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giovedì 22 giugno 2023

TEBE È MORTA
di Angelo Gaccione


Donatella Bisutti
 
I temi che Donatella Bisutti ha messo al centro della riflessione nel suo recentissimo poema “epico” dal titolo: Erano le ombre degli eroi (Passigli, pagg. 208 € 19,50), “Odissea” li tratta quotidianamente da almeno vent’anni, tanti quanti sono gli anni del giornale. Lo ha fatto di recente anche Giuseppe Langella con il suo Pandemie e altre poesie civili pubblicato da Mursia nella Collana Gli argani diretta da Guido Oldani. È un’ottima cosa perché l’attenzione al reale si era completamente persa in poesia e l’insistenza di Oldani, almeno nel giro dei suoi “terminali”, qualche buon frutto lo ha dato. Langella lo fa in maniera esplicita e senza travestimenti scavando nella cronaca e mostrandocene tutte le brutture, in modo che non si creino ambiguità e soprattutto alibi di sorta. Il male e il baratro ce li sbatte sul grugno, come a dire: ecco la fotografia della realtà, ora sta a voi decidere se volete ancora sopravvivere o inabissarvi. Bisutti lo fa attraverso una ampiezza temporale enorme e in una continua dialettica fra antichità (tempo degli dèi e degli eroi) e contemporaneità (scomparsa del sacro e implosione definitiva di Tebe divenuta una immensa discarica di rifiuti e dal loro peso seppellita nella frana inevitabile che si è determinata). Come si vede siamo già alla conclusione, al tramonto definitivo della civiltà europea, di quella Tebe che dalle sue origini fino all’epoca della tecnologia pervertita e della scienza criminale, si era eretta come un faro di sapere, scrittura, invenzione, creatività, diritto, ecc. ecc. Non è che nella Tebe lontana fosse tutto così luminoso: dèi ed eroi erano stati altrettanto spietati e crudeli. Miti ed eroi ce ne danno la conferma, tanto che nel mio libretto di aforismi e riflessioni, Il lato estremo, il 168° pensiero così recita: “Per la civiltà degli antichi la guerra era il luogo della gloria; per noi moderni vale il discorso opposto: il luogo della guerra è la barbarie”. La storia passata e presente si sarebbe incaricata di dimostrarci che la guerra è stata la sua costante. La guerra come costante della storia. Il poema di Bisutti chiude la sua parabola temporale a ridosso della pandemia da Covid; se avesse aspettato ancora qualche anno molto probabilmente si sarebbe chiuso con l’apocalisse nucleare della Tebe contemporanea innescato dal conflitto Russia-Ucraina-Nato, invece che dai rifiuti e dalle plastiche che già da tempo galleggiano in vastità oceaniche. Rifiuti che non semplici buontemponi, ma menti di scienziati (menti malate ma pur sempre dotte), vorrebbero sparare nello spazio per disfarsene.


Bisutti al Festival internazionale
della Poesia a Genova

C’è di tutto in questo poema, e non c’è argomento fra quelli più drammatici che non venga messo in rilievo lavorato dalla lingua poetica di cui si serve. Si tratta di un elenco lunghissimo che quotidianamente cade sotto i nostri occhi oramai assuefatti alla coazione dei mezzi di comunicazione. Ma l’ammonimento che ci viene attraverso l’espressività del poeta, la pregnanza della sua parola, la densità umana del dettato, la responsabilità a cui siamo chiamati dalla disposizione teatrale dei dialoghi con cui molti testi sono strutturati, il continuo rimando al mito, alle figure più emblematiche ed allegoriche per capire noi stessi e la storia di cui siamo stati figli, hanno uno spessore ben diverso dalla caducità effimera dei giornali destinati come sono a durare lo spazio di un mattino. Voglio chiudere questa nota riproducendo l’esteso Atto XLVIII dal titolo “I rifiuti di Tebe” che occupa tre pagine, e che sintetizza meglio di un intero saggio la deriva a cui siamo approdati. Tragicamente, ma per fortuna la poesia torna a farsi di nuovo consapevole.
 


I rifiuti degli abitanti di Tebe diventavano troppi./ C’erano avanzi di cibo, confezioni di plastica,/computer rottamati di penultima generazione,/ scatole di imballaggio, lattine di coca cola,/bottiglie vuote, frutta andata a male, pizze/ancora confezionate, batterie esaurite,/ medicinali scadute, suole di poliuretano sbriciolate,/calzini in poliestere, giornali, avanzi di detersivi in polvere,/escrementi di cani./Montagne di rifiuti si alzavano verso il cielo,/oscuravano l’orizzonte./Ma niente poteva fermare gli abitanti di Tebe/nella loro smania di cibo che poi non riuscivano a ingurgitare./Non rinunciavano ad accumularlo sulle loro tavole,/a conservarlo nei loro frigoriferi finché marciva./Niente poteva impedire loro di gettare T-shirt,/pentole, orologi, cellulari, lavatrici/per comprarne di continuo di nuovi, di migliori, più belli,/più adatti al loro tono di vita./Montagne di libri/che nessuno aveva mai sfogliato,/venivano rovesciati dai camion nelle discariche./I rifiuti formavano ormai una muraglia/che cingeva Tebe da ogni lato./


Si decise allora di bruciarli. Fuochi ardevano/e fumavano nella notte./Il lezzo era insopportabile./Gli abitanti di Tebe non riuscivano a respirare/ tossivano senza sosta e i loro polmoni vennero intaccati/da un male inguaribile./Allora caricarono i rifiuti su carri/che li trasportassero lontano/e da lì su navi che li gettassero nell’oceano, al largo/dove nessuno poteva vedere./


E l’acqua del mare si riempì di bolle schiumose, i pesci morivano,/dal mare salivano al cielo piogge acide,/che uccidevano le piante./gli animali erbivori mangiando quelle piante/si avvelenavano./Gli animali carnivori mangiavano carne avvelenata./E alla fine anche tutto quello che continuavano a mangiare/gli abitanti di Tebe, era avvelenato./
 
Ruspe spianavano di notte le montagne di rifiuti intorno a Tebe/a man mano che venivano portati via./ma il giorno dopo le montagne si innalzavano di nuovo./ I Tebani non potevano più mettere freno alla loro fame compulsiva/di cibi e di oggetti, senza i quali non riuscivano a vivere./I loro bisogni erano artificiali/e per essere artificiali non potevano avere fine./


Sepolti nella caligine non vedevano più il giorno,/non distinguevano più le fasi della luna,/nessuno più scorgeva le stelle sporgendosi dalla finestra, la notte./Si era persa la nozione di Natura./I bambini pensavano che le galline/fossero i polli spennati che vedevano infilzati sugli spiedi/e se ne incontravano una viva, per caso, erano presi da meraviglia./Credevano che le pallide pere spuntassero/nelle vaschette di plastica/e il latte uscisse dai tubi di una macchina./Solo gli anziani ricordavano l’orgoglio delle spighe dorate/ritte nel campo, lucenti come il sole, sotto il sole d’estate./


Tutto per i Tebani doveva essere confezionato, incartato,/protetto da sacchi e fogli di plastica,/per essere conservato oppure per essere gettato/e quella plastica andava poi galleggiando indistruttibile sul mare./


Le montagne di rifiuti continuavano a salire/e la terra moriva lentamente, avvelenata./


Finché un giorno Tebe, divenuta un’enorme discarica,/franò, seppellendo se stessa/nei suoi stessi rifiuti./E la terra,/finalmente,/cominciò a essere purificata.