Il mito,
con i suoi valori ancestrali e l’onnipresenza in ogni epoca, insopprimibile
bisogno dell’animo umano, ha segnato anche l’esperienza letteraria di Cesare
Pavese sino a farne uno dei due modi a cui ricorse per fuggire dal travaglio
della vita: l’altro, com’è noto, è stato il gesto estremo del suicidio con cui
pose fine al suo male di vivere a nemmeno 42 anni di età e nel pieno del suo
fervore culturale. Sul significato acquisito da tale termine nello scrittore e
poeta di Santo Stefano Belbo è uscito da poco un interessante saggio dal titolo:
Cesare Pavese. Il mito (214 pagine) a cura di Marcello Veneziani per
Vallecchi Firenze: due le parti di cui il volume si compone con la prima
dedicata a sviscerare, approfondire e confutare quanti hanno elevato Pavese a canone
intoccabile, campione di quel filone neorealista da cui si sentiva invece
lontano, figlio di una narrazione resistenziale che non corrisponde
completamente a ciò che nella realtà si è prodotto (le sue simpatie verso il
fascismo e il nazismo seppur non programmatiche furono censurate a lungo),
mentre la seconda sezione raccoglie alcuni degli scritti e saggi pavesiani, già
apparsi su quotidiani e riviste, o brani di alcune opere, che rendono giustizia
alla sua visione e al senso del mito nell’opera e nel suo travaglio di vita
muovendo dalle teorie e dalla filosofia di Vico da una parte e di Nietzsche
dall’altra. Esso è, nei fatti, una presenza costante che non si rinviene
esclusivamente nei letterati e nei pensatori, ma che vieppiù cresce e si
consolida in ogni persona: è, scrive Veneziani, la necessità di ricorrere alla
favola per astrarci, per sublimare la meschinità o la malignità dell’esistere,
per guardare oltre ciò che ci sta sotto gli occhi. È l’infanzia che resta da
adulti, quando ormai siamo “corrosi” dalla ragione che ci fa perdere
l’originario e immediato contatto con le cose, ma è altresì un dialogo con
l’amore, elemento precipuo per accostarsi al mito: per Stendhal “l’innamoramento
è la mitizzazione della persona amata” che assurge a essere quasi divino. Ma
dove è più pregnante, in quale testo di Pavese si manifesta meglio il senso del
mito?
Probabilmente in Dialoghi con Leucò, il libro che aveva con sé
quando si suicidò, quello che sentiva più caro: qui il mito si fa narrazione,
riflessione, conversazione tra l’umano e il divino, nel quale i personaggi
legati ad esso prendono vita. Non è un semplice o sterile rifugiarsi in una
sorta di torre d’avorio, semmai un lasciare libero campo alla fantasia e anche
all’irrazionalismo (per cui lo scrittore fu tanto criticato da quello che
Veneziani chiama “L’Intellettuale Collettivo”) lontano dal “necessario e
indefettibile” impegno ideologico di matrice comunista. A quanti lo accusavano
di ricorrere a sovrastrutture mentali in luogo della narrazione storicista egli
replicò così: “Potendo si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia.
Ma siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè non
qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i
linguaggi, una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbero
rendere”. Più suggestiva ancora è la definizione contenuta nell’omonimo
manoscritto dal titolo “Il mito”: “I poeti nel cui animo gli spunti mitici
hanno una giovinezza immortale, una ricchezza che sopravvive (…) sono ben rari,
sono i cosiddetti geni della stirpe”. Nel volume plurimi sono i passaggi in cui
lo scrittore delle Langhe affronta il suo porsi di fronte a questo elemento, a
come esso abbia impregnato parte della sua produzione, quasi sempre con un
richiamo ai luoghi, agli odori, alle immagini, a quell’insieme di aspetti,
“mitici” appunto, della propria infanzia. A Fortini, marxista eretico che fece
della poesia un mezzo per segnare lo steccato ideologico entro cui si muoveva,
Pavese rispose con altrettanta sagacia: “Lo studioso ‘scientifico’ rischia di
dimenticare il carattere più importante del mito, vale a dire l’assoluto valore
conoscitivo ch’esso rappresentò, la sua originalità storica, la sua perenne
vitalità nella sfera dello spirito”. Il mistero, la natura, la campagna
venivano da Pavese contrapposti alla storia, all’impegno politico, alla
fabbrica, soggetti questi ultimi fondanti la tradizione socialcomunista
postbellica. Abbandonando per sempre il mondo terreno egli ha voluto, forse,
partire insieme a quei miti che lo hanno rincorso fin dall’infanzia e dalla
giovinezza, ai quali ha guardato e favoleggiato, per i quali è stato attaccato e
vilipeso lasciandoci tuttavia una testimonianza che suona come invito per tutti,
valido in qualunque epoca: “Una cosa si salva sull’orrore, ed è l’apertura
dell’uomo verso l’uomo”, una sorta di neo umanesimo di cui, oggi ancor di più,
si sente una stringente necessità.