Alcune riflessioni sulla professione del reporter. Wolfgang Bauer è un reporter che da anni
lavora per il settimanale tedesco “Die Zeit”. Uno degli ultimi veri reporter,
che non si limita ad andare in luogo dove sta succedendo qualcosa e a
raccontare ciò che vede in quel momento. Prima di partire, Bauer studia: legge,
analizza la storia del Paese o della regione che vuole visitare, poi prende
contatti con le persone che desidera conoscere e intervistare e solo a quel
punto sale sull’aereo. Il lavoro del reporter è simile a quello di un ragno che
tesse la propria ragnatela, non per catturare prede ma per capire al meglio il
posto che vuole descrivere e raccontare. La realtà non è quella che si vede a
occhio nudo, ma è sempre più complessa di ciò che sembra. Ce lo insegnano la
fisica e la chimica: il foglio di carta o lo schermo che abbiamo davanti sono
un incredibile insieme di molecole che forze a noi invisibili tengono insieme.
Lo stesso discorso vale per i rapporti umani (tutti, sia quelli sentimentali
sia quelli politici), i quali hanno spesso una validità simbolica più che
reale: due persone che camminano per strada e parlano fra loro, un corteo di
sposi, dei bambini che giocano, degli studenti che ascoltano la lezione in una
scuola - scene apparentemente banali - sono il punto di incontro di una serie
complicatissima di coordinate storiche, politiche, sociali, maturate nel tempo,
spesso addirittura nei millenni. Il reporter deve cercare di capire le
motivazioni profonde di ciò che accade, e non parliamo solo dei grandi
avvenimenti come le guerre, ma anche e soprattutto della vita quotidiana, dei
gesti e dei segni che caratterizzano l’esistenza e le relazioni in un
determinato luogo. Un lavoro molto simile a quello del ricercatore universitario,
del sociologo e dello psicologo. Uno sforzo enorme che richiede tempo, studio,
riflessione e, naturalmente, viaggi nel luogo oggetto di analisi. Nella
comunicazione mediatica attuale, non c’è spazio per un simile mestiere:
giornali e televisioni cercano infatti notizie immediate, da consumare al
momento sugli schermi dei nostri computer. È come se vivessimo un nuovo
Barocco, un tempo in cui era l’immagine a contare: anche oggi, crediamo solo
all’immediatezza della fotografia o del servizio televisivo. Le immagini, però,
non danno conto della complessità di ciò che la macchina fotografica o la
cinepresa catturano (fanno eccezione alcuni fotoreporter, come per esempio
Roberto Travan, che grazie alla fotografia riescono a restituire l’atmosfera
del posto in cui si trovano: parliamo però di veri e propri artisti, rarissimi
al giorno d’oggi). Raccontare un luogo, una cultura diversa, richiede studio,
riflessione e parole: per questo, il reportage scritto è ancora uno dei mezzi
migliori per descrivere il mondo. Il reporter costruisce un discorso volto ad
armonizzare ciò che ha imparato in biblioteca con quello che ha visto e sentito
sul campo. La scrittura giornalistica esige tempo e arriva sempre un po’ in
ritardo rispetto alla notizia, come ha ben sottolineato Domenico Quirico, uno
dei più grandi reporter italiani. È questo ritardo a infastidire gli editori e
i direttori di testate, che puntano invece sullo scoop e su una narrazione che
parli dell’evento mentre è in corso. In questo momento in Ucraina non ci sono
reporter, ma inviati, che vanno solo nei luoghi dove accade qualcosa. Solo
alcuni grandi giornali, come “Die Zeit”, hanno ancora reporter veri e propri,
ma non più di uno o due.
