglese del
Settecento e madre di Mary Shelley. “Mary” si intitolava anche il suo romanzo
in cui criticava l’istituto del matrimonio e rivendicava un margine di libertà
per la donna fino ad allora sconosciuto. Il suo trattato “Rivendicazione dei
diritti della donna” fu uno dei primi scritti femministi della storia della
letteratura. Penso anche a Emmeline Pankhurst, la leader delle suffragette
inglesi che si batté, nell’Ottocento, per ottenere il diritto di voto per le
donne. Poi mi viene in mente una vecchissima canzone di De Gregori, “Informazioni
di Vincent”, che recita: “una foto di Angela Davis muore lentamente sul muro”.
Tanti anni son passati da quando ascoltai questa canzone per la prima volta e
preso dalla curiosità per quel nome citato dal cantautore romano volli sapere a
chi appartenesse. Scoprì così che si trattava di una leader nera del femminismo
americano, comunista e attivista delle Pantere Nere. Perseguitata dal Ku Klux
Klan e imprigionata per un delitto che non aveva commesso, autrice di libri
importanti fra gli anni Ottanta e Novanta. Queste riflessioni mi sono venute in
mente imbattendomi in rete nella celebre immagine dell’operaia simbolo delle
lotte femministe nel poster bellico “We can do it!”: frase ripresa da Barak
Obama nelle elezioni presidenziali americane 2008, nella variante “Yes, we
can!” , e scimmiottata anche in Italia da Matteo Renzi nella sua campagna
elettorale di svariati anni fa. In America, circolava anche una foto
dell’operaia simbolo del femminismo con il volto di Obama. Io non sono mai
stato un appassionato del movimento femminista, pur riconoscendo che esso abbia
una validità storica su cui occorre quanto meno documentarsi e dei meriti
indiscussi. Molte sono state le conquiste di questo movimento mondiale,
infatti, troppo sbrigativamente derubricato dagli uomini come comunista e
troppo superficialmente sintetizzato e simboleggiato dalla mini gonna di Mary
Quant (sebbene a fine Ottocento la femminista francese Hubertine Auclert creò
addirittura una “Lega per le gonne corte”, per arrivare a questo risultato). Tante
e importanti le conquiste sociali del movimento femminista, messe duramente a
repentaglio quando vediamo una come Flavia Vento farfugliare in tivù
castronerie dettate dal suo vuoto mentale o una come Lory Del Santo, già regina
del trash cinematografico, presentare l’ennesima puntata della sua web com “The
lady”.