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venerdì 10 marzo 2023

POLITICA E PRESENTE
di Franco Astengo

 
Senza intellettuali. Politica e cultura negli ultimi 30 anni in Italia”: Giorgio Caravale ha affrontato il tema con un suo testo che sta per uscire presso Laterza e i cui contenuti “sono stati analizzati in anticipo in un confronto pubblicato dalla “Lettura” del Corriere della Sera.
Nell’occasione di questo intervento si riporta soltanto una sola frase del dibattito in questione: “la crisi dello Stato Nazione e l’avvento di una politica appiattita sul presente hanno tolto spazio alla storia”. Si può assumere questo punto, dell’appiattimento della politica sul presente per cercare di alzare lo sguardo per cercare una risposta alla crisi dell’idea di progresso. Una risposta che non può essere quella arretrata del rilancio del concetto di territorialità, di legame dell’uomo alla terra, di definizione dell’avanzata tecnico-industriale come causa livellatrice delle differenze culturali e storiche tra i popoli. L’ultimo decennio del secolo scorso è stato contrassegnato dall’acquiescenza del concetto di “fine della storia”, di assuefazione al colossale fraintendimento che la fine del bipolarismo contenuto nella logica dei blocchi coincidesse con l’apertura di mercati senza fine, con lo spargimento della buona novella del trionfo della globalizzazione e della fine dello “Stato-Nazione”.
Concetti adottati da tutti e che hanno dato vita a “pericolose illusioni”.
La fine del fraintendimento rappresentato dal “socialismo reale” (il “passato di un’illusione” di Furet) si è accompagnata, senza soluzione di continuità, a un altro clamoroso abbaglio dell’interpretazione sbagliata della “fine della storia”. Gli intellettuali, nel momento in cui la storia del mondo sembrava aver svoltato (almeno in apparenza) hanno inteso servirsi della tecnica, guidata dalla scienza moderna, per realizzare l’omologazione di un certo tipo di uomo e di società, attorno ad una “polis” concepita attraverso il “pensiero unico”. Ognuno intendeva porsi, cioè, come il fine rispetto allo strumento esasperando il concetto dell’immutabilità della storia (e della negazione dello storicismo) fino a oscurare la ricerca della verità. È in atto invece, almeno a mio modesto avviso, un processo che, daccapo, è il rovesciamento del rapporto tra mezzo e fine. Non sarà più la polis capitalistica a servirsi della tecnica, ma la tecnica a servirsi del capitale, e non sarà più la polis democratica a servirsi della tecnica, ma la tecnica a subordinare a sé la democrazia. Una forma, questa del rapporto tecnica di governo-rappresentatività politica che sta assumendo aspetti di assolutismo per i quali un richiamo a Schmitt non appare davvero peregrino. Questi sono i punti, grossolanamente esposti, sui quali sarebbe necessario avviare una riflessione, per porsi sulla strada di ricerca una diversa via dell’agire politico. Non siamo attaccati alla terra d’origine e non vogliamo abbandonare la visione dell’universalismo dettata dall’Utopia: tanto più in un momento in cui appare così stringente il tema della guerra. Universalismo dell’Utopia che dovrebbe nuovamente essere inteso come internazionalismo della visione politica da declinare come mezzo concreto per il riscatto umano. È necessario riflettere attorno a un vero mutamento di paradigma tornando ancora, gramscianamente, a intendere la politica come tensione egemonica, recuperando lo spirito “di parte”. Uno “spirito di parte” da porre al centro nel processo di evoluzione storica di mutamento nell’insieme delle relazioni politiche e sociali. La modernità può essere intesa partendo dalla proposizione di una concezione della critica che raccolga le differenze emergenti nella realtà puntando a realizzare una sintesi progettuale raccolta in una scansione concreta dell’insieme delle contraddizioni moderne e post- moderne per realizzare una nuova “sintesi del progredire umano”. Si tratta di tornare a essere in grado, perlomeno sul piano teorico, di porci sul terreno della proposizione di una “diversità sociale” al riguardo dell’esistente. Esistente che non deve essere considerato come immutabile nell'espressione di una ineluttabilità del conformismo. Non può esistere neutralità rispetto a questo passaggio, né arrendevolezza verso gli estremi dell’abbandonarsi alla logica del potere. Essere consapevole di questa esigenza di non neutralità, d’intervento attivo, di rinuncia all’astrattezza e al disimpegno, ci fa tornare alla politica: Politica intesa come umana coesistenza quando questa assume l’aspetto di una consapevole identità collettiva, considerata dal punto di vista del Potere e del Conflitto.