Wolfgang Bauer e l’Afghanistan Wolfgang Bauer
ha cercato, per più di vent’anni, di raccontare l’Afghanistan. Un compito
difficilissimo, dato che il Paese è da ogni punto di vista estremamente
complicato. Bauer ci è riuscito e ha raccolto i suoi reportage in un libro di
inenarrabile bellezza e ricchezza, Am Ende derStraße, “Alla fine
della strada” (Suhrkamp, 2022), un volume che per ora è disponibile solo in
tedesco. Bauer racconta la sua ultima visita in Afghanistan, avvenuta alla fine
del 2021. Attraverso flashback, l’autore ricorda com’era il Paese prima della
caduta nelle mani dei talebani e ci informa sul destino delle persone
conosciute durante il periodo democratico, la maggior parte delle quali è
scappata e ha trovato ricetto negli USA o in Europa. Un reportage, quello di
Bauer, delicato e poetico, ma anche impietoso e duro: l’Occidente che, spesso
in buona fede, avrebbe voluto aiutare il popolo afghano a costruire la
democrazia, non ha tenuto conto della complessità della società in cui si
trovava, divisa a livello etnico e politico. Un esempio lampante è quello di Sybille
Schnehage, che in Germania ha raccolto fondi per ricostruire un villaggio nei
pressi di Kurkuz, nel nord dell’Afghanistan, ma ha dato il potere solo agli
uomini di una delle due fazioni presenti nel centro abitato. L’altra fazione, insoddisfatta
di questa (ingiusta) preferenza, ha appoggiato i talebani, i quali hanno ovunque
in Afghanistan la fama di essere meno corrotti dei governi filo-occidentali.
Nel giro di pochi mesi, i talebani sono così riusciti a prendere possesso del
villaggio, Sybille è dovuta tornare in Germania e i suoi sforzi si sono
rivelati non solo vani, ma anche controproducenti. Tutto ciò che ha costruito
con i soldi dei benefattori tedeschi - scuole, ospedali, asili - è ora nelle
mani dei talebani.
Il racconto di
Bauer si snoda lungo le località della “Ring Road”, la strada che, ad anello,
collega tutte le principali città del Paese e che l’autore ha percorso in tutta
la sua lunghezza. Il percorso della “Ring Road” comincia e finisce a Kabul.
Passa per Maidan Shahr (dove, prima del ritorno dei talebani, c’era la prima
sindaco donna, molto amata in Occidente ma bugiarda e incapace come tutti gli
altri politici venuti prima e dopo di lei), Ghazni, Kandahar, la vera capitale spirituale
dell’Afghanistan, Herat, con il suo mosaico etnico di pashtuni, hazara e tagichi,
Deh Warda, il paese che ha scoperto l’acqua nel sottosuolo ed è diventato
improvvisamente ricco, il passo del Salang, con la sua galleria sotto l’Hindukusch
che, quando si blocca per il ghiaccio o un incidente, causa un forte aumento
dei prezzi in tutto l’Afghanistan. Il grano di cui l’Afghanistan ha bisogno,
infatti, proviene dall’Uzbekistan e transita attraverso questo tunnel a 3400
metri di quota. La Ring Road, la cui costruzione è cominciata durante gli anni
’60 del secolo scorso e non è mai stata terminata, doveva essere il simbolo
dell’unità nazionale: gli americani l’hanno ricostruita, fra scandali e
insuccessi, per farne l’emblema del nuovo Afganistan democratico (fra
Qala-i-Naw e Maimana la strada è solo una pista di terra battuta: i talebani
controllavano quel pezzo di territorio e, nello stesso tempo, le ditte che
avrebbero dovuto eseguire i lavori, in mano ai signori della guerra appoggiati
dagli stessi americani, hanno rubato i finanziamenti e trasferito i soldi su
conti privati all’estero). Bauer ci fa conoscere persone ed edifici, ci spiega
il perché delle faide che scuotono continuamente il Paese. Un mosaico umano di
rarissimo valore: Am Ende der Strasse è un libro che ricorda gli scritti
di Richard Kapuściński, il più grande reporter di tutti i tempi. Un
genere che affonda le proprie radici nell’opera di Erodoto, il primo reporter
della Storia, che nel V secolo a.C. intraprese viaggi avventurosi per
descrivere culture altre. Come Kapuściński, come Bauer, come Domenico Quirico e
Daniele Bellocchio - solo per citare alcuni dei più grandi reporter del nostro
tempo - Erodoto sentiva l’esigenza di vedere, conoscere, analizzare e capire i
popoli di cui voleva scrivere la Storia. Wolfgang Bauer ha il grande merito di aver avvicinato al
lettore l’Afghanistan; persino i talebani, nel racconto di Bauer, appaiono per
quello che sono: essere umani, che, dopo aver riconquistato l’Afghanistan, si
trovano davanti a un problema forse più grande di loro: modernizzare l’Islam o
islamizzare la modernità? Se vogliono continuare a mantenere il potere,
dovranno scendere a compromessi con le esigenze delle numerose entie della
società e, soprattutto, con quelle delle donne, ormai sempre più proiettate
verso la modernità.